Rav Roberto Della Rocca
La radice della parola “shalom” pace, è “shalem“, che significa compiuto, integro, perfetto. Il Maharal di Praga (1512-1609; cfr. il suo Netivot Olam II) osserva che soltanto Dio è la pace: il Suo nome è Shalom, Pace, che non è il suo attributo, ma la Sua stessa essenza. In un mondo lacerato dai conflitti, in un mondo dove non c’è pace non vi può essere compiutezza. La pace infatti, non è un valore di natura, che l’uomo trova a sua disposizione bensì è un valore che egli deve conquistare e coltivare con amore e con attenzione. Dal concetto di lacerazione e dei tentativi per ricomporre le fratture e le scissioni determinate dalla guerra si parla in maniera significativa nella Torah, nel capitolo 17 dell’Esodo, quando viene descritto l’attacco proditorio di Amalek al neonato popolo ebraico.
L’aggressione di Amalek è la prima esperienza di guerra del popolo ebraico all’indomani della sua uscita dall’Egitto; si tratta quindi, del primo vero conflitto di cui parla la Torah. Una vittoria così importante che a Mosè fu comandato di scriverla nel suo Libro e farla diventare, a pieno titolo, un momento paradigmatico dell’esperienza storica dell’ebraismo. Questa guerra assurge però a qualcosa di più di un semplice conflitto armato. Amalek e il suo popolo, gli amaleciti, divengono un archetipo: la memoria perenne della valenza disgregatrice della guerra. Per ricollegarci all’etimologia di “shalom”, “shalem”, Amalek e, non solo la negazione della pace, ma soprattutto la negazione della compiutezza.
La tradizione ebraica vede in Amalek l’achetipo dell’antiebraismo gratuito e irrazionale di tutte le generazioni, il precursore di quanti, nei secoli a venire, saranno di minaccia all’esistenza di Israele. Tanto è vero che il preciso ammonimento “Ricorda ciò che ti ha fatto Amalek”, ribadito dalla Torah (Deuteronomio 25, 17) è annoverato fra i 613 precetti cui si deve informare la vita di ogni ebreo.
Rashì si chiede: in quale particolare momento della storia del popolo ebraico appare Amalek? Egli appare quando il popolo si lascia cogliere dal dubbio in relazione al proprio destino e alla propria identità. Amalek per Rashì è l’inevitabile conseguenza di una drammatica contestazione da parte del popolo; ad un’ennesima manifestazione di scontento per la mancanza di acqua, il popolo sfida Dio e si chiede provocatoriamente “il Signore è in mezzo a noi? (Esodo, 17, 7). L’Amalek interiore, che è il dubbio stesso intorno alla propria identità, si proietta nel reale e si materializza in un Amalek esteriore che tende ad annientare Israele. Non a caso, in base alla ghematrià, regola ermeneutica che tiene conto del valore numerico delle lettere, il valore numerico delle parola Amalek corrisponde a 240 ed è lo stesso della parola “safeq“, dubbio.
“Quindi venne Amalek e attaccò Israele in Refidim…” (Esodo, 17, 8).
Il Kelì Jakar osserva acutamente che le lettere della parola “Refidim” sono le stesse della parola “peridim” che significa “disgiunti”, “scissi”, ribadendo, così, che la frattura e la disgregazione sono la causa principale dell’avvento di Amalek. Aman, discendente di Amalek nella storia di Purim, descrivendo il popolo ebraico ad Assuero, lo definisce, un popolo disperso e scisso (Ester 3, 8).
È sorprendente, tra l’altro, come la divisione del popolo ebraico si rifletta in modo speculare in una incompiutezza di Dio. Al verso 16 è detto: “La mano del Signore fu elevata verso il Suo Trono per giurare che vi sarà guerra contro Amalek, di generazione in generazione”. Rashì ci fa notare che nel testo il Trono è definito “Kes”, anziché “Kissè”, privo della necessaria alef.
Anche il Nome di Dio, è troncato in “Jah”, che è la metà del Tetragramma. Secondo Rashì, il Signore ha giurato che il Suo Nome non sarà competo e il Suo Trono saldo e perfetto fino a che non sarà distrutto il nome di Amalek. Molti maestri hanno visto, in questa incompiutezza, un’allusione a quelle tragiche esperienze di “eclissi di Dio” che hanno caratterizzato molta parte della storia ebraica ed un chiaro riferimento alla storia di Purim con il suo libro di Ester, l’unico libro biblico in cui il nome di Dio non compare mai. E “Ester” significa – non a caso — “nascosta”. Amalek, dunque, provoca una terribile frattura che soltanto un forte e saldo ricongiungimento potrà ricomporre.
Questa considerazione trova corrispondenza in una interessante tesi di filosofia occidentale moderna, tesi secondo cui la fonte del pensiero disgiuntivo deriva dal verbo greco dia-ballein, che significa “disgiungere”, “gettare lontano”, da cui deriverebbe anche il termine diavolo. A questo si contrappone la possibilità di un pensiero simbolico-confusivo, nel senso etimologico del ‘mettere assieme’, dal greco sun-ballein, che significa ‘congiungere’, gettare insieme, da cui deriva, in particolare, anche il termine ‘simbolò’ (sun-ballo).
Ora, come si sa, la vita ebraica è caratterizzata da molti simboli, che sono spesso gli strumenti più idonei a contrapporsi a ogni genere di fenomeno disgregativo, di dia-ballein. Il simbolo come luogo originario in cui si esprime la connessione, ossia l’originario mettere assieme senza il quale non si ha né la conoscenza né quell’identità che è unicità e unità. È per questo motivo al Trono di Dio manca la alef, la lettera, appunto dell’unità ed unicità.
Ma dove, in questo racconto metastorico, percepiamo una connessione come risposta alla disgregazione amalecita?
All’attacco di Amalek, Mosè dice a Giosuè: “Scegli per noi degli uomini per combattere contro Amalek”. Rashì sostiene che usando la parola “lanu”, “per noi”, Mosè, il primo Maestro di Israele, ha posto Giosuè, il sui discepolo, sul suo stesso piano, e quindi l’esegeta sottolinea che da questo episodio si apprende una importantissima halakhah, una norma valida per tutti i tempi (riportata nei Pirqè Avot, 4, 13): ” Ti sia caro l’onore del tuo discepolo come il tuo”.
Rav Itzchak Hutner (1906-1980, autore del Pachad Itzchak) evidenzia la non casualità del fatto che la halakhah del Kavod che il Maestro deve al suo allievo, la si apprende proprio dall’episodio della guerra contro Amalek. Hutner afferma che solo un rapporto di coesione e di continuità come quello fra Maestro e allievo, come quello fra Mosè e Giosuè, può sconfiggere Amalek e tutte le sue implicazioni.
Che Amalek corrisponde al dubbio e confermato da quella massima che dice: “Fatti un Maestro e allontanati dal dubbio” (Mishnah, Avot, 1, 15). Solo attraverso l’unione fra maestro e allievo, che costituisce la continuità della Tradizione attraverso le generazioni, si può ricomporre la grande frattura amalecita.
Nell’ebraismo l’attaccamento dell’allievo al maestro, e viceversa, è un legame autentico e destinato a crescere. È un dialogo fondato sui principi rigidamente stabiliti, il cui procedere è regolato dalla halakah. Solo così non c’è passaggio dalla libertà al disordine; un dialogo libero, ma anche ordinato che non perde di vista il suo oggetto ed è composto di parole di Torah: “L’insegnamento – ci dice Rabbì Akiwà – è importante perché conduce all’azione” (Talmud Babilonese, Kiddushin, 40 b).
Di fatto, il dialogo con un Maestro, “un Maestro capace di togliere dal dubbio”, un Maestro capace di intrattenersi con il discepolo sulla Torah, fa sì che il discepolo possa coltivare meglio il dialogo quotidiano con se stesso e con il prossimo. Ma ciò che contraddistingue questo rapporto, e che non lo circoscrive a una relazione esclusivamente accademica e intellettuale, è il kavod, l’onore e il rispetto che il Maestro e l’allievo devono tributarsi l’un l’altro.
Il primo passo per sconfiggere Amalek è quindi quel Kavod, quel rispetto fra “talmidè chachamim” la cui totale mancanza – secondo molti Maestri – è stata la causa della distruzione del Beth Hamikdash. Soltanto un Maestro che tiene alto l’onore dei suoi allievi, un Maestro consapevole che solo un discepolo potrà perpetuare e fecondare il suo insegnamento, è autorizzato a ordinare a quel discepolo: “va a combattere Amalek”.
Ora, noi sappiamo che, finché Mosè teneva le mani alzate, Israele vinceva; ma quando egli per la stanchezza le abbassava, era Amalek a vincere. Per comprendere questo episodio dobbiamo ricordare quanto dice il testo in precedenza: “Io mi metterò sulla collina e terrò in mano la verga del Signore”. È dunque la presenza dell’eterno che, per mano di Mosè, segna la sconfitta di Amalek e porta Israele alla vittoria. Le mani di Mosè hanno bisogno di un sostegno, tanto è vero che Aron e Chur prendono un “even”, “pietra”, e la porgono a sostegno delle braccia di Mosè. Le mani di un Maestro e di una guida, anche della grandezza e della statura di Mosè, non sono sufficienti, da sole, a respingere Amalek: è necessaria la collaborazione e lo sforzo di tutti.
Sul significato pregnante della “even”, “pietra”, ci sarebbe molto da dire; mi limiterò ad osservare che la “pietra” in cui tutto è potenzialmente contenuto, acquisisce la sua stabilità in quanto contiene due parole “av” e “ben”, “padre” e “figlio”. Solo dalla fusione di queste due figure deriva una pietra con la sua stabilità e solidità. La battaglia contro Amalek, la battaglia per la vera pace, inizia all’interno delle mura domestiche, passando per quella coesione e unione di padre e figlio che permette a Dio stesso di sconfiggere Amalek, come dice il testo “Midor dor”, una guerra di generazione in generazione. Si tratta in altri termini, del primo concetto rapporto di comunità e Tradizione, il primo rapporto tra Maestro e allievo.
La nostra possibilità di restituire a Dio la Sua compiutezza, la vittoria su Amalek e su ogni disgregazione, dipende dalla forza delle generazioni di Maestri e allievi che si rispettano e di padri e figli che dialogano fra loro. Malachì, l’ultimo dei profeti di Israele, vede semplicemente in questo la realizzazione dei giorni messianici e la restaurazione della vera pace.
“E ricondurrò il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri” (Malachì 3, 24).
Relazione presentata al Convegno del Dac-Ucei: La pace e il futuro del popolo ebraico, tenutosi a Jesolo nell’aprile 1994.
Pubblicata su “La Rassegna Mensile di Israel“, n.1-2 (Terza Serie) Gennaio-Agosto 1993