Zohar, II, 183a: “Due tipi di pane ha mangiato Israele: allorché uscirono dall’Egitto mangiarono la Matzah, “pane di povertà”; nel deserto mangiarono il “pane dal cielo”, uno a Pessach, l’altro a Shavu’ot, come è scritto: “Ecco Io vi faccio piovere pane dal cielo” (la manna – Shemot 16,4). Perciò il sacrificio di questo giorno (Shavu’ot) consiste in pane (lievitato) e con il pane si offrono gli altri sacrifici della festa, perché il pane è l’offerta più importante, come è scritto: “E offrirete insieme al pane sette agnelli” (Wayqrà 23,18, “dalle vostre dimore porterete il pane dell’agitazione” (v. 17), ovvero il pane che ha consentito a Israele di raggiungere la Sapienza Superiore della Torah e di entrare nelle Sue vie”.
Qual è il legame fra la manna e Shavu’ot? 1) La Torah non mette mai in relazione la manna con Shavu’ot. 2) Il versetto dice invece: “I Figli d’Israele mangiarono la manna per quarant’anni, finché giunsero in terra abitata” (Shemot 16,35)! Eppure lo Zohar spiega che la manna ha reso Israele atto a ricevere la Torah.
Come è possibile che un cibo materiale prepari la ricezione di uno spirituale? Ogni contenuto necessita di un contenitore. La Rivelazione Divina rappresenta la luce che si spande dall’Alto verso il basso. Compito dell’uomo è predisporre contenitori (kelim) per questa luce. Si pensi alle onde radio: sono presenti dappertutto, ma senza un apparecchio adeguato non sono percepibili. Allo stesso modo si può spiegare il rapporto esistente fra volontà/pensiero da un lato e parola/azione dall’altro. La casa non può essere costruita se non c’è una volontà che inizialmente si traduce in pensiero; successivamente si esprime attraverso la parola per poi concretizzarsi attraverso l’azione. Sebbene la casa rappresenti il livello più basso di questo processo, contiene in sé anche i livelli superiori precedenti. Nell’essere umano i quattro livelli sono, in ordine decrescente: neshamah, ruach, nefesh e guf (“corpo”).
Ciascuno di questi livelli richiede il suo cibo per sostentarsi. Esso consiste nella luce superiore, che scende dal Cielo e deve adattarsi a ognuno di essi. I segreti della Torah sono il cibo della neshamah. Lo studio della Torah rivelata è il nutrimento del ruach. Le Mitzwòt pratiche sono l’alimento della nefesh. E quanto al corpo? Lo nutrono le akhilot qedoshot (“mangiate sacre”). La Torah stessa è chiamata lechem (Mishlè 9,5). Infatti ogni creatura materiale ha essa stessa una scintilla spirituale, secondo precise gerarchie. Il grano rappresenta il cibo più alto di tutti, quello per cui recitiamo la Birkat ha-Mazon (cfr. Devarim 8,8). La Berakhah rappresenta la purificazione del cibo dalle scorie materiali.
La manna rappresenta questo tipo di cibo sceso dal Cielo. Esso era molto più perfezionato, perché non aveva le scorie terrene (qelippot). Il nostro rapporto con la materia è molto diverso da come lo concepisce il Cristianesimo. Lungi dal predicare il distacco dalla materia, noi riteniamo che l’anima non sia completa senza il corpo. La Torah non si rivolge solo alla volontà e al pensiero, ma anche al corpo con tutte le sue esigenze. La manna ha costruito i recipienti perché accogliessimo il flusso della Torah. “La Torah è stata data solo a chi mangiò la manna” (Mekhiltà Beshallach). Nel libro di Shemot c’è un ordine preciso. Prima si parla della Matzah e dell’Uscita dall’Egitto e poi del Dono della Torah. In mezzo si parla della manna…
Zohar II, 183b: “Ora facciamo attenzione. A Pessach gli Ebrei si astennero da quel pane chiamato Chametz, come è scritto: “Né si vedrà presso di te Chametz…” (Shemot 13,7). Per quale ragione? In onore della Matzah. E perché a Shavu’ot, in cui essi hanno meritato un pane di qualità superiore (la manna), il sacrificio viene proprio con il Chametz? Inoltre, perché (ciò accade) proprio nel giorno (del dono della Torah) in cui si annulla lo Yetzer ha-Ra’ (simboleggiato dal Chametz) e si rivela la Torah che è chiamata libertà (dallo Yetzer ha-Ra’)? La cosa può essere paragonata a un re che aveva un figlio unico che si era ammalato (e non voleva mangiare). Un giorno ebbe voglia di mangiare. Gli dissero: “Che il figlio del re mangi questa medicina; ma finché non l’ha mangiata non deve trovarsi altro cibo in casa”. Così fecero. Dopo che ebbe mangiato la medicina (e fu guarito) gli dissero che avrebbe potuto mangiare tutto ciò che avrebbe desiderato, in quanto non ne sarebbe più stato danneggiato. Così quando gli Ebrei uscirono dall’Egitto, ignoravano i fondamenti della fede. Il S.B. fece loro mangiare una medicina, ma finché avessero preso la medicina non avrebbero potuto toccare altro cibo. Quand’ebbero mangiato la Matzah, la medicina, che permise loro di entrare nei segreti della fede, il S.B. disse loro che da quel momento in poi avrebbero potuto mangiare Chametz senza ricavarne alcun danno”.
Lo schiavo è colui che si mette al servizio altrui perché ha perduto l’immagine Divina che è in lui. Chi ha Fede, non può essere schiavo, perché la sua anima è salda. La servitù in Egitto era il sintomo di un male profondo: la mancanza di Fede. Per guarire Israele fu necessario rinvigorire la loro Fede. In che modo? Dando loro da mangiare la Matzah. La Fede è la base di tutto. Senza Fede non c’è né Torah, né Mitzwòt. La Matzah è il pane che irradia su di noi la luce della Fede (emunah), mentre la manna è la luce che irradia su di noi la luce della Sapienza (chokhmah). Da dove lo impara lo Zohar? Dal racconto del peccato del Primo Uomo. Ha-min ha-‘etz (“forse che dall’albero…” Bereshit 3,11; cfr. Chullin 139b), con riferimento all’albero della Conoscenza, contiene le lettere di man = “manna”! Il Talmud (Berakhot 40b, Sanhedrin 70b) afferma che quell’albero era il grano! D’altronde, l’Albero della Vita contiene il segreto della Fede, conformemente al versetto: “e il giusto vivrà della sua Fede” (Chavaqquq 2,4; cfr. Makkot 24a).
Secondo lo Zohar il peccato del Primo Uomo non è consistito nel fatto di aver mangiato il frutto dell’albero della Conoscenza in quanto tale, ma nel non aver rispettato i tempi. L’Uomo avrebbe dovuto mangiare prima dall’albero della Fede e poi da quello della Conoscenza, ma non seppe attendere. Per sua natura la Conoscenza ci espone alle domande e al dubbio. Non è in sé negativa. Ma se il dubbio insorge prima di esserci rafforzati nella Fede, c’è il rischio di perdere la Fede. Solo chi ha prima rafforzato la sua Fede può poi aprirsi ai dubbi e conseguire la Conoscenza. Solo dopo che gli Ebrei ebbero mangiato la Matzah rafforzando in se stessi la Fede, poterono adire alla Sapienza e alla Conoscenza necessarie a far propria la Torah, che è Sapienza. Ma fintanto che ci sottoponiamo alla “medicina” della Matzah non possiamo mangiare Chametz, simbolo del dubbio. Non possiamo neppure vederlo, come dice il versetto: “Né si vedrà presso di te Chametz…”. Solo una volta “guariti” possiamo successivamente immergerci nella Conoscenza della Torah in tutta la sua profondità, senza trarne danno alcuno.
E’ per questa ragione che a Pessach offriamo un ‘Omer di orzo, che è cibo animale (Rashì a Bemidbar 5,15). Esso simboleggia l’ingenuità e la sospensione di ogni attività intellettuale in attesa del recupero della Fede. Solo a Shavu’ot offriamo il grano che è cibo umano, simbolo di Conoscenza sofisticata. Ma soprattutto il passaggio da Pessach a Shavu’ot, dalla Matzah alla manna costituisce, secondo questa visione, un Tiqqun del Peccato del Primo Uomo, riportando Emunah e Chokhmah/Da’at con le rispettive akhilot (“mangiate”) all’ordine precedente alla trasgressione, così come lo avrebbe voluto per noi il S.B.
La Qabbalah tende a vedere nelle Mitzwòt connesse con la redenzione nazionale una dimensione individuale, intima. La liberazione non è altro che il ponte verso lo scopo finale che ognuno di noi deve perseguire: l’incontro personale con H. La Matzah simboleggia quindi non solo un atto politico, ma soprattutto una “rivelazione”. Nella Haggadah noi leggiamo: “Questa Matzah che noi mangiamo, perché la mangiamo? Perché l’impasto dei nostri Padri non fece a tempo a lievitare finché si rivelò a loro il re dei Re dei Re…”
Lo Zohar parla di due fasi nell’evoluzione religiosa della persona: la qatnut mochin, ovvero la fase infantile e la gadlut mochin, la fase adulta. La Matzah rappresenta la prima fase: la resa davanti a D., la decisione di seguire Mosheh Rabbenu “in una terra non seminata” (Yirmeyahu 2,2). Questa decisione non ha nulla di razionale. E’ l’approccio istintivo del bambino, che si lega ai suoi genitori perché sente di essere una cosa sola con loro. Con la stessa istintività il popolo ebraico si è unito a H. La Matzah è un impasto che non è cresciuto, non si è sofisticato e pertanto simboleggia la Verità nel senso di Veracità, Autenticità, anteriore a qualsiasi processo di crescita graduale. E’ la qatnut mochin. L’io indipendente non si è ancora sviluppato. La Ghemarà si riferisce a questa fase dicendo che “il bambino non sa chiamare papà e mamma finché non ha assaggiato il grano (Berakhot 40a). Commenta R. Shneur Zalman di Lyadi: “Questa consapevolezza del bambino non si presenta sotto forma di comprensione razionale e conoscenza, perché non sa per quale motivo questo sia proprio suo padre e per quale motivo occorra volergli bene. Eppure lo chiama papà. Ed è un legame profondo” (Liqqutè Torah, ed. 1928, P. Tzaw, 13b; cfr. anche Maor wa-Shemesh a Bemidbar 1,1 sulla differenza fra Midbar Sinai e Ohel Mo’ed).
Più tardi l’individuo saprà tradurre la sua Fede in categorie intellettuali più solide ed elevate. Il Chametz rappresenta ciò che è maturo, completo: colui che è giunto al termine di questo processo di crescita interiore, l’homo thoreticus. Il Chametz simboleggia l’orgoglio che ne è la conseguenza. La razionalità da sola, peraltro, è troppo impersonale perché possa condurre l’uomo a provare l’esperienza vivente della fratellanza con D. E’ necessario non tralasciare la Fede accanto alla Conoscenza. Parliamo più propriamente di una seconda fase della Fede (gadlut ha-mochin), in cui l’uomo saprà creare un’armonia fra l’io sapiente e l’io credente, fra l’adulto e il bambino.
Due Maestri italiani di epoca recente e di impostazione razionale, S.D. Luzzatto e Dante Lattes, hanno spiegato a loro volta il Peccato del Primo Uomo come una allegoria: “dopo la stagione lieta della puerizia, dopo l’idillio dell’infanzia, trascorso dalla primitiva umanità e dall’uomo singolo di ogni tempo in una specie di animalesca incoscienza ed ignoranza, sopraggiunge il tempo dell’intelligenza e della civiltà, in cui l’uomo deve procurarsi il cibo e il vestito col suo lavoro e non mangia più l’erba del campo come le bestie, il periodo in cui i coniugi sentono il peso delle cure e della preoccupazione della famiglia e devono affrontare la lotta per l’esistenza e in cui si capisce che cos’è la vita. Il mito della Genesi è la storia dell’umanità, è la realtà umana presentata sotto la specie di leggenda” (D. Lattes, Aspetti e Problemi dell’Ebraismo, Borla, Torino, 1970, p. 35).
Questo commento tuttavia non spiega perché un’evoluzione positiva e naturale debba essere presentata come un peccato. Il linguaggio che la Torah adopera fa pensare a un ordine di idee differente. Non c’è affatto una netta contrapposizione fra le due fasi. La Fede non può essere messa in secondo piano rispetto alla Conoscenza, come se la prima fosse un fenomeno infantile da superare. La Torah ci vuole insegnare piuttosto che la Conoscenza senza la Fede può essere pericolosa. Il peccato non consiste nell’adozione della Conoscenza, ma nella perdita della Fede. Per entrambe si deve trovare un equilibrio per il bene futuro dell’umanità.
Ispirato al volume di Rav Chayim Cohen (ha-Chalban), Talelè Chayim, Wayqrà, ed. Yeshivat Ramat ha-Sharon, 2014, spec. p. 189-273 e al volume di Rav J.B. Soloveitchik, Zeman Cherutenu, ed. Yedi’ot Acharonot, 2010, spec. p. 65-75.