Uno degli scopi per cui ci è stato comandato di visitare gli ammalati, oltre che accudire alle loro necessità concrete, è pregare per loro. Come si prega facendo visita a un ammalato di Shabbat? Il Talmud indica una frase lunga: “Shabbat hi mi-liz’oq u-rfuah qerovah lavò” (Oggi è Shabbat e non si strilla; quanto alla guarigione essa è prossima). Impariamo da qui che di Shabbat occorre in ogni caso limitare gli strilli anche in una situazione di sofferenza, perché non sono consoni all’atmosfera del giorno festivo. A questo proposito voglio citarvi una Mishnah del trattato Ta’anit (sui digiuni) che non mi fa dormire di notte.
Nella Mishnah si discute su come si deve strillare di Shabbat se una città è stata presa d’assedio dai nemici, ovvero il fiume l’ha inondata, oppure si tratta di una nave che sta colando a picco. R. Yossi ritiene che dovendo limitare gli strilli nel giorno festivo è lecito invocare solo l’aiuto degli uomini, ma non quello di D. (le-‘ezrah we-lo litz’aqah. La Mishnah riporta in primis peraltro un’altra opinione secondo cui anche la preghiera è lecita e Maimonide stabilisce la Halakhah in questo modo). La logica di R. Yossi è che gli uomini una volta chiamati accorrono sempre, mentre D. una volta invocato potrebbe consultare i suoi archivi e stabilire che quella città o quella nave non sono degni di salvezza: di Shabbat è lecito strillare solo a colpo sicuro. La domanda più generale è come sia possibile che la Mishnah asseveri un’opinione che in sostanza invita ad avere fiducia negli uomini e non in D.!
Credo che la risposta possa essere rinvenuta nella Parashah odierna. Al centro di essa e di tutta quanta la Torah è l’episodio della morte di Nadav e Avihù figli di Aharon. Rei apparentemente solo di eccessivo entusiasmo religioso portarono del “fuoco straniero che D. non aveva loro comandato” per bruciare l’incenso il giorno dell’inaugurazione del Mishkan e furono fulminati all’istante da un fuoco sceso dal Cielo. Sarebbe come se si presentasse qui un giovane che sale in Tevah e comincia a dire la Tefillah. Ancorché non autorizzato dai Parnassim, nessuno si sognerebbe di allontanarlo e tanto meno di punirlo duramente. Aldilà dell’irruenza che saremmo inclini a perdonare diremmo: “ben vengano giovani così!”. Il Midrash stesso offre una ridda di motivazioni diverse per il duro castigo di Nadav e Avihù e ciò non fa che dimostrare l’imbarazzo dei nostri Maestri di fronte a uno degli episodi più incomprensibili di tutta quanta la Torah.
Alcuni dicono che amavano bere ed erano ubriachi. Altri dicono che rifiutavano il matrimonio. Altri ancora dicono che comportandosi in quel modo avevano deciso autonomamente quale fosse la Halakhah da aèpplicare e dunque avevano mancato di rispetto al padre e al maestro (lo zio Mosheh) con cui non si erano consultati. E’ davvero pensabile che i figli di Aharon potessero meritare tanto?
Si tratta certamente di accuse gravi, ma non tali da giustificare una punizione simile. Un’ulteriore fonte afferma addirittura che Nadav e Avihù pagarono la colpa del loro padre Aharon che aveva autorizzato il Vitello d’Oro. A deroga del principio generale per cui i figli non vengono messi a morte per le trasgressioni dei padri, con l’idolatria D. “rivisita la colpa dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Dal momento che Nadav e Avihù, come già detto, non avevano figli, l’errore del padre ricadde su di loro. La preghiera di Mosheh, a sua volta, ebbe effetto a metà per cui solo due dei quattro figli morirono.
La verità è probabilmente un’altra. Come osserva l’Or ha-Chayim, Nadav e Avihù furono i primi di una lunga serie di persone che sono morte semplicemente ‘al Qiddush ha-Shem, per santificare il Nome Divino. Il versetto lo dice esplicitamente: biqrovay eqqadèsh, “sarò santificato -dice D.- attraverso coloro che mi sono più vicini”. Qodesh, spiega il Talmud, deriva da Yeqod Esh (“tizzone di fuoco”). Del fuoco abbiamo bisogno per la sua luce e il suo calore, ma se ci si avvicina troppo ci si scotta. Proprio ieri abbiamo ricordato Yom ha-Shoah, una delle giornate annuali dedicata alla memoria dei martiri della Shoah. I deportati che non hanno fatto ritorno da Auschwitz davvero avevano commesso colpe tali da giustificare una simile fine? Certamente no. Essi sono morti ‘al Qiddush ha-Shem.
In un importante saggio recentemente tradotto in italiano, Qol Dodì Dofèq, Rav Soloveitchik affronta fra l’altro il problema della sofferenza. Nel primo capitolo scrive che l’atteggiamento corretto da tenere a fronte della sofferenza non è cercare di investigarne le cause, ma comprendere che cosa H. vuole da noi in quel momento. Le motivazioni appartengono a Lui e non ci è dato capire le Sue vie. Dobbiamo guardare al futuro e non al passato. Molti pensatori sono caduti in questo errore: hanno cercato di capire il perché della Shoah e sono tutti giunti a rinnegare la Divinità. Così facendo hanno fatto il gioco dei nostri nemici i quali non vedono altro che noi smettiamo di credere nel D. d’Israele!
La sofferenza ci vuole insegnare invece che dobbiamo fare Teshuvah. Fare Teshuvah non significa necessariamente pensare alla riparazione di una colpa specifica. Significa compiere una revisione interiore che chiunque, anche il più grande Tzaddiq di questa terra, ha il dovere di fare in qualsiasi momento della sua vita. A ciò si riferisce il Midrash cercando di immaginare in quali mancanze fossero caduti persino Nadav e Avihù: se uomini di quel rango avrebbero dovuto fare Teshuvah sul loro quotidiano, tanto più chiunque di noi. Comprendiamo ora anche la posizione di R. Yossi nella Mishnah. Allorché dobbiamo selezionare attentamente le nostre reazioni alla sofferenza non dobbiamo rivolgerci a D. alla ricerca, e forse anche alla contestazione, delle cause, bensì agli uomini: per interrogarci su come possiamo migliorare la nostra condizione. Per invitarci a ciò ci vengono inviate le sofferenze. Affinché compiamo il Tiqqun per consentire il quale l’Uomo è stato creato.