Yasha Reibman
SIGNOR direttore, La ringrazio per l’invito al dialogo che ha voluto rivolgermi ieri dal Suo giornale. A partire dal caso Mieli proporrei due spunti di riflessione. Con una premessa: lo sdegno del mondo politico e giornalistico è stato unanime. Siamo soddisfatti.
Primo. Circa il dibattito sull’editoriale di Mario Caccavale riguardo la «scarsa presenza» della cultura cattolica in televisione. Chiariamoci subito: Caccavale non è un antisemita, anzi. Se ve ne fosse bisogno i suoi articoli degli ultimi dieci anni lo dimostrano. Purtroppo ieri in un passaggio complesso – come a tutti a volte capita- è scivolato. Caccavale infatti si dichiara «perplesso» che «grazie a un democristiano come Casini l’intero sistema televisivo sia dominato adesso da professionisti eccellenti, ma di cultura e sensibilità non cattoliche, come il nuovo presidente della Rai e i direttori dei due maggiori Tg di Rai e Mediaset». Insomma, i non cattolici vengono individuati solo in tre giornalisti di origine ebraica, Paolo Mieli, Clemente Mimun ed Enrico Mentana. Da qui l’equivoco. Le parole di Caccavale di ieri confortano. Tuttavia, nel ribadire «tutta la stima e la solidarietà nei confronti di professionisti eccellenti quali Paolo Mieli e i direttori dei principali telegiornali Rai e Mediaset» Caccavale spiega perché abbia «sentito il dovere di questo richiamo»: perché siamo «alla vigilia di una guerra dagli esiti imprevedibili. Questa guerra coinvolgerà, direttamente o indirettamente, Stati, Nazioni e persino fedi religiose». Parole per me troppo difficili, che francamente non capisco.
Nonostante la stima era necessario ribadire le origine ebraiche di alcuni direttori? Bando alle ciance, meglio di me la questione è stata spiegata domenica sera da Antonio Tajani: «Da cattolico mi sento tutelato dalla professionalità di Mieli, Mimun e Mentana». Sono sicuro che al di là delle polemiche questo valga anche per Caccavale. E altrettanto ha detto Lei, signor direttore, col Suo pezzo di ieri. Va bene così.
Secondo. Senza alcun intento antisemita o razzista, spesso solo per ragioni di spazio, con drammatica regolarità nei media e per strada si associano concetti estranei tra loro, creando assonanza che pensavamo dimenticate dalla storia. I direttori sono «ebrei», i rapinatori «albanesi», gli spacciatori «marocchini». Associazioni che fanno male, che creano un’aria insalubre, che non riguarda solo gli ebrei. Forti della nostra storia, come Comunità tuttavia dobbiamo essere sempre vigili. Per fortuna non siamo in Francia, dove gli atti di antisemitismo sono all’ordine del giorno.
Ma se Sparta piange, Atene non ride. Nel nostro Paese esistono alcuni riflessi preoccupanti che non appartengono a una sola cultura, ma risultano trasversali. L’arrivo di Mimun e Lerner in Rai fu accompagnato dalle solite voci nei soliti corridoi sugli ebrei al timone. Nella sua ultima fatica, un intellettuale del calibro di Asor Rosa in poche pagine ha saputo condensare e riproporre i più diversi pregiudizi antisemiti. Gli ebrei vengono di nuovo presentati come deicidi; eppure quarant’anni fa il Concilio Vaticano secondo cancellò queste infamanti accuse. Inoltre per il professor Asor Rosa, l’ebraismo da perseguitato sarebbe divenuto persecutore, le vittime sarebbero diventate carnefici. Gli israeliani starebbero facendo ai palestinesi quello che i loro padri subirono dal nazismo.
Accuse senza fondamenta, senza se e senza ma. Accuse che però contribuiscono giorno per giorno a creare un clima di astio. Anche l’informazione a volte ci mette del suo. Un esempio su tutti: per alcuni media le vittime palestinesi sono sistematicamente «assassinate», quelle israeliane semplicemente «morte». Vi è poi la riscoperta della razza che unisce magicamente Asor Rosa e alcuni ambienti di estrema destra. E ancora, le accuse di mondialismo, delle potere delle lobby, di complotti pluto-giudaici, che tornano puntualmente in scena per giustificare ogni evento. Persino la caduta di Bettino Craxi. Scelte linguistiche, accuse, sviste, scivoloni e capitomboli che – incontrando orecchie sensibili – nel tempo sedimentano quel fango che una volta in superficie chiamiamo antisemitismo. Il libero confronto delle diverse idee rimane allora forse il solo possibile, ma debolissimo antidoto contro questa bestia sempre pronta a rialzare la testa dai nostri abissi.
Quelle scritte
Amos Luzzatto
Un giornalista è stato incompreso. Dei ragazzacci hanno imbrattato un muro con scritte odiose.
È un clima da «curva sud». «Tutti» hanno reagito indignati. E allora?
Di che cosa si tratta? Sì, mi dispiace doverlo dire, ma si tratta proprio di antisemitismo. E desidero spiegarmi meglio.
Con due precisazioni preliminari. Se l’antisemitismo è una patologia sociale, l’ammalato non è l’ebraismo ma è quella società che ha l’ossessione degli ebrei e pertanto li diffama, li maledice, li disprezza e infine li perseguita.
In secondo luogo, vi sono almeno tre manifestazioni dell’antisemitismo: quella legale-normativa, quella dell’ostracismo sociale, quella culturale.
Entro certi limiti, queste tre manifestazioni possono essere perfino indipendenti l’una dall’altra, ma certo è che può esservi antisemitismo anche senza una legge antiebraica e che «avere degli ebrei fra i propri migliori amici» o «appoggiare le giuste ragioni di Israele» sono due cose che ci fanno un grande piacere (e lo diciamo sinceramente) ma che in sé non escludono ancora una cultura antisemitica.
Oggi parliamo di questa, sperando che gli eventi non ci costringano a occuparci prima o poi anche degli altri aspetti.
Anche «cultura» antisemitica può significare molte cose. Ai tempi di Papa Paolo IV, (quarto, non sesto!!) ad esempio, significava una teologia cattolica decisamente antiebraica (o antigiudaica, se si preferisce) che, diffusa a tutti i livelli nel mondo dei fedeli, significava educare i cattolici al pregiudizio, al disprezzo e all’odio degli ebrei; le conseguenze sono apprezzabili anche oggigiorno, dopo molte generazioni. Ai tempi del razzismo nazista e fascista significava una pseudoscienza di regime che individuava nel patrimonio ereditario degli ebrei una mostruosità fisica e psichica, estirpabile soltanto con il fuoco. Anche a questo si educavano le masse.
Oggi circola spesso l’immagine di un ebreo necessariamente diverso dalla popolazione «autoctona».
A volte «più bravo» o «più intelligente», ma comunque diverso, da distinguere: perché uno che è «meglio» degli altri potrebbe sempre imporsi a questi altri e appropriarsi delle redini della società. Anche questo, in definitiva, è antisemitismo.
Al presente, insidioso, pervasivo, a volte quasi subliminale, è comparso un nuovo antisemitismo che, nelle doglie del parto della nuova Europa, si sposa bene con una sensibilità razzistica che affiora anche nelle sedi più impensate.
È così che l’invocazione della sensibilità cattolica per coloro che si ritiene influiscano sulla pubblica opinione è coerente con l’auspicato preambolo (o qualche suo surrogato) che possa affermare la matrice cristiana dell’Europa (o un sinonimo di matrice o un «giudaico-cristiano» per tranquillizzare gli ebrei, sempre vittimisti e pertanto diversi dagli altri anche in questo).
Prima del 1938 gli ebrei erano un popolo prevalentemente europeo.
Ci ha pensato Hitler a cancellare quest’onta bruciando assieme agli ebrei, i loro libri e le vestigia della loro cultura.
Sembra quasi che si voglia ora prevenire il pericolo ebraico (o musulmano o buddista o induista) dichiarando l’Europa unificabile, sì, ma in quanto cristiana. Dunque, escludente.
Anche questo è antisemitismo, più o meno latente se volete, ma pur sempre antisemitismo.
È questa la molla che è scattata nel caso Mieli?
Temo di sì. Ed è per questo che gli siamo vicini e solidali, ma non tanto in quanto ebrei timorosi delle minacce e delle violenze, ma in quanto democratici che vogliono uno Stato laico e un’Europa laica e non escludente, una cultura aperta a tutti i suggerimenti e i contributi; quel tipo di cultura che Paolo Mieli ha dimostrato di volere e sapere promuovere. E noi con lui.