Sull’apertura delle Comunità Ebraiche ai gruppi riformati
David Piazza
Claudio Canarutto, nel suo vivace intervento su Kolòt dell’8/11, perorando l’insistente richiesta dei gruppi riformati di essere accolti nelle istituzioni ebraiche italiane, solleva una lunga serie di problemi diversi tra loro che meritano ormai di essere affrontati seriamente. Vorrei dare la mia opinione su quello più noioso, quello istituzionale. Ma prima mi si permetta una considerazione generale.
Canarutto argomenta che a fronte del generale allontanamento dalla tradizione degli ebrei italiani e del fatto che oramai “i giovani si sposano chi è simpatico” e che quindi spesso contraggono anche matrimonio misto, l’ebraismo italiano dovrebbe venir meno agli standard definiti dalla halakhà ed essere più inclusivo nelle sue definizioni di chi è ebreo e di chi non lo è.
I nostri maestri, nel Pirkè Avòt suggeriscono: “Sii coda dei leoni, ma non essere testa delle volpi.” (4,20). Se seguissimo le tesi di Canarutto dovremmo quindi dire adattiamoci alle volpi, cioè all’ebraismo assimilato e smettiamola di inseguire i leoni, cioè l’ebraismo ortodosso.
Anche all’epoca dei Pirkè Avòt l’ebraismo si trovava in grande crisi identitaria, quando a seguito della distruzione del Secondo tempio e soprattutto a causa dei grandi fermenti ideologici, si stavano diffondendo le idee del primo grande riformato ebreo in Galilea, che già allora sosteneva la necessità di un ebraismo che seguisse più il cuore e meno i difficili precetti. Se siamo ancora qui a raccontarlo è proprio perché per secoli abbiamo scelto di andare controcorrente e seguendo l’insegnamento dei maestri, scelto di essere “coda dei leoni”. “Seguire le volpi” sembra invece la firma del trattato di resa nei confronti dell’assimilazione e della perdita della nostra specificità identitaria di minoranza.
Ora alle istituzioni. Canarutto sostiene che le Comunità in Italia dovrebbero essere “ebraiche” e non “ebraiche ortodosse”. Probabilmente si riferisce alla massima istituzione, l’Unione delle Comunità Ebraiche, che nel suo statuto, presenta un debole riferimento alla ortodossia. Ma invece di dilungarci in disquisizioni legalistiche sulla debolezza di tale riferimento, converrà affrontare questioni di sostanza, con estrema chiarezza.
Nel bene e nel male, e non ci nascondiamo enormi problemi, le Comunità ebraiche italiane sono organizzate formalmente come tante singole Comunità unitarie e soprattutto intorno a un solo Rabbino capo. Vuol dire che i nostri padri fondatori percepivano proprio nel rabbinato l’elemento unificante di una Comunità. Un solo Rabbino capo dunque, sia per gli ebrei che vengono al tempio una sola volta l’anno, sia per quelli che fanno tefillà tutti i giorni, tre volte al giorno.
Questa situazione comporta certamente una grande responsabilità per il rabbinato e pur ammettendo che, a volte, i rabbini abbiano dato risposte inferiori alle aspettative, bisogna anche tener conto del fatto che troppo spesso i consigli stessi delle Comunità hanno continuato a considerare il rabbinato un marginale “ufficio rabbinico”, destinando poche e modeste risorse alla trasmissione identitaria.
Eppure, quello che Canarutto sembra invece suggerire è che le Comunità ebraiche italiane diventino delle istituzioni “neutre” (non dico “laiche” per non essere frainteso) all’interno delle quali possano convivere più “denominazioni”, cioè rabbini ortodossi e rabbini (o rabbinesse) riformati. A sostegno di tale tesi Canarutto cita l’esempio di Israele a sproposito, perché Israele non è una Comunità ebraica, ma uno Stato sovrano e democratico, che basa la sua identità su un’ambigua e spinosissima “Legge del Ritorno”, le cui definizioni variano col variare delle maggioranze politiche (e dei ricatti dei partitini), ma che ha sempre il dovere di tutelare le minoranze druse, cattoliche o islamiche.
Ebbene, visto che Canarutto fa un costante riferimento a quello che succede nel grande mondo ebraico, conviene chiarire che tale architettura costituzionale “neutra” è praticamente inesistente. Negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia ortodossi e riformati non riescono a lavorare insieme spesso nemmeno per gestire assieme un centro sportivo. Perché quello che per alcuni è “collaborazione comunitaria”, per altri è “dialogo interreligioso”. I riformati cioè non vengono considerati un altro tipo di concepire la Comunità, ma tout court un’altra religione.
Per ritornare a noi, se adottassimo il modello neutro, potremmo avere un’Unione delle Comunità Riformate a fianco dell’Unione delle Comunità Ortodosse ma mai un’Unione delle Comunità Orto-Riformate. Il che è vero anche per il semplice fatto che nel preciso momento che i riformati venissero ammessi nelle nostre Comunità, assisteremmo alla fuga in massa dei gruppi ben organizzati più vicini alla tradizione che necessariamente si chiuderebbero a riccio in sé stessi, liberi oramai da qualsiasi vincolo di responsabilità comunitaria, e con conseguenze catastrofiche proprio per gli ebrei “di mezzo”. Quelli meno praticanti che traggono beneficio dal fatto di trovare un tempio o un centro di studio aperti quando ne hanno bisogno.
Vogliamo poi tener conto del fatto che i gruppi più praticanti costituiscono oramai la stragrande maggioranza dei soggetti attivi nelle nostre Comunità, sia a livello politico, sia a livello culturale? L’ipotesi e la scommessa di riavvicinare i “lontani” a fronte della certezza dell’abbandono dei “vicini” ci sembra un azzardo che nemmeno alla fantasia italica converrebbe prendere in considerazione.
Oltretutto il modello più diffuso dell’ortodossia italiana, checché se ne lamentino i riformati, è quello “aperto” dei “Modern Orthodox”. Che tra tutti gli ortodossi sono quelli che non solo sono schierati perché i matrimoni siano ebraici il più possibile, ma sono anche profondamente impegnati in diverse iniziative di recupero di chi invece ha contratto matrimonio diverso. Il problema è un altro e vorrei concludere con un esempio.
Roma e Milano sono rimaste purtroppo le due uniche Comunità ad avere una scuola ebraica. Il notevole aumento del fenomeno dei matrimoni misti e il conseguente blocco delle conversioni automatica dei minori (sono temi complessi di per sé da discutere altrove), ha generato negli ultimi anni il timore che ad alcuni bambini potesse essere preclusa l’istruzione ebraica formale. Milano ha vissuto momenti difficili, che sono stati superati grazie a un compromesso scaturito da una commissione di otto “saggi”. Roma non se la passa meglio ma, in quella Comunità, l’iscrizione a scuola dei figli non è una concessione, ma addirittura parte integrante del percorso di riavvicinamento delle famiglie miste. Eppure, purtroppo, solo una parte irrisoria di queste famiglie decide di avvalersene.
Prima di prendersela con la “rigidità” degli ortodossi e dei loro rabbini, forse bisognerebbe onestamente prendere in considerazione l’ipotesi che probabilmente alcune famiglie miste dimostrano una minore propensione al grosso sacrificio richiesto, economico e logistico, nel procurare un’istruzione formale ebraica ai propri figli. Dovremmo quindi moltiplicare gli sforzi e le iniziative, destinandogli budget adeguati alle sfide, piuttosto che sancire la sconfitta aprendo ai gruppi riformati che del resto fanno del matrimonio misto la propria bandiera.