Paolo Mieli – Corriere della Sera – Domenica 20 Aprile 2003
Le firme improprie per quei manifesti su Israele
Interessante il suo scambio di lettere con Alberto Arbasino sulle nuove forme di antisemitismo. Nella sua risposta lei cita un intervento di molti anni fa della scrittrice Rosellina Balbi a proposito di ebrei che firmano appelli pro o, più spesso, contro Israele, cosa che io ritengo impropria e comunque inopportuna. Penso che firmare un manifesto in quanto appartenente ad una religione o ad un popolo sia qualcosa che può esser fatto solo in momenti eccezionali e di fronte a eventi di portata storica. Quei riti giustamente stigmatizzati da Arbasino, da lei e dalla Balbi sono invece qualcosa di assai ordinario e mi domando come sia possibile che qualcuno li compia senza accorgersi di quanto siano controproducenti.
Giuseppe De Cillis – Milano
Caro signor De Cillis,
fortunatamente non è questo un momento di esplosione di quel genere di appelli. Ma presto – ormai sono abituato – ne vedremo di nuovi, assai simili a quelli degli ultimi venti o trent’anni. Anch’io, come lei, li considero dannosi per chi li sottoscrive e mi domando perché in molti ancora li firmino. Sicuramente c’è il desiderio di stornare l’odio da sé. Ha scritto poco tempo fa Abraham B.Yehoshua: «Ho letto una biografia di Hitler e sono rimasto sconcertato dal vedere con quanta forza l’odio verso gli ebrei lo abbia accompagnato, anche dopo la costruzione dei campi di sterminio e la decisione della soluzione finale; voglio capire che cosa c’è in noi che scatena un simile odio». E’ vivo il senso che sia l’ebreo stesso a «scatenare» questo odio. Ed è forte il desiderio di fare qualcosa per non «scatenarlo» più. O, comunque, di meno.
Mesi fa, nelle settimane più incandescenti dell’intifada, si sono moltiplicati gli appelli dei cosiddetti «ebrei contro l’occupazione», cioè cittadini di religione ebraica (spesso soltanto di origini ebraiche) che in quanto tali si dissociano dalla politica di Ariel Sharon. Nello Stato americano del Michigan un gruppo di ebrei ha aderito, addirittura con uno specifico appello, ad una campagna per il boicottaggio di Israele. In Inghilterra è arrivato al Guardian uno di questi appelli in cui quarantacinque intellettuali israeliti proclamavano la loro rinuncia al diritto in omaggio al quale, per la «legge del ritorno», avrebbero potuto ottenere in qualsiasi momento residenza e cittadinanza israeliana (un diritto che dovrebbe offrire un rifugio agli ebrei di tutto il mondo colpiti dalle persecuzioni antisemite). La risposta da parte di Israele è che si tratta di «ebrei che odiano se stessi». Ma il rabbino Michael Lerner, direttore di Tikkun , ha dato una risposta diversa: «Nessuna meraviglia che molti ebrei si siano sentiti profondamente sconvolti dalla politica di Israele; da una parte essi si rendono conto che tale politica sta portando a una spaventosa ondata di antisemitismo, dall’altra capiscono che questa non sta dando sicurezza a Israele ma al contrario sta creando nuove generazioni di futuri terroristi e convincendo il mondo che Israele ha perso la sua bussola morale».
Non è una novità, dicevo. Anche vent’anni fa, ai tempi dell’invasione del Libano, gli ebrei di sinistra si sentirono costretti a firmare appelli contro il premier israeliano in carica. Rosellina Balbi (come ho già ricordato nella risposta ad Arbasino) scrisse su Repubblica nel 1982: «Mi sbaglierò ma dietro questi manifesti contro Beghin firmati quasi esclusivamente da ebrei c’è anche il timore, conscio o inconscio, di venire accomunati nella condanna della politica di Israele; e dunque il bisogno di dissociarsene, di far sapere che non tutti gli ebrei sono “cattivi”». Vent’anni dopo, Riccardo Pacifici, a commento di alcuni manifesti firmati da ebrei che protestavano per la contestazione contro Vittorio Agnoletto a Portico d’Ottavia, il ghetto di Roma, ribadì: «E’ ignobile e pretestuoso da parte di alcuni signori firmarsi non come normali cittadini che esprimono una loro opinione, ma definendosi ebrei solo perché vantano cognomi e nonni ebrei». E non è un particolare irrilevante che molti dei firmatari di quegli appelli, sottolineava Pacifici, «non sono iscritti alla comunità, anzi non sono nemmeno ebrei».
Quanto a me, l’ho scritto più volte: non mi piacciono i manifesti. Di nessun tipo. Per ciò che riguarda quelli in questione, approfitto della sua lettera e del fatto che questi sono tempi (relativamente) freddi, per suggerire maggiore prudenza a chi ha intenzione di firmarne qualcuno al prossimo surriscaldamento del conflitto tra Israele e palestinesi.
Ancora su “ebrei buoni e ebrei cattivi”
Lettera di Giorgio Gomel a Kolot
Caro Direttore,
la gravità del momento, lo sgomento per la guerra in Iraq e le sue vittime, l’esecrazione per gli attentati che colpiscono Israele e le ritorsioni che uccidono palestinesi, la mancanza tuttora di un minimo spiraglio di trattativa fra israeliani e palestinesi indurrebbero al raccoglimento e al silenzio. Ma l’articolo di Claudio Vercelli “Gli ebrei buoni e quelli cattivi” sull’ultimo numero di Shalom mi induce a un breve commento. L’articolo distingue fra gli ebrei “buoni” che piacciono ai salotti della sinistra e quelli “cattivi”, invece ostici e antipatici a quegli stessi salotti. La definizione distorce pensiero e azione della sinistra ebraica, che dal 1982 con gli Amici di Shalom Achshav e dal 1988 con il Gruppo Martin Buber a Roma e con gruppi analoghi in altre città, criticò sì la guerra del Libano, l’occupazione dei territori palestinesi, la negazione dei loro diritti nazionali, ma anche il settarismo di una certa sinistra italiana che allora come oggi intimava agli ebrei di dissociarsi da Israele, pena la loro messa in stato d’accusa (“Davide discolpati”, come diceva un celebre articolo di Rosellina Balbi vent’anni fa). Per anni questi gruppi hanno condotto una azione di educazione politica nella sinistra italiana, nel mondo cattolico, nell’opinione pubblica per difendere le ragioni di Israele, per combattere il razzismo e l’antiebraismo, per promuovere incontri fra israeliani e palestinesi. Adesso nell’opinione della destra ebraica – rovesciando specularmente l’argomentazione di Vercelli – questi sono gli ebrei “cattivi” – al meglio dei visionari, al peggio dei traditori. Gli altri sono gli ebrei autentici, i “buoni”.
Non è così. Un dibattito ha diviso in questi anni gli ebrei italiani fra moderati e massimalisti, sul conflitto israelo-arabo; fra più e meno osservanti, riguardo alle tradizioni religiose dell’ebraismo; fra coloro che difendono una visione più aperta e pluralista dell’ebraismo nel confronto con altre fedi e culture e coloro che sono più chiusi nella difesa dei propri valori in antitesi a quelli altrui. Queste fratture non dividono in modo preciso gli uni – tutti da una parte – e gli altri, contrapposti ai primi.
Basta con il semplicismo dei “buoni” e dei “cattivi”.
Giorgio Gomel
Ci era sembrato che l’articolo di Vercelli stigmatizzasse l’uso di “buoni” e “cattivi” presso certi ebrei e non ebrei. Ci dispiace che Gomel lo recuperi attribuendolo alla “destra ebraica” (che desumiamo essere tutto ciò che non è “sinistra ebraica”). Salvo poi concludere “Basta con il semplicismo dei “buoni” e dei “cattivi” che sottoscriviamo in pieno, così come la sua descrizione dell’onesto dibattito che agita gli ebrei italiani sulla questione mediorentale. David Piazza