Quando Jochannan ben Zakkai fu fatto uscire da Gerusalemme assediata in un funerale simulato, Rabbì Eliezer fu uno dei due discepoli scelti per portare la bara. In quel momento Eliezer era già considerato come uno dei grandi maestri della sua generazione, ma ovviamente la personalità del suo maestro lo poneva ancora in secondo piano. Alla morte di Jochannan ben Zakkai, Rabbì Eliezer assunse naturalmente, insieme a pochi altri Maestri, il ruolo di guida della nuova scuola. Ma la sua educazione, la sua natura e particolari condizioni politiche lo costrinsero ad un isolamento progressivo e a uno scontro drammatico con gli altri colleghi. Nella storia dei Maestri d’Israele la figura di Eliezer è divenuta la simbolica rappresentazione di un gigante dello spirito che per la coerenza nelle sue scelte e la fedeltà alle sue radici culturali rifiuta qualsiasi compromesso al prezzo dell’isolamento totale.
Eliezer ben (cioè figlio di) Hurqanos nacque in una famiglia agiata di proprietari terrieri, e si dedicò all’amministrazione dei suoi beni insieme alla famiglia. Le fonti sulla sua infanzia sono contraddittorie; sembra che avesse dato già precocemente i segni della sua eccezionale disposizione allo studio; ma a quanto pare fu solo tardivamente, all’età di ventidue (secondo altre fonti di ventotto) anni, che si risvegliò in lui la passione per lo studio dei testi sacri; fu ostacolato dalla famiglia, dalla quale ebbe un distacco traumatico, per potersi recare alla scuola di Gerusalemme diretta da Jochannan ben Zakkai. Nella scuola brillò subito: il Maestro lo paragonò a un pozzo rivestito da calce, che diventa impermeabile e non perde neppure una goccia, e aggiunse che se tutti i sapienti d’Israele fossero stati posti su un piatto della bilancia ed Eliezer sull’altro, Eliezer da solo li avrebbe superati. Alle capacità intellettuali si aggiungeva una dedizione eccezionale; sempre il primo, secondo la sua testimonianza, a entrare nella scuola, e l’ultimo ad uscirne, senza concedere spazi al riposo e alle conversazioni profane. I fratelli di Eliezer tentarono di convincere il padre Hurqanos a diseredarlo; ma quando il padre incontrò il figlio che, ormai cresciuto di dottrina e autorità occupava un ruolo eminente nella scuola, fu Eliezer che dovette convincere il padre a dividere equamente i suoi beni tra tutti i figli, invece di privilegiare Eliezer come il padre avrebbe voluto fare per premiarlo dei suoi brillanti risultati.
Come Maestro, Eliezer si impose, con rigore, il modello di puro trasmettitore, dichiarando esplicitamente di non aver mai detto nulla che non avesse già ascoltato dai suoi insegnanti, ed evitando qualsiasi atteggiamento di innovazione autonoma; in casi dubbi si asteneva dal rispondere o semplicemente dichiarava di non aver avuto istruzioni dai suoi Maestri. La letteratura talmudica riporta centinaia di insegnamenti a suo nome; malgrado questo Eliezer si paragonava, come allievo, a un cane che aveva leccato un pò di acqua dal mare, e, come Maestro, a una ampollina dalla quale era stato possibile attingere solo il minimo di liquido che si estrae con una bacchetta che vi si intinge.
Nel Sinedrio di Javneh fu tra i quattro principali esponenti; si legò alla dinastia del presidente del Sinedrio con un vincolo matrimoniale (sposando la sorella di Rabban Gamliel), ed ebbe anche incarichi politici, partecipando a missioni a Roma, presso il governo imperiale. Si stabilì a Lod (Lydda), dove presiedeva un tribunale e una scuola.
L’episodio più celebre e drammatico della vita di Eliezer fu la discussione sul ‘forno di Akhnai’. Era una questione di purità rituale su cui vennero a dibattere i membri del Sinedrio. Nella discussione, apparentemente di secondaria importanza (ma su questo forse le fonti sono reticenti), si delineò un’opposizione tra Eliezer e tutti gli altri Maestri. Eliezer, coerente al suo principio di trasmettitore fedele degli insegnamenti ricevuti, non accettò di piegarsi all’ opinione contraria di una maggioranza schiacciante. Ne nacque una terribile questione di principio; in un momento di perdita di indipendenza politica e di dispersione si sentiva come necessità indispensabile l’unità dottrinale e disciplinaria dell’autorità rabbinica. Eliezer, con il suo veto, la metteva in dubbio. La risposta fu drastica e dolorosa. Gamliel, presidente del Sinedrio e cognato di Eliezer, comminò la scomunica, la terribile norma di isolamento sociale, che avrebbe impedito ad Eliezer ogni pubblica attività. Un racconto leggendario, carico di contenuti simbolici, ha trasmesso i dettagli della discussione del Sinedrio. Alla maggioranza che gli si opponeva, Eliezer portò delle prove miracolose a sostegno delle sue posizioni. Se la regola è come dico io, disse, questo albero si sposterà da solo; l’albero si spostò, ma i colleghi non si piegarono. Se la regola è come sostengo, insistè Eliezer, questo corso d’acqua si fermi e torni indietro; la cosa si verificò ma i colleghi non accettarono la prova. E allora Eliezer fece spostare i muri della scuola; cominciarono a piegarsi, ma, spiega la leggenda con una punta di ironia, i muri furono apostrofati duramente da un altro Maestro, Rabbì Jehoshua: “non vi dovete impicciare, che cosa c’entrate voi in una discusione di rabbini?”; e allora non finirono di crollare per rispetto a R. Jehoshua, ma non tornarono a posto per rispetto a Rabbì Eliezer. Eliezer invocò un giudizio celeste definitivo; e dal cielo uscì una voce che gli dette ragione; ma i colleghi gli risposero che la regola “non è in cielo”(Deut. 30:12). Che significa, si chiede il Talmùd che racconta questo episodio, che “la regola non è in cielo?”; significa che ormai la legge è stata data agli uomini dal monte Sinai, e che ogni norma si approva a maggioranza, come già la antica tradizione prescrive: “segui la maggioranza…” (Esodo 23:2). Rabbì Nathan, prosegue il Talmùd, chiese una conferma della correttezza dell’insolita procedura al profeta Elia: “Che cosa fece il Signore Benedetto in quella occasione?” “Sorrise dicendo: -I miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno sconfitto-“.
Il significato più diretto di questa storia, con l’apparente assurdo finale della dichiarata e accettata sconfitta divina, è che nella dinamica creativa della tradizione la collettività, che si esprime per mezzo della maggioranza democratica, è l’ autorità definitiva. E’ una scelta costante che segna i momenti più decisivi della storia dello spirito ebraico, che privilegia la comunità, nelle sue scelte e nelle sue esigenze, rispetto alle posizioni elitarie di singoli, fino al punto di emarginarli se non si piegano a questa logica.
Ciò tuttavia non significa che la scelta del singolo non abbia valore e non debba essere considerata parimenti sacra. Rabbì Eliezer viene indicato in alcune fonti con l’epiteto di shammuti, che potrebbe significare “lo scomunicato”, ma anche, più probabilmente “il seguace di Shammai”. Shammai costituì insieme ad Hillel la coppia dei Maestri più rappresentativi dell’epoca di Erode. Furono entrambi capiscuola con tendenze radicalmente opposte, che generalmente vengono presentate l’una -quella di Shammai- come elitaria e rigoristica, e l’altra -quella di Hillel- come democratica e facilitante. Nella pratica finì col prevalere la scuola di Hillel, in conformità al principio che “non si impone al pubblico un decreto che non è in grado di osservare”. Cionostante la tradizione precisa che gli insegnamenti dell’uno e dell’altro “sono parole del Dio vivente”: verità e sacro stanno nella dialettica, non in una parte sola; e un conto è la norma per la collettività e un altro la coerenza a un principio giustificato da un approccio e da una tradizione legittima. Gamliel, il presidente del Sinedrio che scomunicò il cognato Eliezer, era discendente diretto di Hillel; Eliezer, nella concezione rigoristica della legge, si richiamava alla scuola di Shammai; entrambi esprimevano concetti sacri; l’errore contestato a Eliezer non era quello delle sue idee, quanto il non accettare le dinamiche “parlamentari”.
L’amara esperienza di Eliezer si esprime in questo suo insegnamento: “Il rispetto del tuo amico ti sia caro come quello di te stesso, e non affrettarti nell’ira, e pentiti un giorno prima di morire. Riscaldati al fuoco dei Sapienti, ma fai attenzione a che la loro fiamma non si ti ustioni, perchè quando mordono sono come volpi, quando pungono sono come scorpioni, il loro sibilo è come quello dei serpenti, e tutte le loro parole sono come tizzoni ardenti” (Avòth 2:10).
Il lungo e doloroso isolamento di Eliezer si attenuò solo alla vigilia della sua morte, quando i suoi colleghi e discepoli andarono a trovarlo, per ristabilire un contatto e comporre pacificamente la triste vertenza. Le fonti tramandano il racconto della lunga conversazione tra il Maestro e i discepoli, nel corso della quale Eliezer dette segni di preveggenza, annunciando ad ognuno un triste destino, e in particolare a Rabbì Aqivà, il più importante del gruppo. Con questo le fonti vogliono attribuire a Eliezer l’intuizione della tragica fine della rivolta di Bar Kokhbà (132-135) che fu soffocata sanguinosamente dai Romani, e nel corso della quale molti dei rabbini che l’avevano appoggiata moralmente, e in primo luogo Rabbì Aqivà, andarono incontro al martirio. Gli allievi colsero l’occasione dell’ultimo incontro per rivolgere al Maestro Eliezer numerose domande su questioni rituali; la morte lo colse mentre a un quesito di purità rituale rispondeva con la sentenza “è puro”; e quest’ultima parola di purità fu considerata un segno dell’avvenuta riconciliazione e dell’annullamento del decreto di scomunica. Già subito dopo la morte iniziò un processo di esaltazione e la trasformazione di Eliezer in personaggio da leggenda; e il promotore di questa riabilitazione agiografica fu proprio quel Rabbì Jehoshua che in vita di Eliezer ne era stato il principale oppositore ideologico. La pietra su cui Eliezer siedeva fu paragonata al monte Sinai; le sue parole, che un gruppo di quattro anziani voleva mettere in discussione, furono considerate inoppugnabili: “non si fanno obiezioni a un leone dopo la sua morte”; la sua ascendenza miticamente ricollegata in linea diretta a Mosè, che, secondo la leggenda, aveva sentito parlare di un tale saggio che sarebbe fiorito dopo secoli, e aveva implorato Dio di farlo essere suo discendente. Morto Rabbì Eliezer, si disse, è come fosse stato sepolto il libro della Torà (o il libro della sapienza, secondo una variante). Oltre ad una quantità di insegnamenti che sicuramente risalgono ad Eliezer, alcune tradizioni molto posteriori gli attribuirono l’opera aggadica detta Pirqè deRabbì Eliezer “Capitoli di Rabbì Eliezer”, ed una serie di detti sul mondo futuro e l’epoca messianica.
Rabbì Eliezer fu il rappresentante di un approccio alla tradizione estremamente rigoroso ed estremistico, e non stupisce in definitiva che malgrado l’aurea leggendaria che lo circondò in vita e soprattutto dopo la morte, la sua posizione fosse condannata all’isolamento e che la scomunica non fosse un accidente casuale. A differenza dei suoi colleghi, proponeva una interpretazione letterale della legge del taglione; considerava molto negativamente l’insegnamento della tradizione alle donne; attribuiva all’obbligo della riproduzione un valore tale che considerava “spargitori di sangue” coloro che se ne astenevano; indicava come modello una vita di rigida autodisciplina, invitando “a fuggire da tutto ciò che è sporco e da ciò che somiglia allo sporco”; aveva un senso di rispetto assoluto per l’autorità dei Maestri e dei genitori. In questo senso condannava con il massimo rigore chiunque si permettesse di insegnare al cospetto del suo Maestro, o che ne dissentiva in qualche modo; e parimenti additava come esempio di amore filiale un non ebreo di Ascalona che aveva perso un ottimo affare per non svegliare il padre sotto al cui guanciale c’erano le chiavi per aprire la cassaforte dove erano custodite rare pietre preziose.
Difese con rigore anche le sue posizioni sulla preghiera, alla quale si avvicinava con timore reverenziale (“quando pregate, sappiate davanti a Chi state”), ma che non tollerava fosse alterata da aggiunte personali; prediligeva una preghiera pubblica quanto più breve possibile, basandosi sull’esempio biblico di Mosè, che aveva invocato la guarigione della sorella con un espressione brevissima (“O Signore, guariscila!” – Num. 12:13). Eliezer stesso compose una sua brevissima preghiera che così suona: ” O Signore, fa la tua volontà in cielo, in alto, e dà pace e tranquillità a coloro che ti temono qua in basso, e fa ciò che a Te pare bene”. Coerente con il suo carattere e con tutte queste premesse, è un anedotto che si racconta di lui, quando un giorno si trovò nella Sinagoga e mancava una persona a compiere il numero legale di dieci adulti liberi, che secondo la tradizione è indispensabile per poter recitare una preghiera pubblica completa; immediatamente Eliezer concesse la libertà al suo servo che lo accompagnava, in modo che un altro uomo libero completasse il numero legale. Tanto rigore però si accompagnava ad una fede senza cedimenti: ” Chi ha del pane nella sua cesta e si chiede che cosa mangerà domani, non è che un misero di poca fede”.
Il carattere di Eliezer e le vicende storiche della sua epoca lo orientarono ad un atteggiamento di sfiducia e malcelata ostilità verso il potere romano, al punto che interpretava un difficile verso dei Proverbi (14:34) “la bontà [o la vergogna?] delle nazioni è una colpa” nel senso che “ogni cosa giusta e amorevole che le nazioni fanno è una colpa per loro, perchè lo fanno solo per rendersi grandi”. Furono invece poco chiari, e diversamente interpretati dai critici, i rapporti di Eliezer con i primi cristiani o giudeo-cristiani, con i quali era stato in contatto e dai quali aveva recepito almeno un insegnamento; in tarda età fu addirittura processato dai Romani per sospette simpatie cristiane, e ne uscì scagionato con uno stratagemma. Eliezer ne ricavò la conclusione che questa accusa, che considerava lesiva della sua dignità, fosse una conseguenza e una punizione per la sua precedente disponibilità; di qui la necessità di mantenere le distanze da ogni esperienza religiosa che non fosse assolutamente ortodossa.
Nota bibliografica
M. Margalioth (edit.) Encyclopedia of Talmudic and Gaonic Literature, Yavneh, Tel Aviv 1973, vol.1, col. 92-101; la voce “Eliezer” in Enciclopedia Judaica; J. Neusner, Eliezer ben Hyrcanus. The tradition and the man. Part 1 and 2. Brill, Leiden, 1973.