Una piccola premessa, a metà personale ed a metà impersonale. Nel lavoro e nella relazione psicoanalitica la memoria esiste ed incombe come un idolo da distruggere, ed allo stesso tempo è lo strumento per rinascere. Da una parte: i falsi ricordi ed i ricordi cancellati che, come cartelli stradali sbagliati, disegnano, per ognuno di noi, una mappa falsificata della propria esistenza. Dall’altra parte: la fatica disperata (al di là della speranza) di ritrovare o di inventare i sapori e le emozioni delle scelte autentiche, che danno ad ogni persona una identità profonda.
La grande scoperta della psicoanalisi non è la scoperta dell’inconscio, con i suoi violentissimi istinti e le sue terribili interdizioni. Che l’uomo pescasse nell’inconscio le verità più decisive della propria coscienza razionale ed emozionale, lo hanno saputo e descritto tutte le culture a noi note.
La grande scoperta della psicoanalisi èche l’inconscio, lo spazio più intimo della nostra realtà interiore, può emergere ed esistere soltanto nelle dinamiche di una relazione fra due soggetti. Un Io ed un Tu. Quando l’Io non sa riconoscersi in un Tu e quando l’Io non arriva a rivoltarsi, con la consapevolezza di essere il Tu di un altro Io, le persone diventano oggetti disumani.
Questa breve riflessione mi riporta, con un briciolo di cattiveria, di fronte al problema dell’identità ebraica, oggi.
La memoria, come il sogno, nasce, per il pensiero talmudico, in una doppia relazione. Quando qualcuno recupera un frammento della propria storia, nelle parole e nelle emozioni dell’altro. Quando qualcuno riesce a vivere, nei propri pensieri, la storia e le azioni dell’altro. Nel momento in cui Ia’aqòv si traveste da ‘Esàv, mettendosi dentro la sua pelle, questa doppia relazione si stabilisce definitivamente, nel modo di esistere di ogni ebreo, attraverso le drammatiche vicende, interiori ed esterne, di questa identificazione
Può esistere un ebreo senza storia e senza memoria? E che tipo di ebreo sarebbe, questo ebreo deprivato delle sue radici, millenarie ed orgogliose, dolorose ed umili, forti per le contraddizioni?
Ho detto un’eresia? Ho bestemmiato? Ho pronunciato invano il nome indicibile di cui ogni ebreo nutre il proprio senso di continuità?
Forse si e forse no.
Ebrei si nasce ed ebrei si diventa. Queste due mezze verità sono antitetiche, ma non si possono sopprimere. Senza l’una l’altra si annulla. E non ha senso discutere delle piccole percentuali che compongono il grande miscuglio ebraico.
Chiunque si fa ebreo è come una creatura che nasce in quel momento. Chiunque si fa ebreo, diventa straniero a se stesso. Anche queste sono due mezze verità, che hanno significato solo se si combattono, senza separarsi. L’una contro l’altra. L’una assieme con l’altra.
E chi crede (quale preistorica follia!) di essere nato ebreo? Come fa a partorirsi e come riesce ad alienarsi per ritrovarsi? Un ebreo nasce nel proprio futuro. Nell’ebreo biblico e post-biblico, la storia si chiama generazioni e l’albero genealogico di tutti gli ebrei si declina al futuro.
Ed oggi chi è garante della mia ebraicità? Ho perduto la mia memoria collettiva (il fascino mortale dei suoi odori senza tempo). Ho perduto la capacità di dare un senso alla mia straordinaria storia. Mi sento perduto in questo vuoto assoluto.
Chi mi verrà a ritrovare?
Dove sono? Dove sei? E’, secondo Nachman di Breslav, la domanda più lacerante di tutto il testo biblico. Forse è l’unica vera parola della torà, e tutto il resto è commento.
Dove sono e dove sei? E’ la stessa domanda, divisa e moltiplicata per due. E’ un altro ebreo che mi restituisce quello che ho perduto e quello che non ho mai avuto.
Nel terzo secolo dell’EV, mentre Costantino cambiava le etichette dell’Impero Romano, fuori di questo Impero, Ravà ed Abbaiè discutevano se può esistere una perdita (una rinuncia al possesso dei propri oggetti) senza consapevolezza.
Se un ciclone o un’alluvione mi derubano di qualcosa che ho (e che forse non so di avere), senza che io me ne accorga, e se questo qualcosa viene lasciato in un luogo che non conosco, sono o non sono ancora il legittimo proprietario di questo qualcosa?
Il talmud conclude che non si può perdere qualcosa di cui non si ha consapevolezza. Non si può disperare e rinunciare senza un atto di distruzione consapevole.
Il ciclone e l’alluvione possono essere immensi: cicloni ed alluvioni hanno storicamente colpito le vite e distrutto la memoria continuativa del popolo ebraico e delle singole comunità ebraiche. Ed ogni ebreo ricorda, al fondo di ogni universo, le ombre dell’ultimo sradicamento.
L’esperienza dello sradicamento è la radice dell’esperienza ebraica.
Ed allora? Senza memoria e senza storia, ogni ebreo aspetta con la stessa emozione di sempre, che il mattino faccia sapere se il suo ramo consumato fiorirà un’altra volta.
E la terra inghiotte, inesorabilmente, l’ebreo che non ama la diversità dell’altro ebreo, come se stesso.
Ed il cielo si dissolve sopra l’ebreo che, con la infinita gelosia di questo amore esclusivo, non si inventa un nuovo modo per diventare una benedizione fantastica per tutte le famiglie della terra.
Come la polvere, come le stelle, come la sabbia che resiste alla furia del mare.
p. s.
Ad un chassìd che dopo il churbàn aveva perso, con rabbia, la capacità di ricordare quello che studiava, il suo Rebbe rispose: “Non è scritto che bisogna ricordare la toràh. E’ scritto che bisogna studiarla”. Anche il midrash sottolinea che Moshè ogni notte dimenticava quello che aveva studiato di giorno. Per rinascere ogni mattina in un nuovo modo di studiare. In una nuova relazione con D-o per capire il testo della toràh inscritta lettera per lettera, una per ognuno dei seicentomila ebrei.
Novembre 2002 – originalmente pubblicato su Shalom