Nella parashàh di Bò troviamo la prima mitzwàh ricevuta dal popolo ebraico, quella della fissazione del calendario, che secondo la Mekhiltà di R. Shim’on Bar Yochai è una prerogativa esclusiva del popolo ebraico. Gli altri popoli infatti, anche dopo questa innovazione, continuano a contare i mesi a partire da Tishrì, cioè dalla creazione del mondo, ed utilizzano un sistema differente, che si rifà al ciclo solare: il grande conta per mezzo del grande, il piccolo per mezzo del piccolo. Israele viene paragonato alla luna: entrambi si rinnovano, e sono visibili di giorno e di notte, in questo mondo come nel mondo futuro, sebbene in questo mondo Israele non abbia forza e non emerga per via degli altri popoli.
Inoltre la luna non ha luce propria, e la grandezza di Israele non deriva da altro se non aver detto “na’asèh wenishmà’- faremo e ascolteremo” sul Sinai. Anzitutto la capacità di ricevere. Nonostante ciò questa scelta a prima vista sembra incomprensibile. Ci vengono in mente difatti numerose mitzwot più significative di questa, ma evidentemente la Toràh intende sottolineare la centralità dell’uscita dall’Egitto nella nostra fede e nella nostra identità, perché attraverso l”uscita dall’Egitto entriamo in una fase nuova della nostra storia, dove l’universalismo lascia spazio al particolarismo, ed H. inizia ad essere Eloqecha – il tuo D., e ciò avviene attraverso miracoli manifesti, al contrario di quanto avvenne per i patriarchi, che ebbero sì modo di sperimentare i miracoli salvifici di H., ma sempre all’interno delle leggi di natura. Furono salvati dalla carestia e dalla spada, ma sempre in un contesto naturale (Beer ha-Toràh). Il Maharal in Ghevurot H. ci insegna che nelle piaghe egiziane troviamo al contempo una cosa ed il suo opposto: la stessa acqua che gli ebrei bevevano, e rimaneva tale, per gli egiziani diveniva sangue; ciò che era oscurità per gli egiziani, era luce per gli ebrei.
A questo punto è comprensibile come faccia il Faraone a dire di non conoscere H., perché effettivamente nella storia del mondo non si era mai manifestato tramite tali modalità! Il Netziv ritiene che questa mitzwàh sia importante perché dota il popolo di un proprio calendario, distinguendolo pertanto dalle altre nazioni. Un differente computo del tempo è un importante fattore identitario. Sforno spiega che il mese di Nissan è stato scelto come primo mese dell’anno perché con esso inizia l’esperienza spirituale del popolo d’Israele. Già dal nome possiamo intuirlo: Nissan deriva da nes – miracolo (Pesiqtà). Ma dobbiamo ricordare che secondo la Toràh i mesi non hanno un nome, ed i nomi che oggi utilizziamo sono un’eredità che abbiamo portato con noi di ritorno dall’esilio babilonese (R. Bechayè). Con l’uscita dall’Egitto il popolo ebraico diviene padrone del suo tempo. Uno schiavo non è padrone del suo tempo, e non può vivere come meglio crede. La schiavitù non colpisce solo il fisico, ma anche lo spirito. Ringraziamo di questo H. tutti i giorni nelle birkot ha-shachar per il dono della libertà quando recitiamo la berakhàh “shelò ‘asani ‘aved – che non mi hai fatto schiavo”. La nostra esperienza in Egitto, assieme alla creazione del mondo, è alla base dell’istituzione dello Shabbat.
Qual è il legame fra l’uscita dall’Egitto e lo Shabbat? La prima sensazione dello schiavo appena liberato è quella di avere finalmente la possibilità di riposare, senza dover rendere conto a nessuno. Lo Shabbat viene rappresentato anche attraverso la creazione del mondo, ma i mo’adim si rifanno invece alla dimensione dell’uscita dall’Egitto, come ricordiamo nel qiddush di Yom tov. Il dono della libertà è il dono della vita. Ma, se amiamo istintivamente la libertà e la vita, ciò è meno vero rispetto al tempo. Siamo pronti quasi a tutto per salvaguardare la nostra libertà e la nostra vita, ma quando parliamo del nostro tempo non siamo altrettanto zelanti. Siamo profondamente colpiti dalla perdita di una vita, ma spesso ci compiaciamo della perdita di tempo. In un famoso passo lo Zohar, spiegando l’espressione “WeAvraham zaqen ba baiamim”, supera il senso letterale secondo cui il verso vuole dirci che Avraham era anziano, e dice che Avraham andava di pari passo con i suoi giorni, nel senso che non aveva sprecato neanche un giorno della sua vita. E’ molto strano che Avraham venga chiamato zaqen, quando la sua vita è molto più breve di coloro che lo hanno preceduto, ma questo è pienamente comprensibile se pensiamo che i suoi predecessori hanno gettato al vento i loro giorni. L’Or ha-chayim cita l’Arì, secondo cui le nostre anime sono aggregati di nitzotzot (scintille), di numero pari ai giorni della nostra vita. Ogni giorno della nostra vita è unico, ed ogni giorno speso bene perfeziona la nostra anima, mentre ogni giorno sprecato, servendo il nostro istinto anziché il nostro creatore, comporta un’imperfezione per la nostra anima. Rav Israel Salanter trasse ispirazione dal calzolaio di Vilna, il quale, a lume di candela, lavorava sino a notte fonda, anche quando la candela, sul punto di spegnersi, sfarfallava, cercando inesorabilmente di produrre di più.
L’anima viene paragonata ad un lume. Sino a quando il nostro lume è in questo mondo, e sta per estinguersi, dobbiamo persistere nella ‘avodat ha-Shem. Dare importanza al tempo, ad un certo tipo di tempo, è un concetto molto importane nell’ebraismo. La nostra società al contrario esalta il tempo libero. Quando non siamo sottoposti alla dipendenza da qualcun altro, ad esempio il nostro datore di lavoro, siamo liberi di fare quello che vogliamo, o non fare nulla, dormire o bighellonare. La valorizzazione del tempo ci insegna invece, come è detto nel Pirqè Avot, che “il giono è breve ed il lavoro è molto”. Il nostro lavoro non è mai completo, c’è sempre qualcosa da fare, ed il tempo è un bene scarso. Sicuramente il riposo ed il relax sono necessari per mantenersi giovani, ma nella nostra visione del mondo il tempo libero, come viene inteso nella società occidentale, non esiste. Il nostro compito è invece quello di dare valore al nostro tempo, un tempo lunare, all’insegna del continuo rinnovamento, e questo è possibile solamente in una dimensione lunare. Dice il Qohelet “en chadash tachat ha-shemesh – non c’è nulla di nuovo sotto al sole”: delle acquisizioni proprie del mondo materiale ci abituiamo molto presto, e pertanto dobbiamo investire il nostro tempo nella spiritualità, dove il rinnovamento continuo è possibile.