Negli ultimi tempi molti mi hanno domandato: Perché non accettare il dialogo con i Conservatives i quali, a differenza dei Reformed, parlano di Halakhah come noi? Il problema merita un approfondimento, al quale va premesso, per meglio inquadrare la questione, un pizzico di storia.
La nascita delle correnti Conservative e Reformed (per mantenere la dizione anglosassone) in alternativa all’Ebraismo Ortodosso nacque nell’Ottocento come reazione diversificata alle conseguenze dell’Emancipazione. L’uscita dai ghetti e l’impatto con il razionalismo moderno avevano provocato in parte del mondo ebraico un rigetto per la tradizione, che si espresse nell’adozione di un Ebraismo fortemente annacquato, sfrondato da tutti gli elementi nazionali e giuridici, adatto a Comunità i cui membri avevano accettato di diventare di fatto “cittadini del mondo di fede mosaica”. All’Ortodossia si affiancò dunque la Riforma, nata ufficialmente a Berlino intorno al 1815, ispirata soltanto alla Bibbia, intesa come fonte di insegnamento etico universale, mentre dalla liturgia venivano rigorosamente eliminati la lingua ebraica, i passi talmudici, nonché qualsiasi richiamo agli ideali e alle speranze nazionali dell’Ebraismo, come il ritorno a Sion e la ricostruzione del Santuario di Gerusalemme.
Con il tempo, maturarono in seno alla Riforma posizioni più moderate riguardo agli “aggiornamenti” da adottare, accanto ad altre più radicali. Lo scisma interno al movimento scoppiò definitivamente in seguito alla cosiddetta Piattaforma di Pittsburgh del 1885, allorché il Rabbinato Reformed statunitense si pronunciò ufficialmente, fra altre cose, per abolire i vincoli della kashrut. Gli esponenti più “tradizionalisti” (conservative, appunto) si dissociarono e fondarono una nuova scuola, il Jewish Theological Seminary di New York. La loro corrente sosteneva lo “Historical Judaism“: essi proponevano di valorizzare egualmente tutte le manifestazioni spirituali espresse dal mondo ebraico nel corso della sua storia nell’intento di armonizzare le esigenze e le innovazioni dell’epoca moderna con gli insegnamenti tradizionali dell’Ebraismo, senza l’ossequio ai testi considerato tipico dell’Ortodossia.
In questo contesto, il movimento conservative ha pure un recupero, sia pur cauto, della tradizione talmudica, che torna ad essere, accanto alla Bibbia, fonte di ispirazione, ma non in modo determinante. Questo spiega anche l’adozione di un linguaggio halakhico, che tuttavia non deve trarre in inganno sui reali intenti del movimento, che sono in tutto e per tutto figli della Riforma. Ancora prima della Piattaforma di Pittsburgh, il maggior precursore tedesco del movimento conservative, Zekharyah Frankel (m. 1875), direttore del Collegio Rabbinico di Breslavia, prendeva le distanze dai colleghi più radicali e affidava tutta la sua moderazione alle parole seguenti: “I mezzi della trasformazione devono essere attuati con tanta attenzione e discrezione, in modo che lo scopo sia ottenuto passando del tutto inosservati e il progresso appaia all’occhio medio senza soluzione di continuità rispetto al passato” (cit.
Al di là di un linguaggio intellettuale spesso accattivante e di una veste accademica che a prima vista evoca rispetto, la dirigenza del Jewish Theological Seminary fin dalle sue origini ostenta distacco per la tradizione ed in questo è seguita da tutta quanta la sua base comunitaria. Ne fanno fede le più famose decisioni “halakhiche” deliberate dalla Rabbinical Assembly del movimento, che anziché fornire una guida ai suoi membri e promuoverne la crescita spirituale, appaiono piuttosto esse stesse guidate da una “volontà popolare” in fase di erosione, come il permesso accordato a guidare l’automobile per recarsi alle funzioni del Sabato, o l’ammissione delle donne al Rabbinato nel 1984, su cui dovremo tornare.
Il problema dal quale siamo partiti, e cioè la validità dei responsa halakhici della Rabbinal Assembly stessa, è oggetto di un interessante saggio ad opera di Rav Beny Lau, uno dei più validi esponenti della giovane generazione del Rabbinato israeliano (ortodosso), dal titolo significativo HaHalakhah halekhà leibbud(con allitterazione; traducibile in italiano con: “La Halakhah è andata a farsi benedire”: in De’ot, 6, Tevet 5760). Dopo aver esaminato i principali responsi pubblicati dalla R.A., Rav Launota che in effetti gran parte dei temi ivi affrontati sono comuni alla letteratura parallela della Modern Orthodoxy. La differenza non sta dunque tanto nelle scelte di contenuto, quanto nella metodologia dei responsa, che nel caso dei Conservatives poggia su due aporie di fondo:
1) secondo l’ideologia conservative, tutte le correnti e i movimenti spirituali prodotti dal popolo ebraico, in ogni luogo e momento storico, hanno il medesimo valore (Historical Judaism). Ne consegue un’importante valutazione circa l’autorità dei decisori: “se anche i Maestri del nostro tempo non hanno la stessa grandezza di quelli delle generazioni passate, non ha importanza: tocca ai Maestri dei nostro tempo cimentarsi con i problemi del nostro tempo”. In pratica, non c’è alcuna deferenza verso i Maestri del passato, per quanto grandi potessero essere, come avviene invece nel mondo ortodosso: ciascuno dei decisori si sente libero di “controbattere” qualsiasi affermazione dei Rishonim e degli Acharonim, del Maimonide e dello Shulchan Arukh, in nome di un preteso “egualitarismo diacronico” che demolisce dall’interno l’edificio nel momento in cui si afferma di volerlo costruire;
2) i responsa halakhici sono scritti per un pubblico al quale in realtà della halakhah ben poco importa, e questo stesso li destituisce di fondamento. Un’innovazione rispetto al diritto vigente ha valore nel momento in cui viene elaborata attraverso il vissuto del gruppo che si riconosce pienamente all’intemo di quel diritto e dei suoi codici di comportamento. Se diventa pretesto per avallare il distacco del gruppo dal diritto stesso , è evidente che cessa a sua volta di essere diritto e diviene pseudo-diritto o, nella fattispecie, pseudo-halakhah.
Rav Lau allude ad un terzo elemento. Non sono chiare le modalità con cui all’interno della R.A. una certa “innovazione” viene codificata:
tuttavia che basti il sostegno di due membri dell’assemblea ad un certo responso perché sia consentito attenersi ad esso! Una cosa peraltro è certa: molte di queste delibere divengono oggetto di un dibattito spietato, per non parlare in alcuni casi di derisione, da parte di membri talvolta influenti dell’Assemblea stessa prima della decisione definitiva e anche dopo. Si pensi all’ammissione delle donne al Rabbinato, che provocò un autentico esodo di docenti dal Jewish Theological Seminary per obiezione di coscienza, e la nascita di un’ulteriore sottocorrente di Conservatives.. conservatori!
È oltremodo istruttivo l’articolo di Gerald L. Zerizer, Conservative Rabbis, Their Movement, and American Judaism(in Judaism 175,44 (199)). L’autore, già presidente della R.A. e membro dei suo “Comitato halakhico”, compie una lunga disamina della situazione interna al movimento, osservando con un certo disappunto come proprio la decisione di ammettere le donne al Rabbinato, presa per riavvicinare i Conservatives alla Riforma nella battaglia comune contro l’Ortodossia, abbia aperto le porte ad un’altra lotta egualitaria, quella degli omosessuali, che domandano ora il riconoscimento dei propri diritti contro l’atteggiamento da sempre restrittivo del movimento nei loro confronti. Intervistato in proposito dall’autore, il rettore (o provost, proprio così, “prevosto” la terminologia la dice lunga sull’idea che i Conservatives hanno della propria gerarchia religiosa) del Jewish Theological Seminary e capo spirituale del movimento, Dr Ismar Schorsch avrebbe negato ogni apertura, esclamando: “Non c’è posto per una seconda Riforma in America!” Ma allora, domandiamo noi a questo punto, qual è il limite? Dov’è la coerenza?
Non è dunque sufficiente adottare un linguaggio halakhico per fornire alle proprie idee una legittimazione halakhica. L’unico Ebraismo è quello della Torah di Moshe tramandata secondo l’insegnamento dei Chakhamim al quale è nostro dovere rimetterci per ogni aspetto della nostra vita. Le Comunità Italiane hanno sempre tenuto fede a questa tradizione che ha fornito ad esse finora una prospettiva ideale di vita: se ad essa avessero rinunciato, come molti nostri fratelli dalla Germania agli Stati Uniti, probabilmente non esisterebbero più da tempo. Come dicono i nostri Maestri nel Talmud: “Colui che va dicendo: il tale insegnamento della Torah mi piace, il tal altro no, perde tutta quanta la ricchezza della Torah” (Eruvin 64a su Prov. 29,3).
Rav Alberto M. Somekh