Con la parashàh di Waiqrà veniamo introdotti nel mondo dei sacrifici. Rav Biniamin Yudin riporta un commento molto popolare del Ramban (Waiqrà 1,9), secondo il quale c’è una correlazione molto precisa fra le azioni che compiamo quando effettuiamo un sacrificio e le colpe che vogliamo espiare. Nella pratica dei sacrifici avviene è una sostituzione fra il peccatore e l’animale che viene sacrificato, che si esplicita nelle varie fasi del sacrificio.
Tutte le azioni umane infatti si realizzano tramite il pensiero, la parola o l’azione. Per questo H. ha ordinato di mettere le proprie mani sul sacrificio, in corrispondenza della cattiva azione commessa, confessare verbalmente il proprio peccato, in relazione alle parole pronunciate, e bruciare reni e interiora del sacrificio, perché da lì scaturiscono i pensieri e i desideri degli uomini. In che misura i sacrifici vengano a correggere i cattivi pensieri si può comprendere a partire da un tipo di sacrificio, il qorban ‘olèh weyored, che è introdotto alla fine della parashàh. Si tratta di un’offerta variabile, come possiamo intuire dal nome – “che sale e scende”, in base alle disponibilità economiche dell’offerente, che viene portata per alcune categorie specifiche di colpe (il sottrarsi ad una testimonianza, la contaminazione di cose sacre e il giuramento falso o non realizzato). Un ricco porta come offerta espiatoria (chattat) una pecora o una capra; un povero, che non può permettersi questa offerta, porta invece due tortore o due colombi, uno come sacrificio espiatorio (chattat), l’altro come ‘olàh (sacrificio che veniva completamente bruciato sull’altare).
Ma i conti non tornano! Perché non portare un solo volatile? A che serve il secondo? Ibn ‘Ezrà (Wayqrà 5,7) riporta un insegnamento di Rav Ytzchaq che ci svela dov’è la differenza: quando il povero vuole espiare le proprie colpe, spesso accompagna l’offerta con un pensiero improprio, perché vorrebbe portare di più, e quindi, portando l’offerta, mostrerà rancore nei confronti di H. per via della sua condizione! Saremmo portati a giustificare il povero, perché la sua critica non deriva altro che dal desiderio di servire H. al meglio, anche se, dobbiamo ammettere, questo pensiero denota la mancata conoscenza del principio ispiratore dei sacrifici, che quello che veramente conta è l’intenzione dell’offerente e non l’entità del sacrificio stesso. Nonostante ciò, la Toràh impone di portare un secondo sacrificio, per via di un pensiero non adatto. Un secondo esempio lo troviamo nel commento di Ramban alla parashàh di Metzoràh (Waiqrà 14,18), che nota come chi sia stato colpito da tzara’at, nel suo processo di purificazione, debba portare numerose offerte, di quattro tipi differenti (asham, chattat, olàh e minchàh). Il Ramban suggerisce che parte dei sacrifici vogliono espiare un peccato precedente alla comparsa della tzara’at, e parte vengono portati per colpe commesse quando si era stati già colpiti dalla tzara’at. Infatti i chakhamim sono convinti che la tzara’at sia provocata dai nostri comportamenti.
E’ nota ad esempio la correlazione fra tzara’at e maldicenza. Chi ne è colpito, oltre alle manifestazioni fisiche della malattia, deve anche sopportare l’allontanamento dalla comunità. Anche se la pena che il metzorà’ provava doveva essere effettivamente insopportabile, la Toràh prevede che porti un sacrificio per aver pensato di essere stato maltrattato da H. In entrambi i casi riportati il povero ed il metzorà’ avrebbero dovuto mostrare una maggiore fiducia in H., e confidare nella hashgachàh peratit, la provvidenza che H. esercita sui vari individui. “Ciò che H. fa, lo fa per il bene” (Berakhot 60b). Questo può farci leggere sotto un’ottica diversa la storia di Purim, che stiamo per festeggiare. Una delle halakhot più particolari e maggiormente famose di Purim è che dobbiamo bere vino sino a non distinguere più fra “arur Haman – maledetto Haman” e “barukh Mordekhay – benedetto Mordechay”. Il motivo è abbastanza semplice: nella storia della meghillàh gli eventi chiave si verificano durante un banchetto (Abudarham).
Altri suggeriscono che un modo di festeggiare molto “concreto” si sposi bene con l’intento di Haman, che era quello di eliminare fisicamente gli ebrei. Qedushat Levì però legge diversamente questa affermazione dei chakhamim: tutto è rivolto verso il bene. Anche quegli eventi che superficialmente sembrano essere negativi, in realtà si rivelano come positivi. Purim è un esempio paradigmatico: Haman voleva provocare un danno significativo al popolo ebraico, e il suo disegno malvagio è stato contrastato da H. Ma, esattamente al contrario di quanto intendeva, con il suo piano ha apportato un beneficio a Israele: infatti è riuscito a unificare il popolo ebraico e avvicinarlo ad H. più efficacemente di quanto non siano riusciti a fare tutti i profeti che lo hanno preceduto, con le loro prediche e i loro ammonimenti (Meghillàh 14a). Purim ci mostra con chiarezza come sia possibile vedere gli eventi più profondamente. L’uomo, per mille motivi, è molto limitato nella sua capacità di analisi. A volte sono necessari vari bicchieri di vino per capire che, in fondo, fra “arur Haman” e “barukh Mordechay” non c’è poi tanta differenza.