17 Tammuz 5759
di Rabbi Meir Simcha Ha-Kohen di Dvinsk
Il digiuno del 17 di Tammuz ricorda la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi, preludio all’incendio e al saccheggio del Tempio che avvennero il 9 di Av del 586 a.e.v. Così come quest’ultima data ricorda altri eventi infausti della storia ebraica, a partire dall’episodio degli esploratori mandati da Mosè a perlustrare la Terra promessa fino alla cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492, anche il 17 di Tammuz ricorda altre sventure. Fra queste, in particolare, la rottura delle Tavole della Legge da parte di Mosè alla vista degli ebrei che danzavano attorno al vitello d’oro. I Maestri hanno detto che tutte le disgrazie successe al popolo ebraico nella sua lunga storia vengono a far scontare in parte anche quella colpa, commessa a soli 40 giorni da quando erano stati promulgati i Dieci Comandamenti che includevano il divieto d’idolatria. Mosè, secondo l’opinione della maggior parte dei Maestri, ruppe le Tavole della Legge di propria iniziativa (un’altra cosa che Mosè fece spontaneamente fu posticipare di un giorno il dono della Torà da parte di D-o). Molti si sono chiesti (e non solo fra i Maestri): perché Mosè spezzò le Tavole? Dopo tutto, esse erano opera divina e quindi quanto di più santo si potesse immaginare. Romperle potrebbe sembrare un atto estremamente sacrilego. Come osò Mosè fare una cosa del genere? Varie risposte sono state date. Presentiamo qui la risposta assai interessante che si trova nel commento alla Torà Meshekh Chokhmà, di Rabbi Meir Simcha Ha-Kohen, nato vicino a Vilna nel 1843 e morto nel 1926 a Dvinsk, nella Lettonia, dove era stato rabbino per quasi 40 anni.
“E avvenne che quando Mosè si avvicinò all’accampamento e vide il vitello e le danze, si adirò e gettò le Tavole dalle sue mani, spezzandole ai piedi del monte” (Esodo 32:19).
La Torà e la Fede sono i fondamenti del popolo d’Israele. Tutte le cose sante, come la terra d’Israele, Gerusalemme ecc., sono secondarie e particolari, e la loro santità è subordinata a quella della Torà. Per questo non c’è alcuna differenza di tempo e di luogo per tutto ciò che riguarda la Torà, ed essa è identica sia nella terra d’Israele che al di fuori di questa, a parte i comandamenti specifici che riguardano il suolo della Terra (d’Israele). La Torà è uguale sia per una persona che abbia raggiunto il massimo livello, come Mosè “uomo di D-o“, che per quella più umile. Mosè stesso non era che un intermediario (vedi Deut. 5:5), e la Torà non è intrinsecamente a lui legata, ma ha essa stessa una propria ragione di essere. Infatti D-o e la Torà sono un tutt’uno, e come Egli ha la Sua ragion d’essere, così è anche per la Torà, e l’esistenza di questa non dipende se non da quella del Santo Benedetto.
Tuttavia, colui che possiede un’intelligenza limitata non riesce a concepire una realtà necessaria in sé e per sé senz’altro scopo. Perciò (i figli di Israele) cercarono con ogni mezzo di farsi delle forme e delle immagini che rappresentassero delle vie di accesso al Cielo, e dicevano: questo è il Carro per la Divinità, questo è ciò che controlla e fa girare tutti gli affari del mondo. A queste forme prestavano culto, offrivano sacrifici e bruciavano incenso. Le danze sfrenate ebbero origine dai loro concetti concreti e visibili. Tutto ciò derivò dal fatto che Mosè aveva ritardato a tornare all’accampamento, e la loro fede ne fu quindi scossa; essi cercarono di farsi un vitello e di farvi scendere uno spirito dall’alto, decretando che quello era il carro della divinità, che controllava il mondo terreno e che li aveva fatti uscire dall’Egitto. Un peccato simile fu commesso successivamente anche da Geroboamo (1 Re, 12).
Questo fu il motivo per cui Mosè si adirò così tanto, e urlò dicendo: Come potete pensare che io sia importante, e che abbia una qualche santità al di fuori dei comandamenti di D-o, a tal punto che in mia assenza vi siete fatti un vitello! Ma io sono un uomo come voi e la Torà non dipende da me. Anche se io non fossi venuto affatto, la realtà della Torà non sarebbe cambiata. Non pensiate che il Tempio e il Tabernacolo abbiano una santità intrinseca, lungi da ciò! D-o benedetto dimora in essi in mezzo ai suoi figli, ma se questi commettono una colpa, la santità abbandona totalmente (gli oggetti sacri), che diventano oggetti qualunque di uso profano. Tito entrò nel Santo dei Santi (del Tempio di Gerusalemme) accompagnato da una prostituta, e non gli successe niente, perché il Tempio era privo ormai di ogni santità.
E ancor di più: le Tavole della Legge, “opera di D-o“, anch’esse non sono intrinsecamente sante, lo sono solo in virtù vostra. Nel momento in cui la sposa commette adulterio sotto il baldacchino nuziale, le Tavole diventano uguali a pezzi d’argilla privi di alcuna santità. Esse sono sante solo finché voi le osservate. In conclusione: non c’è niente di sacro al mondo a cui si debba prestare culto e sottomettersi. Solo D-o è santo, nella Sua ragion d’essere, e a Lui soltanto sono dovuti omaggio e culto. Tutte le cose sacre sono tali solo per effetto dell’ordine del Creatore, che ha comandato di costruire un Tabernacolo dove presentare, a Lui solo, sacrifici e offerte.
Ora possiamo capire perché Mosè, “quando si avvicinò all’accampamento e vide il vitello e le danze” e comprese quanto grande fosse il loro errore, “si adirò e gettò le Tavole dalle sue mani“: egli voleva far capire che non c’è nessuna santità e divinità al di fuori della realtà del Creatore, sia benedetto il Suo santo Nome.
Se Mosè avesse consegnato loro le Tavole, essi avrebbero semplicemente sostituito il vitello con le Tavole, senza capire il proprio errore. Ma quando ruppe le Tavole, capirono quanto lontano essi fossero dallo scopo della fede e dalla pura Torà.
Non c’è alcuna santità nel creato se non in virtù del fatto che Israele osserva la Torà in accordo con la volontà del Creatore, sia santo il Suo Nome benedetto, il vero Essere. Per questo il libro del Deuteronomio (4:15) ci ammonisce: “nessuna immagine voi vedeste…”.
Traduzione e adatt. dall’ebraico a cura di David Gianfranco Di Segni
(originalmente pubblicato su Shalom)