Una risposta di rav Riccardo Di Segni – Rabbino capo di Roma
Una lettrice si era rivolta a Shalom chiedendo spiegazioni sulla benedizione “che non mi hai fatto donna”, protestando per il fatto che viene citata come esempio di una condizione tradizionale femminile infelice. Questa la risposta:
La lettrice si è giustamente irritata per un atto disinvolto di disinformazione. L’occasione è utile per dare qualche spiegazione in più su una questione che è di grande attualità ed importanza e richiede un’esposizione più allargata, per quanto possibile in questa sede.
Bisogna prima di tutto tener presente il contesto in cui è inserita la frase “incriminata”: le benedizioni del mattino, che si recitano al risveglio (da molti secoli all’inizio della tefillà) e che in particolare comprendono una serie di tre espressioni:
Benedetto tuo Signore Nostro D. Re del mondo che non mi hai fatto non ebreo.
Benedetto tuo Signore Nostro D. Re del mondo che non mi hai fatto schiavo.
Benedetto tuo Signore Nostro D. Re del mondo che non mi hai fatto donna.
Al posto della terza espressione, che solo gli uomini recitano, le donne ne recitano un’altra che dice: “Benedetto tu (o Signore Nostro D. Re del mondo) che mi ha fatto secondo la sua volontà”. Un segmento di questa formula è tra parentesi perché secondo alcuni decisori questa benedizione non fa parte del canone più antico e quindi non autorizza la menzione del nome divino.
Questa è la formula del rito sefardita e ashkenazita.
Nel rito italiano ci sono due differenze significative. La prima è che invece di usare una formula al negativo per la condizione di ebreo/non ebreo si dice: “Benedetto tu o Signore Nostro D. Re del mondo che mi ha(i) fatto Israel”. La seconda è che l’ordine delle benedizioni è diverso, e la benedizione che riguarda l’identità ebraica precede quella sullo schiavo. Queste differenze, come vedremo più avanti, hanno la loro importanza.
Con lo scoppio della rivoluzione femminista anche l’ebraismo, in tutte le sue istituzioni, è stato sottoposto a una critica molto forte. La prima critica è stata fatta alla benedizione del mattino, nota a tutti in quanto ben visibile nelle prime pagine dei libri di preghiera, e che potrebbe dimostrare come nell’ebraismo tradizionale la posizione della donna sia considerata inferiore e infelice. La critica a questa benedizione è così diventata una sorta di riferimento costante, una bandiera, un simbolo della protesta femminista contro la tradizione (o alcuni suoi aspetti).
All’esterno dell’ebraismo poi c’è voluto ben poco per usarla con grande semplicismo come dimostrazione eclatante dell’antifemminismo ebraico. Il caso denunciato dalla nostra lettrice è un esempio di quest’uso.
A parte l’uso diffamatorio esterno e anche interno all’ebraismo, qualche ebreo(a) ha sfruttato questa storia come comoda scusa per liberarsi della tradizione ebraica; molti altri hanno reagito in diverso modo chiedendo come è giusto spiegazioni, e se possibile, abolizioni o variazioni.
Nell’ambito dell’ebraismo ortodosso, dove la fedeltà alla tradizione è massima ed è difficile modificare cose consolidate da secoli, la riflessione su questo tema comincia ad essere vivace; le risposte sono state varie e possiamo così schematizzarle:
1. La risposta “conservatrice”: Il motivo della benedizione è di ringraziamento per una condizione migliore, in quanto si ritiene che essere ebrei, maschi e liberi sia meglio dell’essere non ebrei, femmine e schiavi. Pertanto non c’è niente da cambiare. Molti ebrei ortodossi (ma non solo loro, perché l’antifemminismo non è patrimonio esclusivo dell’ortodossia e non tutti gli ortodossi, uomini e donne, sono “antifemministi”) resistono con diffidenza alle pressioni dovute al cambio di mentalità, che in questo caso è stato veloce e travolgente. Fino a 50 anni fa e anche meno, nessuno si scandalizzava in tutta la società (ebraica e non) quando qualcuno diceva “auguri e figli maschi”. Prima di cambiare, si sostiene, ci vuole un po’ di cautela.
2. La risposta esplicativa (o “apologetica”): il senso dell’espressione non è necessariamente antifemminista. Non si tratta di una valutazione globale del ruolo uomo/donna, per cui uno è migliore dell’altro(a) ma di una riflessione specifica sui doveri legati alle differenti posizioni: in quanto liberi, ebrei e maschi si hanno rispetto agli altri, progressivamente, molti più obblighi (mitzwoth), e diverse responsabilità familiari, per cui il senso delle tre benedizioni è quello del ringraziamento per aver ricevuto un carico di mitzwoth superiore. E’ il carico che è superiore, non l’essere maschio. Sono molte le donne ebree che anche in epoca femminista non contestano questa divisione. E’ anche quanto sostiene la nostra lettrice nella sua lettera, in cui difende uno schema nel quale la divisione di ruoli non intende la superiorità ma solo la diversità e il carico di lavoro. Che questo sia il senso della benedizione lo dimostra anche- per molti interpreti- l’ordine logico delle tre benedizioni (nei riti sefardita e ashkenazita) che sottolinea la progressiva sottomissione al giogo delle mitzwoth. Sempre in questa chiave di lettura è stata proposta una spiegazione diversa della frase che le donne recitano (“che mi ha fatto secondo la sua volontà”), di solito intesa come l’accettazione di un decreto poco favorevole: quando venne creato l’uomo, racconta il Bereshit (1:26), D. disse “facciamo l’uomo” (na’asè adam), al plurale, e il midrash spiega che prima di creare l’uomo D. si consultò con gli angeli. Quando invece si racconta la creazione della donna, tutti i verbi sono al singolare (“prese una delle costole ..” ecc. ibid. 2:21). Come a dire che per la creazione dell’uomo ci fu un concorso di idee e di volontà, mentre per la donna ci fu l’unica volontà divina; è per questo quindi che le donne dicono “che mi ha fatto secondo la sua volontà”.
3. La risposta “innovativa”, nel rispetto della tradizione. Dato che queste spiegazioni non convincono i critici più accesi, si tratta di vedere se si può mantenere qualcosa che irrita e offende una parte del pubblico. A questo punto sono state discusse varie soluzioni:
l’uso di formule nuove e differenti la non recitazione della benedizione.
Tra le nuove formule proposte c’è quella in cui l’uomo e la donna benedicono in positivo “che mi ha fatto maschio (o femmina)”. Il problema “tecnico” è se sia legittimo introdurre formule non contemplate dalla tradizione antica (forse sì), e recitarle con il nome divino (probabilmente no).
Nelle varie soluzioni proposte il rito italiano, con le sue varianti, è tornato alla ribalta. Perché, come si è visto prima, nel rito italiano si usa già una formula al positivo, per quanto riguarda l’identità ebraica. Una lunga tradizione discute la legittimità della formula italiana e molti critici sostengono che non sia originale, ma sia stata introdotta per una forma di censura, essendo la formula al negativo potenzialmente offensiva per i non ebrei (come ora si offendono le donne). Che questo sia il motivo è ancora da dimostrare definitivamente, e gli ebrei italiani da secoli sono rimasti gelosamente fedeli alla loro formula, malgrado le critiche, ma anche con molte approvazioni. Su questi presupposti l’introduzione di una formula al positivo anche sulla differenza uomo/donna non sarebbe fuori dalla tradizione. L’altro dato importante è l’osservazione fatta da alcuni critici della formula italiana: se si dichiara subito di essere Israel (che può significare ebreo e maschio), le altre benedizioni diventano inutili; ma allora, ragiona qualcuno oggi, basta appunto dichiarare di essere Israel per non avere la necessità di dire la benedizione sulla donna. Bisogna però vedere se veramente Israel è maschile o non comprenda invece anche la condizione femminile. Interessante, da questo punto di vista, una variante del rito italiano presente nella tefillà di rav Camerini, pubblicata nel 1916, dove l’uomo dice “Israel” e la donna “Isreelit” (al femminile).
Tutte queste informazioni le diamo non come regola pratica da seguire, ma semplicemente per aggiornare i lettori sul dibattito in corso. In particolare, per tutto il terzo punto, bisogna precisare che si tratta di una riflessione che nasce in alcuni ambienti ortodossi americani e israeliani ancora limitati dove il problema si pone e c’è questo tipo di sensibilità. In altre parti del mondo ebraico il problema non si pone o bastano le altre due risposte, o forse viene semplicemente represso. Ogni modifica dovrebbe essere sostenuta con autorità e fondamento halakhico, nonché condivisa ampiamente e per il momento c’è molta discussione e poco consenso.
Comunque da tutto questo, per tornare alla domanda della nostra lettrice, possiamo trarre queste conclusioni:
E’ possibile che la benedizione “che non mi ha fatto donna” nasca da valutazioni negative del ruolo della donna, e sicuramente queste valutazioni sono emerse nel corso della storia, ma è anche possibile che le motivazioni siano differenti e sicuramente ci sono state e ci sono interpretazioni non offensive. Anche l’ebraismo ortodosso reagisce e discute costruttivamente intorno a questo tema. Con queste premesse, usare la benedizione come il simbolo di una visione negativa della donna nell’ebraismo è una semplificazione falsa e distorcente.
Ringraziamo l’autore e Shalom per la gentile concessione.