Tavola Rotonda – Biblioteca Castagneto Po
Qualsiasi discorso di natura teologica nella tradizione ebraica presenta un problema di fondo: “come – nel contesto di un monoteismo rigoroso, basato sul culto di un D. unico e trascendente, di cui “non ti farai immagine alcuna” – si possono esperire, pensare o dire le forme di D., aspetti segnati dalla molteplicità e dalla materialità[1]”? Per questo molti pensatori ebrei, primo fra tutti Maimonide, sono arrivati ad elaborare una teologia negativa, unica che ci consenta di acquisire una conoscenza certa.
Secondo questa visione non è possibile esprimersi positivamente, se non attribuendoGli l’esistenza o l’unità, quando si parla dell’essenza della divinità, che risulta pertanto conoscibile solo per mezzo delle Sue azioni, e quindi il Suo rapporto con il mondo, con le numerose difficoltà collegate all’esercizio della provvidenza divina sul mondo. Il Talmud[2] con una storia molto semplice si rapporta a queste naturali perplessità: “Rabbi Aqivà, una volta era in viaggio. Aveva con lui un asino, un gallo e una torcia. Si recò in una città cercando alloggio, ma non gli permisero di rimanere per la notte. Rabbi Aqivà non si lamentò. Si limitò a osservare: tutto ciò che D. fa è per il bene. Non avendo altra scelta, si accampò in un campo. Durante la notte, venne un leone e uccise il suo asino. Più tardi, venne un gatto e mangiò il suo gallo Infine, soffiò il vento e spense la torcia. Anche in questo caso disse: Tutto ciò che D. fa è per il bene. Al mattino, Rabbi Aqivà tornò alla città in cui aveva cercato di passare la notte. Trovò la città saccheggiata e tutti i suoi abitanti uccisi. Se lui avesse passato la notte lì, sarebbe stato tra i morti. Se i romani avessero sentito il raglio del suo asino, o il canto del suo gallo, o se avessero visto la sua torcia, lo avrebbero trovato e ucciso. Realizzando tutto questo, esclamò: Non ti ho detto che tutto ciò che D. fa, lo fa per il bene!”.
Nonostante ciò è possibile indicare alcune coordinate fondamentali nella tradizione rabbinica. Nella divinità si individuano due manifestazioni fondamentali, la middat ha-din e la middat ha-rachamim, espresse nel testo biblico da due differenti nomi. Scrive Rav Kopciowsky[3]: “ il Tetragramma … indica la Middath ha-rachamim, la qualità divina della misericordia, mentre Elokim indica la Middath ha-din, la giustizia divina. Giustizia e misericordia, viene quindi messo in risalto fin dall’inizio della proclamazione di fede del giudaismo, costituiscono per il pensiero ebraico le due qualità precipue della Maestà divina!”. Rav Carucci Viterbi approfondisce questo aspetto: “Elokim, secondo i maestri, vuol dire giudice: il termine viene infatti usato spesso anche come sinonimo di giudice umano; il nome tretragrammato indica il Misericordioso. D. è in questa costante dinamica interiore, tra il giudizio che non contempla la misericordia e la misericordia che va al di là della giustizia. Se esiste un sistema giuridico e bisogna applicarlo, il giudice misericordioso è ovviamente un ossimoro, non può esserci un giudice misericordioso, o il giudice è giudice o è misericordioso. D. è l’unico che può riuscire a tenere insieme le due prospettive[4]”. Il termine ebraico che designa l’amore (ahavah) non viene praticamente mai usato per descrivere il sentimento che il Signore prova per le creature. Viene piuttosto utilizzato il termine chesed o rachamim. E’ notevole come l’etimo da cui deriva il termine rachamim sia rechem, utero. “La misericordia è da una parte in relazione con il contenuto, che è il bambino, il feto che siamo tutti noi, in una prospettiva di totale avvolgimento; dall’altra in relazione con i contenitore, la madre, completamente avvolgente e totalmente protettiva. La misericordia/rachamim va intesa in questa prospettiva: da una parte, della percezione della totale protezione, dall’altra, dell’impegno di essere totalmente protettivo. Ciò significa che quando noi dobbiamo provare misericordia, dobbiamo essere come D.[5]”. L’unica eccezione a questa concezione è costituita dal libro biblico di Hoshea’, in cui il profeta, ancora innamorato della moglie che lo aveva tradito, non esita a usare la stessa immagine per descrivere il rapporto fra il Signore e il popolo infedele. Nel resto del canone biblico, ed in modo particolare nel Deuteronomio il rapporto fra il Signore ed il popolo ebraico viene rappresentato come quello padre-figlio. Nella seconda benedizione dello Shemà della sera si afferma “Tu hai manifestato perenne amore al tuo popolo, la casa d’Israel; e ci hai insegnato la Torah e i precetti, ordinamenti e istituzioni”.
L’amore può supportare la giustizia, ma non prenderne il posto. La stessa creazione ed esistenza del mondo attuale derivano da questo assunto. Secondo la tradizione rabbinica infatti il Signore prese atto del fatto che i mondi che precedevano questo, creati sulla sola giustizia, non potevano resistere, e creò pertanto questo mondo fondandolo su una unione di giustizia e amore. Il concetto è così espresso dal Midrash[6]: “La questione è simile a un re che aveva alcuni calici vuoti. Il re disse: “Se vi verso acqua calda, esploderanno; se vi metto acqua fredda, si creperanno. Quindi il re miscelò acqua fredda con acqua calda e la versò nei calici, i quali rimasero intatti. Allo stesso modo — D. disse — se creassi il mondo con l’attributo della misericordia, il peccato si moltiplicherebbe; se lo creassi con l’attributo della giustizia, come potrebbe sopravvivere? Dunque, lo creerò con entrambi, così che possa sopravvivere”.
La misericordia divina si manifesta a due livelli, nei confronti di Israele e dell’umanità in generale. Secondo le parole di Hillel il Signore nella stessa pratica del giudizio propende per la misericordia.
Secondo Shemuel il Signore giudica le nazioni considerando i migliori individui che ne sono espressione. Per il Talmud[7] il Signore stesso prega affinché la misericordia possa prevalere sulla giustizia: “Sia la Mia volontà che la Mia misericordia possa conquistare e dominare la Mia ira, e che la Mia misericordia abbia il sopravvento su tutti gli altri Miei attributi, e Io mi possa comportare con i Miei figli con la misura di misericordia, e che Io possa andare nei loro confronti al di là dei limiti del semplice giudizio”. Il secondo comandamento viene letto in modo tale da affermare la nettissima prevalenza della misericordia divina, che si manifesta per duemila generazioni, rispetto alla giustizia, che si perpetua solamente per tre o quattro generazioni.
La misericordia divina si mostra soprattutto all’interno della legislazione, in particolare per tutelare le categorie maggiormente sofferenti. Il Signore è sensibile al lamento del povero. Nella letteratura rabbinica il Signore è chiamato “il Giudice della vedova”, “il padre degli orfani”. Chiama i poveri “il mio popolo”. Secondo la tradizione rabbinica “ama i perseguitati, e non i persecutori”.
Nella tradizione ebraica la dimensione dell’amore è centrale e molti precetti fondamentali – ad esempio “ama il prossimo tuo come te stesso” (Lev. 19,18); “e amerai il Signore D. tuo con tutto il tuo cuore, tutta la tua anima e tutte le tue forze” (Deut. 6,5) – ruotano attorno a questa predisposizione, tanto da costituire secondo molti la radice stessa dalla quale emerge tutta la legislazione della Torah. In particolare ci lascia perplessi un comandamento, quello di amare D., in quanto non risulta comprensibile come sia possibile imporre un sentimento. Il filosofo Franz Rosenzweig scrive nella Stella della redenzione[8]:
“Sì, certo, l’amore non può essere prescritto, nessuna terza persona può ordinarlo né ottenerlo con la forza. Nessuna terza persona, appunto, ma l’Uno lo può. Il comandamento dell’amore può venire soltanto dalla bocca dell’amante. Solo l’amante (ma l’amante lo può realmente) può dire e infatti dice: «amami». Sulla sua bocca il comandamento dell’amore non è un comandamento estraneo, ma non è altro che la voce stessa dell’amore. L’amore dell’amante non ha altra parola per esprimersi se non il comandamento. Tutto il resto già non è più espressione immediata bensì dichiarazione, dichiarazione d’amore. La dichiarazione d’amore è assai povera, come ogni spiegazione essa viene sempre dopo e quindi, poiché l’amore dell’amante è un presente, viene in effetti sempre troppo tardi. Se l’amata, nell’eterna fedeltà del suo amore, non spalancasse le braccia per accoglierla, la dichiarazione cadrebbe nel vuoto. Ma il comandamento all’imperativo, immediato, sorto istantaneamente e nell’attimo del suo sorgere già fatto suono (poiché nell’imperativo il sorgere e il farsi suono sono tutt’uno), l’«amami» dell’amante è espressione totalmente perfetta, purissimo linguaggio dell’amore”.
Nonostante le difficoltà insite nella questione e le possibili diverse rappresentazioni che derivano dalle diverse concezioni, è sicuramente fondamentale calare la dimensione dell’amore divino nella nostra vita, e comportarci di conseguenza: “Seguire il Signore può quindi significare soltanto imitare le sue qualità. Così come Egli veste gli ignudi — poiché sta scritto (Gen 3,21): “Il Signore D. fece ad Adamo e alla sua donna tuniche di pelli e li vestì” — vesti anche tu gli ignudi. Il Santo, benedetto sia, visitava gli ammalati, poiché sta scritto (Gen 18,1) dopo la circoncisione di Abramo: “E il Signore gli apparve alle Querce di Mamrè, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda”. Così anche tu devi visitare gli ammalati. Il Santo, benedetto sia, consolava i sofferenti, poiché sta scritto (Gen 25,11): “E dopo la morte di Abramo, D. benedisse Isacco suo figlio”. Così consola anche tu i sofferenti. Il Santo, benedetto sia, ha seppellito i morti, poiché dopo la morte di Mosè si legge (Deut. 34,6): “Ed Egli lo seppellì nella valle, nella terra di Moab”. Così anche tu dai sepoltura ai morti. Rabbì Simlai spiegò: «La Torah inizia con un atto d’amore e termina con un atto d’amore. All’inizio si legge che D. vestì Adamo ed Eva (Gen 3,21). Alla fine si legge che “Egli seppellì Mosè (Deut. 34, 6)[9]”. Secondo la tradizione rabbinica il senso genuino del comandamento di amare D. non è altro che un imperativo a fare in modo che D. sia amato per vie delle nostre azioni.
[1] M. Mottolese, Le forme di D. e la tradizione rabbinica. Per una fenomenologia del discorso mitico e mistico nel monoteismo ebraico, https://www2.units.it/etica/2006_2/MOTTOLESE.pdf.
[2] Berakhot 60b.
[3] E. Kopciowsky, Ascolta Israele, consultabile presso http://www.nostreradici.it/Kopciowski_shema.htm.
[4] B. Carucci Viterbi, Pellegrinaggio e misericordia nell’ebraismo, consultabile all’indirizzo: http://www.operaromanapellegrinaggi.org/uploads/attachment/file/24/pellegrinaggio_e_misericordia_nelle_tre_grandi_religioni_monoteiste_1_benedetto_carucci_viterbi.pdfErrore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.
[5] B. Carucci Viterbi, Pellegrinaggio e misericordia nell’ebraismo, cit.
[6] Bereshit Rabbà 12,14-
[7] Berakhot 7a.
[8] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 188-89
[9] Sotah 14a.