Fra i primi oggetti, strumenti e segni, inizialmente usati per il culto anche dagli ebrei, la toràh parla della mazzevàh , la stele commemorativa di un incontro con D-o, di una separazione o di un patto. La mazzevàh è soltanto una grande pietra ed è quindi il prototipo dell’oggetto naturale in quanto tale. La mazzevàh non è il simbolo di un’altra realtà e non raffigura nulla, ma ostenta in qualche modo la concretezza e l’immutabilità dell’oggetto naturale. Una pietra, per diventare una mazzevàh , deve essere messa, semplicemente, in piedi e, cioè, localizzata nella posizione di massimo equilibrio ed evidenza. Il luogo occupato dalla mazzevàh diventa il centro di un nuovo spazio universale oppure il confine tra due spazi antitetici.
Nella religione dei Patriarchi, che cercano D-o nell’opera della creazione, la mazzevàh può essere riconosciuta, in un momento di grande crisi, come il luogo di una rivelazione. Anche così, la mazzevàh ammutolisce, in parte, il dialogo con D-o, perché lo condensa in un oggetto ricordo.
La prima mazzevàh menzionata dalla toràh è quella messa in piedi, dopo il sogno della scala e degli angeli, da Ia’aqòv, che peraltro ne eleverà altre tre: a) dopo la separazione definitiva dal suocero Lavàn; b) ritornando dall’esilio e con tutti i figli, sul luogo della prima mazzevàh ; c) sulla tomba della moglie Rachèl; (Ber.28:10-22; Ber.31:44-54; Ber.35:13-15; Ber.35:19-20 ).
Dopo Ia’aqov, Moshè metterà in piedi dodici mazzevòth , per siglare il patto fatto dalle dodici tribù, singolarmente e collettivamente, intorno alla rivelazione del Sinài (Shem. 24:4).
In seguito, con uno stravolgimento normativo, la toràh vieta drasticamente l’elevazione della mazzevàh , definendola come odiosa per D-o, in quanto, oggettivamente, idolatrica (Dev.16:22). Il midrash, forse ironicamente, annota ” quello che era amabile quando fatto dai padri, è diventato odioso quando fatto dai figli ” (Sifrèi su Dev.16:22). Da questo midràsh , Rashì, Rambam e Ramban precisano che mettere in piedi una mazzevàh costituisce comunque una trasgressione idolatrica, anche se non vi viene effettuato assolutamente alcun culto e persino se il culto fosse rivolto a D-o.
Questo divieto, oltre a rompere la tradizione di Ia’aqòv e di Moshè, è tanto sottile quanto profondo. Nella toràh (Vaiqrà 26:1) la mazzevàh è equiparata in maniera esplicita al pèsel (forma scolpita). Questa equivalenza è di grande importanza teorica: a) perché impedisce di delimitare il culto idolatrico soltanto all’interno del culto delle immagini; b) perché definisce come idolatrico soltanto un oggetto su cui la mano dell’uomo deve aver avuto presa e cioè aver esercitato un’azione anche minimale (cfr. TB ‘AZ 45b-46a); c) perché ci costringe a comprendere che la mazzevàh può essere (ed anche può non essere) la base su cui si stabilisce il culto delle immagini.
Ed allora le mazzevòth di Ia’aqov e di Moshè? Perché non costituivano un culto idolatrico ed, al contrario, avevano un valore religioso positivo?
Per cercare di comprendere il significato di queste prime mazzevòth permesse ed amate, ed il senso del successivo ripudio totale delle mazzevòth, riprendiamo in esame la prima mazzevàh messa in piedi da Ia’aqov.
Dopo il sogno della scala e degli angeli, Ia’aqov prende la pietra che durante la notte aveva usato come cuscino, la mette in piedi, la unge d’olio e, unilateralmente, la contrassegna come porta del cielo.
L’elevazione di questa primissima mazzevàh merita alcuni chiarimenti:
a) Ia’aqov riconosce nel proprio sogno una rivelazione divina; con meraviglia e con timore si rende conto che lo spazio dentro cui si è addormentato è il luogo dello scontro con D-o; non a caso poco prima (Ber.28:11)la toràh ha detto che Ia’aqov ha sbattuto contro il luogo ed il midràsh (Ber.R.68:10) precisa che tutto il mondo è diventato un muro davanti a Ia’aqov.
b) la mazzevàh è nella mente di Ia’aqov che si risveglia, una rappresentazione simbolica della scala, scaturita dal suo sogno; la scala era muzzàv àrzah (infissa o stabilizzata verso terra) e alla cima della scala che arriva verso il cielo, D-o è nizzav (stabile in attesa) sopra la scala o dentro Ia’aqov.
c) Il significato onirico- religioso del sogno di Ia’aqov non è condensato dentro la scala ma sopra l’azione che si manifesta attraverso la scala e cioè il movimento degli angeli, prima verso l’alto e dopo verso il basso; Rav M. Alsheikh osserva, seguendo questa linea, che Ia’aqov ha, nella scala, una visione del Beth haMiqdàsh come di un oggetto-luogo che sarà, dentro di sé, in eterno movimento;
d) In questa prospettiva, la mazzevàh si costituisce come una rappresentazione antitetica rispetto alla scala; Ia’aqov, frastornato da un sogno più grande di lui, cerca di fermare la visione di un movimento infinito, fissandola in un oggetto definito, solido, fermo e stabilizzante; mettere in verticale un cuscino di pietra è la soluzione surreale che Ia’aqòv dà al suo imbarazzo, per aver dormito davanti a D-o, ed al suo desiderio di dare un nuovo movimento, verso l’alto, al proprio sogno;
e) Eppure, anche se confuso, Ia’aqov ha risposto al proprio sogno agendo con una grande ambivalenza creativa; ha preso una pietra, lo scomodo oggetto solido su cui aveva dormito e, mettendola in piedi l’ha fatta diventare una mazzevàh ; tuttavia chiamando il luogo del sogno casa di D-o e porta del cielo , Ia’aqov ha trasformato la sua mazzèvàh in uno spazio infinitamente vuoto;
f) Il midrash (PdR Eli’ézer cap.35) coglie questa incredibile trasformazione della mazzevàh di Ia’aqov; la sua grande pietra cuscino era nata dalla fusione miracolosa di tutte le pietre che avevano composto l’altare del sacrificio di Izchàq e cioè dal luogo che avrebbe potuto impedire la nascita di Ia’aqov; dopo che Ia’aqov si allontana dal luogo del sogno (da quale luogo, in realtà?), D-o lancia la mazzevàh nell’abisso infinito, per farla diventare il pilastro dell’universo e la pietra fondante del Beth haMiqdàsh.
La prima mazzevàh di Ia’aqov ha delle funzioni paradossali: cercare di trasformare un sogno evanescente in una realtà permanente; contrassegnare ed innalzare un oggetto naturale per stabilizzare l’eternità della memoria; dissolvere questo oggetto naturale, proprio con l’azione interiorizzante della memoria, in un ricordo da costruire nel futuro.
E le ultime mazzevòth di Moshè? In quale modo è possibile comprendere, da subito, che saranno le ultime mazzevòth permesse ed amate della toràh? In quale modo è possibile comprendere che dopo di loro ogni mazzevàh sarà, al di la di ogni raffigurazione e di ogni culto, un oggetto naturale ed obbligato che produce, in quanto tale, idolatria?
Cerchiamo di individuare il momento ed il significato di questa svolta.
Moshè mette in piedi le ultime dodici mazzevòth permesse, prima di far scrivere da
D-o le tavole del patto.
I punti nuovi da mettere in evidenza sono i seguenti:
a) la prima mazzevàh di Ia’aqòv era nata dalla fusione miracolosa di 12 pietre; prima che i figli di Ia’aqov nascessero, doveva essere chiarissimo che avrebbero costituito un unico popolo; non a caso Ia’aqòv prende il nome Israèl mentre Rachel è incinta del dodicesimo figlio; le ultime mazzevòth permesse sono dodici, una per ogni tribù di Israele; nel momento in cui il popolo ebraico stipula un patto irreversibile con D-o, deve essere chiarissimo che ogni figlio di Israele sta assumendosi una doppia responsabilità individuale e collettiva.
b) le tavole del patto sono due tavole di pietra e sono scritte per essere lette dai due lati e da tutte le direzioni; di più: le lettere sono sospese all’interno della pietra; la mazzevàh , dunque, diventa inevitabilmente un oggetto idolatrico, proprio quando D-o scrive le due pietre del patto. Le misure delle tavole indicano che le pietre sono un oggetto bilaterale: due palmi nelle mani di D-o, due palmi nelle mani dell’uomo e due palmi in mezzo; le pietre del patto sono senza peso fin quando le lettere rimangono sulle tavole; quando le lettere volano via dalle tavole, il peso della pietra diventa insopportabile e le tavole precipitano e si frantumano.
c) nessuno leggerà mai le prime due tavole del patto (e neppure le seconde, scolpite e scritte da Moshè); le tavole del patto non possono essere studiate direttamente, perché potrebbero diventare un oggetto idolatrico, contro la loro stessa scrittura-lettura; le tavole del patto contengono le dieci parole forti con cui D-o dà stabilità, attraverso la Legge, all’universo; queste dieci parole forti sostituiscono le dieci parole deboli con cui D-o ha semplicemente creato l’universo naturale; nelle tavole del patto, nelle dieci parole forti è nascosta tutta la toràh, con tutte le mizwòth ; l’indefinibile leggerezza della mizwàh sostituisce, per l’eternità, l’ostentata pesantezza della mazzevàh .
Un successivo episodio (cfr.Dev.27: 1-8 e Iehoshu’a cap.4) in qualche modo complementare a questo, rende più comprensibile perché la mazzevàh che era amata, quando fatta dai padri, è diventata odiosa, quando fatta dai figli.
Prima di morire, Moshè istruisce il popolo d’ Israele: quando gli ebrei entreranno nella terra d’Israele dovranno posare sul letto del Giordano dodici pietre e quindi altre dodici, prima davanti al monte ‘Evàl e dopo a Ghilgàl (TB Sotàh 35b).
Questo rito eccezionale presenta due particolari illuminanti: a) le 12 pietre non sono chiamate più mazzevòth , ma appunto avanìm (pietre); b) sulle 12 pietre incalcinate deve essere scritta per chiaro tutta la toràh, e forse, in 70 lingue.
Su questa scrittura su pietra il Talmud riporta una controversia curiosa e pertinente (TB Sotàh 35b): secondo Rabbi Iehudàh la scrittura doveva essere sovrapposta, non incisa, sotto la calce; secondo Rabbi Shim’òn, la scrittura doveva essere incisa nella calce senza intaccare la pietra sottostante. La soluzione più probabile è dialettica: sotto la calce rimaneva coperta la scrittura segreta della toràh e sopra la calce si manifestava la scrittura rivelata, pubblica ed universale della toràh. I 70 popoli della terra potevano mandare i loro notai a trascrivere la toràh, grazie ad un’intelligenza miracolosa, che consentiva loro di srotolare ed arrotolare la calce senza cancellare il testo scritto della toràh.
Una sintesi provvisoria. La mazzevàh di Ia’aqov è un piccolo precipitato naturale di un grandissimo sogno, fatto da un individuo solo, disperato ed in fuga, davanti a D-o, verso l’esilio. L’invisibile scrittura sulle dodici pietre che sarebbero rimaste sotto le acque del Giordano, sono una proposta di lettura anti-idolatrica della toràh.
Ovunque stiano le tavole del patto e comunque siano scritte, tutti possono leggere la toràh.
Come dicono i nostri maestri, il popolo d’Israele è la toràh . Finché gli ebrei continueranno ad essere ebrei, rifiutando ogni idolatria con o senza immagini, la toràh avrà le sue seicentomila lettere.
Febbraio 1999 – Shalom