Rav Roberto Della Rocca
Più volte ricorre nella Bibbia l’imperativo “Siate santi, perché Santo Sono Io il Signore”. Tra le tante interpretazioni che sono state date a questo monito è significativa quella di Rashì (Troyes 1040-1105 – nel suo commento a Levitico 19; 2), forse il più autorevole dei commentatori della Bibbia. Egli, infatti, interpreta il termine ebraico “Kadosh”, “santo”, nel senso di “distinto”, “differenziato”, “diverso” e vede, dunque, nelle parole di Dio non solo una giustificazione della diversità, ma la diversità come dovere esistenziale. Come a dire “siate diversi dagli altri popoli come Io, il Signore,Io Sono dagli altri dei”.
Questa concezione della diversità come precetto divino a cui adempiere mette in discussione, fra l’altro, l’idea che l’uomo si realizzi soltanto nella conformità, assoggettandosi supinamente al codice sociale vigente, rifuggendo sempre ogni singolarità. L’ebraismo è un percorso di individuazione, che esalta la personalità tesa, in un anelito costante, alla totalità. Un allievo chiese al Maestro: “Perché è detto “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe” (Esodo 3; 6) e non “il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe?”” E il Maestro rispose: “Perché Isacco e Giacobbe non si appoggiarono sulla ricerca e il servizio di Abramo, ma ricercarono da sè l’unità del Creatore e servirono Dio in modo diverso da Abramo”. Ecco la via dell’individuazione.
Trovare se stessi, scoprire l’irriducibilità del valore individuale, equivale a trovare Dio; in termini moderni, l’individuazione e la scoperta della propria dimensione religiosa si trovano in un rapporto di mutuo condizionamento. “Quando Rabbi Baruch di Mesbiz arrivava alle parole del Salmo: “… non darò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre fino a che io non abbia trovato una dimora per il Signore …” (Salmi, 132; 4), egli si fermava e diceva a se stesso: “Fino a che trovo me stesso e faccio di me una dimora pronta ad accogliere la Shechinàh, la Divina Immanenza””.
Il singolo non è riducibile a soli valori collettivi, egli stesso rappresenta un valore assoluto: la specificità dell’anima umana, la singolarità dei suoi attributi costituisce insieme il rischio e il valore dell’individuo. Come tale l’uomo è posto di fronte all’Eterno, non come modello impersonale. Dio vuole dall’uomo l’attuazione della sua singolare irripetibilità, non l’adeguamento acquiescènte a uno schema collettivo.
Si afferma nel Talmud babilonese, Sanhedrin 37 a “Badate, che l’uomo è stato creato solo, per insegnare che chiunque distrugge una vita è come se distruggesse il mondo intero, e chi invece mantiene una vita è come se mantenesse un mondo intero”. E inoltre si aggiunge: Perché l’uomo è stato creato solo? Per propagare la pace tra le nazioni, cioè perché nessuno potesse dire agli altri: mio padre era più grande del tuo… ed infine per affermare la grandezza del Signore, Santo e Benedetto Egli sia. Perché l’uomo quando vuole coniare delle monete le fà tutte identiche, mentre Dio, pur creando l’uomo con il marchio di Adamo, non crea nessuna creatura simile all’altra”, e perciò conclude il passo, ogni uomo può e deve dire “per me è stato creato il mondo!” Se io sono irripetibile, io sono importante e prezioso.
Avvertire la propria individualità e unicità e agire di conseguenza è un connotato fisiologico dell’esistenza umana e come tale non può essere un male, anzi.
“Se non sono io per me, chi sarà per me?…”
Ma finché l’uomo non sente altro fondamento di sé che il suo io, egli rimane escluso dal processo di autenticazione del sé che lo può condurre alla fondazione della totalità rispetto alla quale l’io è unicamente parte. “…E quand’anche io pensi solo a me, che cosa sono io?…” (Mishnàh, Avot,1; 13).
Secondo alcuni Maestri i Dieci Comandamenti (Esodo 20; 2-17) potrebbero essere sintetizzati collegando semplicemente la prima e l’ultima parola del testo: “Anochì” (“Io Sono”) e “lere‘echa” (“per il tuo prossimo”). Per comprendere l’alterità, il “lere’echa”, bisogna prima individuare la propria identità, l’Io Sono, l'”Anochì”, altrimenti al prossimo si può offrire ben poco.
Il capitolo 12 della Genesi si apre con il comando di Dio ad Abramo “Lech lechà”, “Vattene via”, che potrebbe però anche significare “va verso te stesso”, ossia, “alla ricerca di te stesso”. Questo processo di individuazione, tuttavia, esige una forma di distacco dal passato, dai preconcetti ereditati, dagli assiomi e dalle norme etico-religiose, sociali e psicologiche non elaborate consapevolmente. “Vattene dentro te stesso”, ascolta la voce che ti viene da dentro e non sempre quella che ti proviene dall’esterno; soltanto attraverso questo processo Avràm, Abramo, diventa Avraham “padre di numerose genti” (Genesi 17; 5), un vero universalista.
Non solo il linguaggio del quotidiano rivelarsi del divino all’uomo ha il carattere dell’assoluta individualità, ma anche il linguaggio che lega l’uomo all’uomo, se è linguaggio autentico, fondato sulla comunione individuale, reca sempre i segni di una esclusività che non consente sostituzioni dei destinatari del messaggio. In questo senso anche la parola del Maestro è multidimensionale ed è accolta da ciascuno come comunicazione individuale.
Il termine ebraico per individualità è “ishiùt” che nell’ebraico biblico copre un campo semantico molto ampio, fino a comprendere i significati di “personalità” e “singolarità”. E` utile soprattutto notare come ishiut contenga la parola “ish”, “uomo”, da cui esso deriva. Ma non solo: la parola ish è seguita da “ut”, che è il suffisso ebraico per la formazione dei nomi astratti; in tal modo ishiut potrebbe essere letto anche come “umanità” (“enoshiùt”). Ma come superare la contraddizione che il termine porta in sé? La distanza semantica fra “umanità” e “individualità” è certamente notevole. Il superamento di quest’aporia sembra possibile solo considerando l’umanità come insieme di individualità realizzate nella loro rispettiva integrità e, al contempo, valorizzate nella loro reciproca integrazione. Come immaginare, tuttavia, che l’uomo possa realizzare se stesso, in solitudine, prescindendo dall’istinto di prevaricazione? Anche qui la lingua ebraica è chiarificatrice: molto simile ad “ishiut”, “individualità”, è “ishut”, “matrimonio”, “unione”, termine anch’esso derivante da “ish”, “uomo”.
Così, l’essere se stessi coincide con la capacità di trasmettere le proprie emozioni, di entrare in contatto con l’altro, quando non solo vive con qualcun altro ma con-vive. L’uomo, infatti, sin dalla sua creazione è stato accompagnato da un suo simile, la donna, detta “ishàh” perché creata dalla stessa carne dell’ish. Dio, creando una ishiut baishut, una personalità nell’unione, ha fondato nel mondo una prospettiva pluralistica e dialogica che ricompare, poco dopo, con la narrazione del diluvio universale: gli animali che entrano nell’arca, per dar poi vita a un mondo nuovo, sono tutti accoppiati.
La colpa originale fu causata prorpio dall’illusione della separazione. Non a caso Eva accusò il serpente di averla corrotta col termine “hishiàni” (Genesi 3; 13), che può essere scomposto nelle parole iesh ani, l’Io esiste; l’Io esiste come io diviso, come autocoscienza separata.
I Maestri ci insegnano tra l’altro che le parole ebraiche per uomo e donna, ish e ishàh, contengono una la lettera iud – che nel pensiero mistico è il simbolo della creatività -, l’altra la lettera he del Nome di Dio – simbolo della spiritualità -. Se queste due lettere vengono tolte, ciò che resta, sia in ish che in ishàh, è esh, fuoco, che allude alla separazione e alla distruzione. Ma l’esh, il fuoco, si trasforma in simbolo di luce,calore e energia se l’amore coniugale è caratterizzato dall’ integrazione della iud e della he le quali unendosi danno vita alla metà del Nome tetragrammato di Dio, santificando così la vita coniugale (la cerimonia nuziale si chiama infatti “Kiddushim”, “destinazione, consacrazione” dalla stessa radice della parola “Kadosh”, “santo, distinto”).
La condizione ideale per l’uomo non è, dunque, la vita ascetica, o solitaria, ma il rapporto con il mondo, con la società, con la famiglia, con i propri simili, per acquisire consapevolezza della propria alterità rispetto a un ambiente più vasto, senza per questo distanziarsene, ma assumendo anzi il senso della propria complementarietà al tutto. Il rilievo dato dall’ebraismo al ruolo del singolo individuo nella totalità è evidente nella preghiera pubblica, che può aver luogo solo in presenza di un minian, il quorum di 10 uomini adulti; ma se ne ritrova una trasposizione metaforica anche in molti dei precetti cui si deve informare la vita di ogni ebreo, come nel caso del “mazzetto del Lulav” nella festa di Sukkoth (Capanne), con il suo essere oggetto e simbolo nell’unione necessaria di 4 piante diverse ma complementari.
La Toràh insegna come una società in cui è venuta meno la possibilità di comunicare sia destinata alla distruzione. Nella storia della torre di Babele, gli uomini che tentano di raggiungere il cielo elevandosi verticalmente sono puniti con la confusione delle lingue. I motivi del fallimento di una società come quella della torre di Babele vanno ricercati nel fatto che, secondo il racconto biblico, in quella società non solo tutti parlavano la stessa lingua, ma usavano anche le stesse espressioni. E una società in cui non c’è diversità di espressione e di opinione denuncia, assieme all’impossibilità di comunicare, l’omologazione delle idee, il totalitarismo culturale, la mancanza di spazio per il confronto. Appare ovvio, allora, che una tale società aspiri a crescere verticalmente, producendo modelli di dominio e prevaricazione dell’uomo sull’uomo.
Con Abramo la cultura ebraica diventa l’antitesi della cultura della torre di Babele, ponendosi come cultura della diversità e dell’alterità attraverso quel modello di orizzontalità che è la dialettica. E non è un caso che il primo vero dialogo, nella Bibbia, sia quello di Abramo e sua moglie Sara: “…So bene che tu sei donna di bell’aspetto…” (Genesi 12; 11). Il dialogo inizia in famiglia, con l’unione matrimoniale, e anche in questo Abramo è il primo monoteista, poiché intuisce che l’unicità di Dio è una ricerca che si afferma non attraverso la verticalità dell’elevazione, ma grazie all’orizzontalità del dialogo.
Quello di Abramo è la prima vera eccezione, dopo vari tentativi di dialogo falliti, come quello mutilato di Caino e Abele: “Caino disse ad Abele suo fratello, e mentre si trovavano in campagna, Caino si levò contro suo fratello Abele e lo uccise” (Genesi 4; 8), oppure quello di Babele (Genesi 11; 1-9) che è un dialogo impossibile. Sono dialoghi dove sembrano mancare totalmente i concetti di alterità e di interazione. Anche in questo Abramo è il primo ebreo, “ivrì”, nel vero e proprio senso letterale del termine (“ivrì”, “dall’altra parte”), non solo da un punto di vista geografico ma come afferma la letteratura rabbinica: “…il mondo era da una parte e lui da tutt’altra…”.
È nella differenza dei linguaggi, nella molteplicità delle idee, posta come premessa, nella contrapposizione e nella comunicazione fra gli opposti, che la cultura ebraica si fa luogo di incontro di tradizioni diverse. Un modello di pluralismo le cui radici si scoprono fin dall’esordio della Bibbia, dove la prima lettera della prima parola del primo passo non è, paradossalmente, la prima lettera dell’alfabeto ebraico, bensì la seconda. L’effetto di un inizio assoluto sembra mancato soltanto per un soffio. E, naturalmente, i Maestri ne hanno cercato il motivo.
Una parabola (aggadà) racconta, così, di una lunga e accesa discussione fra tutte le lettere dell’alfabeto ebraico, ognuna delle quali rivendicava il proprio diritto di iniziare la Bibbia. La scelta cadde, infine, sulla seconda lettera dell’alfabeto, la bet; la Bibbia inizia, infatti, con la parola “Bereshit”, “in principio”. Apparentemente, sarebbe stato forse più logico riservare questo onore alla prima lettera dell’alfabeto ebraico, la alef. Sempre secondo questo racconto, la alef si lamentò con Dio per questa ingiustizia, e Dio le rispose che non poteva cominciare a creare il mondo con la alef perché con essa inizia la parola “arur”, “maledetto”, mentre con la bet inizia la parola “berakhàh”, “benedizione”. Se il mondo fa fatica a mantenersi in vita, pur creato sotto gli auspici della bet, ci si chiede che cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente.
Ogni lettera vive di vita propria. Questa storia ci dice, anche, che la lettera bet è aperta in avanti e chiusa dagli altri tre lati: questo per insegnare che l’uomo deve guardare davanti a sé, e non sopra, sotto o all’indietro; l’uomo si deve occupare dei problemi concreti di questo mondo e non di questioni astratte.
La forma e il contenuto di questa interpretazione sembrano illuminare bene l’identità e l’atteggiamento del popolo ebraico. Ogni lettera dell’alfabeto ebraico può essere interpretata, e ogni lettera ha una sua identità. Nella cultura ebraica, l’alfabeto è, da sempre, qualcosa di più di un elenco convenzionale di segni. Su questo edificherà molto il misticismo, per il quale l’alfabeto è uno sguardo sul mondo; ogni lettera, con il suo valore numerico e simbolico, è una chiave con cui tentare di decifrare i segreti della creazione.
Questa bet, dal valore numerico di 2, prima lettera della prima parola di un libro come la Bibbia, suscita non pochi interrogativi. La alef, dal valore numerico di 1, avrebbe conferito al mondo un carattere troppo assiomatico ponendo aprioristicamente l’accento sull’unicità (di Dio, della parola, o del testo stesso).
E invece, con la bet, la cultura ebraica pone a proprio fondamento un modello dialettico, che nega ogni dogmatismo, ogni integralismo, affermando quella dimensione pluralistica e dialogica come peculiare dell’ebraismo.
Il Talmud, o più esattamente la Mishnàh, corpus iuris dell’ebraismo, è un caso assai raro di codice legale nel quale, dopo aver presentato la norma che deriva dalla decisione di maggioranza, si cita anche la posizione che, a riguardo, era stata affermata dalla minoranza. Nessuna opinione è privata, dal Talmud, del diritto di cittadinanza e della libertà di espressione.
Ciò perché, quando nell’ebraismo si parla di Torà, ci si riferisce non ad un libro da leggere e da studiare, ma a un libro da vivere, un libro che contiene in sé un bagaglio di esperienze, di saggezza umana e, insieme, di dubbi, interrogativi e interpretazioni che dalla Torà, e all’interno del sistema della Tora, traggono ispirazione. La parte insostituibile apportata da ognuno di noi al messaggio ricevuto fa sì che questa ricchezza si manifesti soltanto nella pluralità degli individui e nel succedersi delle generazioni.
L’apporto di ciascuno, in ogni epoca, si confronta con le lezioni di tutti gli altri, nel presente e nel passato. Dunque la Torà non si accontenta di essere modello di riferimento, ma si propone come punto di partenza per un incessante dialogo che dovrà svilupparsi nel tempo. La Torah è un testo aperto, teso per la sua stessa essenza a una continua evoluzione. In tal modo, anche dal punto di vista meramente testuale, la Torà sceglie la vita: essa non accetta, infatti, la morte di sé come testo, che sarebbe rappresentata dalla chiusura interpretativa di una conclusione dogmatica.
Forse, a questo punto, si potrebbe affermare che la scelta di iniziare la Torà dalla seconda lettera dell’alfabeto ebraico, la bet, vuole insegnare che il mondo simboleggiato dall’apertura e dalle contrapposizioni (vita-morte, bene-male, luce-tenebre, ecc.), ossia dalla dualità della bet, deve tendere all’unità e all’identità simboleggiata dalla alef, lettera che potrà intervenire soltanto più tardi, sul Monte Sinai, nell’Anochì, nell’Io Sono dell’Eterno, prima parola dei Dieci Comandamenti (Esodo 20; 2).
Compiere questo percorso dalla bet alla alef significa, inevitabilmente, scegliere la strada dell’individuazione, che nel pensiero ebraico vuol dire, tra l’altro, avvicinarsi anche all’idea di redenzione e di libertà. Il fatto, poi, che il secondo libro della Torah, “Shemot”, letteralmente “Nomi”, sia stato tradotto “Esodo”, in quanto centrato sulla liberazione dalla schiavitù d’Egitto, induce a riflettere sul senso del titolo originale.
Shemot, il libro della liberazione, si apre, infatti, con un elenco di nomi, quelli dei capi delle tribù di Israele, perché i nomi giocarono un ruolo essenziale nel processo di liberazione. Nell’ebraismo il nome è un intero mondo di cultura e tradizione. Uno dei principali fattori che tennero uniti gli ebrei come popolo e li rese meritevoli di essere liberati fu il fatto, secondo l’esegesi rabbinica, che essi non cambiarono i loro nomi ebraici originali, resistendo alle posssibilità di acculturazione e assimilazione offerte dalla società egiziana.
Secondo la Tradizione ebraica, il nome rappresenta la personalità di chi lo porta, oltre ad essere il primo segno di identità. Quindi si potrebbe dire che l'”Esodo” sia la naturale conseguenza di “Shemot”, tra l’altro acronimo di “Shabbat”, “Milàh”, U “Tefillin”, i tre precetti che vengono definiti dalla Toràh come “oth”, “segno” (il riposo sabbatico in Esodo, 31; 17, la circoncisione in Genesi 17; 11, e i filatteri in Deuteronomio 6; 8). Soltanto una giusta e consapevole salvaguardia dei propri segni e della prorpia diversità, individuale e collettiva, che ci contraddistingue può avvicinare la libertà.
Le soluzioni già pronte, le certezze, le convinzioni apparentemente immutabili, non sono utili che a dar tranquillità a chi non vuol porsi quelle domande scomode ma che nessuno può eludere. E così, per non impegnarsi nel faticoso compito di inseguire la nostra alef, si dice di averla già raggiunta.
“Prima della sua morte, Rabbi Sussja di Hanipol disse: “Nel mondo a venire non mi si chiederà: ‘perché non sei stato come Abramo, perché non sei diventato Mosè?’ Mi si chiederà soltanto: ‘Sussja, perché non sei stato Sussja?’””.
Relazione presentata al Moked del Dac-Ucei di Milano Marittima 1996 e pubblicata su “Ha Keillah” del Giugno 1996.