Rav Roberto Colombo e sua moglie, la morà Anna, lasceranno Milano per trasferirsi a Roma. Una grave perdita per la Comunità milanese che in questi anni ha visto, grazie anche agli sforzi di Roberto e Anna, una crescita ebraica senza precedenti. Questo il discorso pronunciato a maggio.
Rav Tvzi Yehuda Kuk raccontava che un giorno vide suo padre Avraham Itzchàk, primo Rabbino capo dello stato di Israele, prepararsi per ore prima di un discorso. “Non sai quello che devi dire?” Chiese l’allora giovane Tzvi al padre. “Quello che devo dire lo so – rispose R. Avraham. Mi prende molto più tempo preparare quello che non devo dire”.
Quando si parla a un gruppo di persone si deve stare attenti, ma quando si parla di insegnamento a un gruppo di persone lo si deve essere molto di più perché gli insegnanti e i direttori, tutti, me compreso, sono molto suscettibili. Mi succede che tutte le volte che tratto in pubblico di educazione perdo qualche amico o mi attiro le ire di qualcuno. Allora ho ragionato molto con me stesso per preparare almeno una volta un discorso senza critiche e autocritiche, quello che si usa definire: “Un discorso propositivo”. Ma non ce l’ho fatta. Non sarei me stesso e un insegnante, come diremo poi, non è un insegnante vero se, come dicono i Maestri, en tokhò kevarò – non esprime ciò che è in lui.
Rav Shemuèl David Sobel, uno dei grandi studenti di Merkaz Harav da giovane era considerato un grande educatore ma decise di smettere di insegnare ai bambini e ai ragazzi e di dedicarsi solo agli adulti. Quando gli fu chiesto il motivo rispose: “Ho capito di non essere un buon Maestro di bambini quando la sera tornavo a casa e non avevo dolori allo stomaco”. Quando sentii questo racconto dal suo talmìd muvàk, dall’alunno di rav Sobel, rav Liphshitz, capii che un insegnante che non si sente talmente coinvolto nel presente e nel futuro dei suoi alunni, che non ride con loro e non piange con loro, che non si dispera per i loro insuccessi che sono soprattutto i suoi e non si arrabbia fino al mal di stomaco per le cose che si potrebbero fare e non si riescono a fare, deve cambiar mestiere.
Non credo vi sia un compito più importante e coinvolgente, ma al tempo stesso complicato e pericoloso, di quello del Maestro.
Ad Aharòn, dispiaciuto per non essere stato incluso tra i capi tribù che portavano sacrifici al Santuario, Dio rispose: “Non ti dolere. Il tuo compito è ben più importante di quello degli altri. Tu devi elevare i lumi della Menorà”. Quante implicazioni ha questo commento di Rashì per il mondo dell’educazione ebraica! Rav Mordekhài Elihau, Rabbino capo di Israele invitato all’inaugurazione di uno splendido bet hakenèset a Rechovòt chiamò lo shammàsh per chiedergli di accendere altre luci perché il tempio era pressoché al buio. L’uomo rimase stupito. Il luogo aveva centinaia di lampade accese e la luce era fortissima. Rav Elihau rispose: “Eppure non ci vedo. Dev’essere per il fatto che non ci sono bambini”. I lumi, la luce della menorà sono i talmidìm. Se mancano questi, nulla ha più senso e la Comunità è al buio. E’ Ahaaròn, il kohèn, il vero Maestro d’Israele. A Lui Dio dice: “Non cercare altri onori. Il tuo è il più grande: sei un insegnante. Ti basti”.
Solo il Sommo Sacerdote poteva entrare nell’hekhàl, l’anticamera del Kòdesh hakodashìm, il punto più sacro del Mishkàn. Nell’hekhàl si trovavano tre cose, un altare per i profumi, Il ketòret, un tavolo per i pani e appunto la menorà. la tefillà nei Salmi è chiamata ketòret, il tavolo simboleggia l’unione, la solidarietà. Chi ha fame venga e mangi, si dice nella Haggadà di Pèsach. Una festa dove io mangio e gli altri rimangono affamati non è una festa. La menorà, rappresenta la luce, lo studio, la cultura e l’educazione. Su tre cose il mondo poggia, dicono i Pirkè Avòt, sulla tefillà, sulla solidarietà tra la gente e sullo studio. Questi valori si trovavano simboleggiati nella stanza dove il kohèn, il Maestro, doveva entrare ogni giorno. E’ come se la Torà gli volesse dire: la fede che i giovani hanno per Dio, l’unione tra loro e la cultura dipende da te. Non c’è amore tra gli alunni? Non c’è emunà? Non c’è studio di Torà? Fatti un esame di coscienza e cerca di capire in che cosa anche tu hai sbagliato.
Ad Aharòn D-o dice: “Beaha’alotekhà et haneròt”. Azzardo una strana traduzione. Non è mia. La prendo in prestito da rav Neventzàl, Beha’alotekhà – dalla tua voglia di salire, dipendono le neròt – dipendono i tuoi alunni. Il Maestro ha lo scopo di insegnare. Ma insegnare agli altri non è poi così complicato. Insegnare a se stessi a salire è molto più difficile. Il Maestro che non si pone in discussione, che non ha più la voglia di salire, non è più un vero Maestro.
Da una ricerca condotta in America dai responsabili dell’associazione Teach for America, che si pone come compito principale quello di fornire ottimi insegnanti, risulta che l’ottimo insegnante ha due caratteristiche fondamentali: innanzi tutto fissa alti obiettivi per i loro studenti. Non si accontenta e non si ferma alla difficoltà. Punta in alto. Magari rivede il progetto ma parte dal presupposto che un alunno, se stimolato, se aiutato, può dare il massimo. Il dott. Farr, direttore di Teach for America racconta che un vero insegnante egli lo riconosce dal modo di rispondere al telefono. “Quando telefono a un docente considerato ottimo”, dice Farr “per valutare il suo metodo, di solito mi sento rispondere: Venga pure però devo avvisarla che sto rivoluzionando lo schema delle lezioni perché secondo me potrebbe funzionare meglio”. È ben lontano da quanto si sente dire oggi sempre più spesso. Di solito un insegnante parla di “obiettivi minimi”, di alunni che non capiscono. Di programmi che vanno rivisti in negativo perché è troppo per gli allievi. Difficile si senta dire oggi da un docente: “Il mio obiettivo rimane ma devo rivedere il mio metodo. Devo cambiare modo affinché da ogni alunno esca quello che è nascosto.
L’insegnante, quello vero”, dice Farr, “non si arrende mai. Non parla di –troppo lavoro, o di – lavoro non dovuto”.
La seconda caratteristica del bravo insegnante è la felicità. Da una statistica risulta che gli insegnanti felici della propria vita hanno il 43 per cento di probabilità in più di fare bene il loro lavoro rispetto ai colleghi insoddisfatti. È incredibile come una ricerca del 2010 rispecchi fedelmente l’insegnamento di Rabbì Ishmaèl, vissuto quasi venti secoli fa, di cui il Talmùd racconta che fin da bambino aveva dato prova che un giorno sarebbe divenuto un grande Maestro. Rabbì Ishmaèl insegnava a porsi continuamente in discussione. Non si dia mai colpa all’alunno ma ci si guardi dentro. Se non si trasmette all’altro, diceva, forse è perché non viviamo ciò che si vuole trasmettere. Forse non ne siamo capaci. Forse, ma almeno si parta da questo dubbio.
Quando stai di fronte ad uno con i capelli ancora neri, a un giovane, sii Nòach, sii tranquillo. Non è facile parlare con chi è di un’altra generazione. Se non ci riesci non ti abbattere, trova il modo. Forse ci riuscirai. Forse. E accetta tutti besimchà – con gioia. Il Rebbe dei Lubavich spiegava che R. Ishmaèl non chiede al morè di avere una gioia di circostanza ma di essere felice dentro, contento del suo lavoro, del ruolo che ricopre. Solo così è permesso trasmettere il bello e l’importanza di ciò che si insegna. Ma a questo discorso molti insegnanti mi potrebbero rispondere. “Caro Colombo, come ti permetti? Noi chiediamo sempre il massimo e pretendiamo il massimo anche da noi stessi. Ci prepariamo con cura”. Forse, eppure nutro qualche dubbio che questo sia vero. Ma si da il caso che si stia parlando qui di un’educazione da fornire in una scuola ebraica, e su questo qualche riflessione si deve pur fare.
Non è raro sentire genitori e insegnanti richiedere una maggiore serietà nell’istruzione delle materie secolari e protestare poi per un eccessivo rigore nello studio delle discipline ebraiche a scapito di una preparazione più profonda nella matematica nelle lingue e via dicendo e a perdita di un’ipotetica felicità e amore per l’ebraismo che si può trasmettere solo con qualche bel midràsh o racconto, a patto che non lo si debba leggere e imparare dalla sua fonte originale. Per molti il morè – il Maestro – adempie al proprio ruolo di mechanèkh – educatore – quando insegna qualche regola ebraica di facile attuazione o qualche canto coinvolgente per portare in una classe un’atmosfera di gioia priva d’impegno.
Per molti questo è il modo di coinvolgere ogni alunno; io non lo penso. Personalmente credo che ognuno si debba impegnare nello studio della Torà assai seriamente e che solo l’osservanza delle mitzvòt e la conoscenza della lingua ebraica possano realmente assicurare il futuro del popolo ebraico e del singolo ebreo.
Qualche giorno fa le seconde medie hanno fatto una recita scritta dagli stessi alunni interamente in lingua ebraica. A Shavuòt le seconde elementari di Soderini hanno fatto anch’essi una bella recita in parte in lingua ebraica. I bambini sono stati eccezionali. Ricordo una parte della rappresentazione, di quando Moshè vola attraverso il tempo e arriva al futuro, nella scuola di Rabbì ‘Akivà. Ricordo di aver pensato che ogni tanto un ebreo dovrebbe correre attraverso il tempo ma a ritroso, nel passato. L’ho fatto e mi sono rivisto nella scuola ebraica di Milano di circa vent’anni fa. Non me ne voglia nessuno. Molti idealizzano quei tempi, quando a Purìm vi era regolare lezione per poi interrompere un’oretta per la lettura della Meghillà. Quando un mese prima della maturità si interrompevano le lezioni di ebraismo per permettere ai ragazzi di prepararsi all’esame, quando di Sukkòt la scuola era regolarmente aperta. Quando Morot che non rispettavano lo shabbàt insegnavano lo shabbàt e quelle che mangiavano non kashèr insegnavano la kashrùt.
Quando ancora si era convinti, ma in gran parte lo siamo ancora, che si possa trasmettere amore per una vita che non si vive o per una norma che non si rispetta. Penso che un insegnante debba tenere sempre a mente le parole che il rabbino Ariè Leb scrisse nell’introduzione del suo libro Shaagàt Ariè: “Sono ormai molto anziano” Aveva quasi novant’anni “ e so che non avrò più tempo per scrivere altre opere. Ho scritto per trasmettere il sapere ma sono certo che qualche passo l’ho composto affinché si notasse il livello della mia scienza. Lo so, dovrei cancellare queste pagine composte per orgoglio personale e lo farei con piacere, se solo sapessi in quale punto del libro esse si trovano. Ma sono comunque tranquillo. Saranno i lettori a cancellarle dal cuore e a dimenticarle, perché, come dicono i Maestri, solo gli insegnamenti che escono dal cuore rimangono nel cuore. Il resto cade nell’oblio, e nulla esce dal cuore se non viene vissuto in prima persona”.
Mi ricordo il mio primo viaggio in Polonia nei campi di sterminio. Ho perso dei parenti a Birkenau. Chiesi ai ragazzi di farmi fare un kaddìsh. Non ci riuscii. Il programma non lo permetteva e loro non ne avevano voglia. Al Tempio di shabbàt a Cracovia, del folto gruppo di ebrei milanesi, c’erano due persone. Una ero io l’altra il prof. Chamla. Negli ultimi anni sono tornato nei campi di sterminio con i miei ragazzi. Non c’è un momento che mi lascino solo. Al tempio sono con me, tutti, maschi e femmine. Davanti alle tombe sono con me, davanti alle camere a gas sono con me, con me pregano e con me piangono. Due mesi fa sono tornato in quel posto maledetto ma senza il quale ho scoperto di non trovare la forza per andare avanti. I ragazzi erano stanchi. Mi mancava una sola tomba e chiesi loro di attendermi. Mi hanno chiesto se ero matto, testuali parole, e tutti insieme ancora una volta siamo andati a piangere e a pregare. Lo dico senza grossi problemi e se perderò qualche amico in più fa niente. Francamente mi importa soprattutto dell’amicizia dei ragazzi.
La scuola ebraica è cresciuta ebraicamente tanto, tantissimo. Ma per molti si deve tornare al passato. Dov’è il Beah’alotekhà? La voglia di salire di migliorare di crescere ancora? Ed ecco il mio mal di stomaco da vecchio insegnante. Quello che mi spinge ancora ad insegnare e a credere che questo sia il ruolo più bello per ogni persona. Perché non andare ancora avanti. Se si può fare tanto perché non continuare. Perché c’è chi spera di tornare indietro. Perché comunità in tutto il mondo, in Francia, Inghilterra e anche in Italia investono su insegnanti di vita e cultura ebraica, aumentano lo studio e le attività legate alla yahadùt, consapevoli che diversamente non vi sarà futuro, e a Milano c’è ancora chi sogna la bella scuola del passato? Ma torniamo ancora un attimo alla menorà. I lumi di questa sono divisi da un lume mediano. Tre da una parte, tre dall’altra e quello posto in un fusto al centro. La fiamma di tutti i lumi laterali doveva andare verso quello in mezzo. Quanto inchiostro è stato consumato per spiegare il motivo di questa stana regola.
Potremo provare a dare anche noi una spiegazione. Chiaramente anche questa non è mia, ma presa a prestito dal libro “I valori dell’educazione” di Asher Molko. I lumi laterali potrebbero simboleggiare diversi tipi di alunni. Oggi diremmo diverse scuole. Le scuole possono sì essere separate, perché mai vietare di avere la propria identità, un proprio metodo di studio? Comunque l’ideale è che esse volgano tutte verso lo stesso obiettivo, un obiettivo centrale, prioritario che à la continuità, l’eternità, il futuro. Infatti, il lume centrale non si spegneva mai.
Purtroppo non è così. Le nostre scuole sono separate, incapaci di collaborare. Non ci parliamo, non facciamo assieme una sola festa e non ci incontriamo mai. Diciamolo senza tante remore. Siamo in lotta. Quando c’è da criticare godiamo nel farlo. Quando sentiamo parlar male di un’altra scuola gongoliamo. “Quelli non sanno insegnare la Torà”, “quelli sono scarsi in matematica”, “noi siamo migliori” e via dicendo. Non si può più andare avanti così. Il Talmud racconta che Rabbì Tzadòk digiunò per decine d’anni in segno di lutto prima della distruzione del Santuario, quando tutti vivevano in assoluta prosperità e sicurezza. Rabbì Tzadòk aveva già capito prima di altri che prima o poi il mondo ebraico avrebbe rischiato l’estinzione. Come le lo capi? Lo capì vedendo i Maestri che litigavano dichiarando ognuno che la scuola dell’altro non valeva granché. Ognuno si sentiva superiore.
L’uso vuole che prima dell’arrivo di Shavuòt si legga al Tempio la parashà di Bechukkotài. Per inciso, quella delle maledizioni, in modo da terminare la lettura delle punizioni divine prima del dono della Torà. Una di queste maledizioni, forse la peggiore, dice che arriverà il giorno in cui gli ebrei inciamperanno l’uno sull’altro come inciampa chi fugge di fronte alla spada, ma non vi è nessuno che li insegue. Rashì allora spiega che il momento di dolore più grande per il popolo ebraico non è quando una nazione ci insegue, quando vi è l’antisemitismo, ma quando un ebreo fa inciampare l’altro. Le esatte parole di Rashì sono “Uno inciamperà per i peccati dell’altro”. Spesso siamo convinti di vivere in un isola felice. Io non ho problemi d’identità ebraica. Io ho una scuola forte. La nostra famiglia è ebraicamente forte. L’assimilazione non è un mio problema. E non ci rendiamo conto che se tutti assieme non si migliora la vita ebraica prima o poi anche chi pensa di non aver problemi inciamperà.
Quando un alunno cambia scuola e arriva a Soderini da altre scuole ebraiche c’è gente che salta dalla felicità. Io non riesco a gioire. Lo sento come una sconfitta di tutta la kehillà. Perché non si possono fare attività comuni? Perché non è possibile che gli insegnanti si parlino, comunichino e si scambino consigli? Sto perdendo tempo e lo sto facendo perdere a voi. Le scuole continueranno a non comunicare e ognuna sarà meglio dell’altra. Mi sorge il dubbio che un po’ di digiuno come R’ Tzadòk dovremmo iniziare a farlo.
Allora concludo con una storia e con una lettera. La storia accadde molto tempo fa, a metà del 1700. Rabbì Chayìm da Wolozin narra un episodio della sua vita che credo sia illuminante. Questo grande Maestro quando ancora gli ebrei lituani per studiare riempivano piccole aule di sinagoghe spesso prive di libri e di sostentamento, ebbe l’idea di costruire la prima grande yeshivà in Europa nella quale i giovani e meno giovani avrebbero potuto apprendere, dormire e mangiare senza attendere l’aiuto del benefattore di turno. Il progetto era ambizioso ma per essere attuato aveva bisogno dell’approvazione del rabbino Eliau da Vilna. Reb Chaiìm si recò dal suo anziano Maestro che gli negò, però, il proprio consenso. Passò un anno poi Rabbì Chayìm tornò dal Gaòn. Per favore, disse con dolore, gli alunni hanno bisogno di studiare, di crescere. Dammi il permesso di costruire una scuola. Il Gaòn lo guardò e gli chiese: “Che aspetti? Va. Sei già in ritardo”. Rabbì Chayìm si stupì. “Un anno fa me lo vietasti e ora mi dici di correre”. Rispose il Gaòn: “Un anno fa eri pieno di entusiasmo. Sappi che quando si parla di alunni bisogna avere soprattutto terrore e non entusiasmo. Ricorda che quando si pensa ad un progetto per una Comunità di allievi l’esaltazione deve lasciar spazio alla paura di fallire o peggio di allontanare”. Rabbì Chayìm dovette attendere parecchio per perdere l’iniziale entusiasmo e per cominciare i lavori di costruzione della sua scuola. “Quando pose il primo mattone della nuova scuola – scrisse il figlio – mio padre piangeva così tanto che le lacrime avrebbero potuto sostituire l’acqua per fare la malta”. Oggi nel mondo le yeshivòt si contano a centinaia.
E ora concludo con una piccola lettera. Ringrazio mia moglie per avermela fatta conoscere. E’ una lettera che ogni anno un preside di un liceo americano mandava ai suoi insegnanti, lettera sempre uguale eppure sempre nuova.
Caro professore: Sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere. Camere a gas costruite da ingegneri istruiti. Bambini uccisi con veleni da medici ben formati. Lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido – quindi – dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani.
Mi piace come finisce questa lettera. Rendere i nostri figli più umani. Non i nostri allievi ma i nostri figli. Un morè che non sente un po’ i propri alunni come figli non si metterà mai in discussione, non cercherà di migliorare, di trasmettere ciò che ha e di cercare ciò che è nascosto negli altri. Ringrazio, anche a nome di mia moglie voi genitori e soprattutto i nostri figli per averci fatto tornare in questi anni spesso a casa con il mal di stomaco e per questo contenti di essere morìm.