Sono state avanzate numerose ipotesi sull’identità dell’autore dell’Ygdal. Il Davidson (Otzar ha-shiràh weha-piut 2, 266-267), dopo aver elencato le varie possibili attribuzioni, fra le quali spiccano il Rambam in persona, secondo l’opinione dello Ya’vetz, ripreso anche da autori moderni, o un autore provenziale, arriva alla conclusione che l’autore era Daniel ben Yehudàh Dayan, vissuto in Italia intorno al 1300, anche se questo nome non è annoverato fra i poeti conosciuti.
La fonte principale per l’attribuzione è Shadal, che scrive nell’introduzione al Machazor, di averla trovata in un Machazor italiano manoscritto del 1383 ed un Chumash manoscritto del 1405. Altri attribuiscono il componimento ad Immanuel Romano, che è autore di un brano molto simile, anche se i principi appaiono in un ordine differente, e Daniel ben Yehudàh non avrebbe fatto altro che sistemarlo. Altri invece credono che Daniel sia effettivamente l’autore, ed il fatto che nell’attribuzione sia detto che ha sistemato il testo non è una prova, perché in ogni caso l’autore del brano è partito dalle affermazioni di Rambam, e le ha pertanto solo sistemate. Certo è che nel periodo in cui l’opera fu composta molti pensatori italiani cercarono di diffondere il pensiero del Rambam. Nei libri a stampa compare per la prima volta nel Machazor di Bologna del 1541.
Il componimento è basato sui 13 principi del Rambam, e consta di 13 versi. Presso i sefarditi è stato inserito un quattordicesimo verso, con ogni probabilità perché ciascuna unità musicale consta di due versi, e quindi era necessario che il numero dei versi fosse pari. All’infuori degli ultimi versi, dove troviamo due richieste, per la venuta del Mashiach e la risurrezione dei morti, tutto il resto del componimento contiene lodi ad H.
I 13 principi sono contenuti nell’introduzione al commento del decimo capitolo del trattato di Sanhedrin (pereq ha-chheleq) di Rambam. Il Rambam non era stato il primo ad interessarsi del tema: infatti già Filone Alessandrino e Rabbenu Chananel si erano cimentati alla ricerca dei principi, e moltissimi filosofi successivamente avrebbero fatto altrettanto. Altri, fra cui ad esempio Abravanel e il Radbaz in una teshuvàh (1,344), ritengono che non vi siano principi fondamentali, perché tutta la Toràh, sin nei minimi particolari, è cosituita da principi fondamentali. Il Chatam Sofer in una teshuvàh (Yorèh de’àh 1,356), sebbene non arrivi a ritenere che tutta la Toràh sia un principio, come sostengono invece i mequbalim, sostiene che la discussione sul numero dei principi non sia minimamente rilevante. Il Chatam Sofer anzi ritiene che sia molto pericoloso fissare principi del genere: difatti, se uno qualsiasi di essi per qualche motivo decadesse, ad esempio se non vi fosse la gheulàh per via del nostro comportamento, e venissimo destinati ad un esilio eterno, questo porterebbe alla distruzione dell’intero edificio. Anche R. Ya’aqov Emden ritiene che questo piut non debba essere letto, perché contiene delle espressioni non tradizionali, come Eloqim Chay, anche se in realtà l’espressione compare nel secondo libro dei Re (19,16) e in Yeshaiahu 37,17. Lo Shelàh nello Sha’ar ha-otiot ricorda una tefillàh in cui vengono compresi vari temi in cui compare il numero 13: il valore numerico di Echad, i 13 patti stretti con i patriarchi, Ya’aqov e le 12 tribù, le 13 regole ermeneutiche per spiegare la Toràh, i 13 attributi di misericordia ed i 13 principi di fede.
I 13 versi del brano da un punto di vista contenutistico possono essere divisi in tre parti: i primi cinque trattano dell’essenza divina e del rapporto dell’uomo con il creatore; i quattro centrali sulla profezia, ed in particolare quella di Moshèh, la verità e l’eternità della Toràh; gli ultimi quattro sulla provvidenza divina, la venuta del Mashiach e la resurrezione dei morti. A livello macroscopico sono pertanto individuabili i tre principi che Yosef Albo ha fissato nel Sefer ha-‘iqqarim, l’esistenza di D., l’origine celeste della Toràh, la provvidenza divina. Il piut fungerà da modello a numerosi altri, che metteranno in versi i principi fondamentali della fede. Molti recitano questo piut al termine delle tefillot dello Shabbat; alcuni lo recitano quotidianamente, all’inizio o alla fine della tefillàh. Yosef Ometz scrive che in Ashkenaz c’era l’uso di dirlo al termine di ogni tefillàh, e per questo bisogna studiarlo a fondo e recitarlo con kawwanàh. L’Arì za”l si mostrò contrario alla recitazione dell’Ygdal, fra l’altro, come abbiamo detto, perché non era d’accordo nel fissare dei principi di fede.