Verso la fine della parashà è raccontato che Moshè inviò degli ambasciatori a Sichòn, re degli emorei, chiedendo il permesso di passaggio attraverso il suo territorio al fine di poter entrare nella terra d’Israele. Il re Sichòn non solo non diede il permesso di passaggio ma anche uscì con tutto il suo esercito nel deserto dove erano accampati gli israeliti per dar guerra. Le cose non andarono bene per Sichòn. Egli fu ucciso, il suo esercito fu distrutto e le sue città conquistate dagli israeliti. Il nome di Sichòn, e la guerra vittoriosa nei suoi confronti, viene citato da Moshè numerose volte nel libro di Devarìm e appare anche nei libri di Yehoshua’ e dei Shofetìm e perfino nel libro di Nechemià, scritto al ritorno dall’esilio babilonese. La vittoria era stata così miracolosa e impressionante che servì alle generazioni future per dare coraggio al popolo quando dovevano combattere. Moshè oltre a essere il sommo profeta, fu anche il generale che non perse neppure una battaglia.
Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta che se la città di Cheshbòn, capitale del re Sichòn, fosse stata abitata solo da dei moscerini sarebbe stata inespugnabile. E se il re Sichòn avesse abitato in un villaggio indifeso sarebbe stato impossibile conquistarlo; a maggior ragione abitando a Cheshbòn. Per questo il Santo Benedetto fece sì che gli emorei uscissero a dare battaglia in campo aperto dove furono sconfitti.
Il re Sichòn aveva una grande fama e la Torà presenta un’ode che veniva enunciata in suo onore per la sua precedente guerra vittoriosa contro i moabiti: “Per questo dicevano i poeti: venite a Cheshbòn! Sia riedificata e ristabilita la città di Sichòn! Poiché un fuoco è uscito da Cheshbòn, una fiamma dalla città di Sichòn, esso ha divorato ‘Ar, città di Moàv, i padroni delle alture dell’Arnòn. Guai a te Moàv! Sei perduto o popolo di Kemòsh! I suoi figli erano diventati fuggiaschi, le sue figlie prigioniere del re emoreo Sichòn” (Bemidbàr, 21:27-29).
I maestri nel Talmud babilonese usano questa ode per offrire un insegnamento morale e la frase “Per questo dicevano i poeti (in ebraico, moshlìm), venite a Cheshbòn” assume un nuovo significato. [La parola “moshèl” in questo versetto significa poeta, compositore di proverbi, come Mishlè Shelomò, proverbi di Salomone. Viene anche usata per denotare una persona che è in controllo. Cheshbòn, il nome della città, significa anche “il conto”].
R. Shemuel figlio di Nachmani, citando rabbi Yonatàn, disse: Cosa significa “Per questo dicevano i poeti (moshlìm): venite a Cheshbòn”? Chi sono i moshlìm? Sono coloro che hanno controllo dei propri istinti. E “venite a Cheshbòn” significa “venite e facciamo i conti di quello che si perde facendo una mitzvà di fronte alla ricompensa che si riceve per averla fatta, e quello che si guadagna da una trasgressione di fronte a quello che si perde commettendola” (Bavà Batrà, 78b).
R. Naftalì Tzvi Yehuda Berlin, detto Natziv (Belarus, 1816-1893, Varsavia) nel suo commento Harchèv Davàr (p. 249) spiega che i Maestri volevano offrire un insegnamento su come comportarsi in società. Egli scrive che c’è chi crea dissidi per poter fare una mitzvà e c’è chi perseguita il prossimo o il pubblico per aver commesso quale malefatta. E anche se perseguitare il prossimo è una trasgressione, costui ritiene di ricevere una ricompensa perché agisce a fin di bene. E invece se non sa controllare il proprio istinto con l’intenzione agire solo a fin di bene (le-shèm shamàyim) e fa quello che fa anche per qualche beneficio personale, è chiaro che meriterà di essere punito, anche se secondo i suoi calcoli vale la pena commettere una trasgressione per fare una mitzvà. E anche se costui controlla il proprio istinto e agisce solo a fin di bene senza alcuno beneficio personale, deve ugualmente fare i conti e considerare se la perdita causata dal dissidio sia superiore al risultato.