וכי יפתח איש בור או כי יכרה איש בור ולא יכסנו ונפל שמה שור או חמור. בעל הבור ישלם, כסף ישיב לבעליו (שמות כ”א, ל”ג)“E qualora un uomo apra un pozzo o qualora un uomo scavi un pozzo senza ricoprirlo e vi cada un bue o un asino, il padrone del pozzo pagherà, restituendo denaro al suo padrone (dell’animale)” (Shemot 21,33).
La Torah è legge di vita. Commenta un autore contemporaneo che “vivere con gli altri causa conflitti… Poche semplici regole di vita (“sii cortese con gli altri”, “sta’ attento a non danneggiarli”) non sono sufficienti.
La vita è troppo complicata perché ci si prenda cura di essa per mezzo di poche semplici regole… La Torah Orale ci vuole aiutare a scoprire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, sia verso gli altri che verso noi stessi. Non sappiamo automaticamente né naturalmente come essere buoni e come vivere nel modo in cui D. desidera che viviamo. Dobbiamo impararlo”. Il quarto ordine della Mishnah è chiamato seder neziqin, “ordine dei danni” e si occupa di tutto ciò che riguarda il diritto civile e penale ebraico. Il primo trattato Bavà Qammà comincia dicendoci che la Torah enumera quattro danni principali, da cui derivano tutti gli altri. Uno di questi è il bor (“pozzo”), ovvero il caso in cui un individuo scavi una buca sul suolo pubblico, dove tutti hanno diritto di transitare. La Torah scritta stabilisce che se l’animale altrui vi cade dentro chi ha scavato la buca è responsabile del risarcimento come se il terreno fosse stato di sua proprietà e la Torah orale (5,5) ne stabilisce la casistica e i dettagli.
C’è però un’altra possibile lettura di questi versetti, non halakhica in senso stretto, bensì allegorica. A questo proposito si deve tener presente che se la Torah è paragonata all’acqua che vivifica, il pozzo simboleggia nel pensiero dei nostri Maestri la sorgente da cui la Torah scaturisce: D stesso è chiamato meqòr mayim chayim (“fonte di acque vive” – Yirmeyahu 17,13). I Maestri hanno il dovere di “scavare pozzi” e di garantire l’accesso alle fonti (in tutti i sensi) dell’Insegnamento Divino e così di soddisfare la sete spirituale di chi sta loro intorno, aprendo i cuori degli uomini al Timore di H. e alla sua Qedushah. Il versetto in questione potrebbe a questo punto essere interpretato in modo diverso. L’allegoria ne capovolge il significato da negativo a positivo, da un sostanziale divieto a un invito, un obbligo: “E quando un uomo (il Maestro) apra il pozzo (della Torah) o quando un uomo scavi (nel cuore delle persone) il pozzo (della Torah) senza ricoprirlo e vi cada un bue o un asino (simbolo di tutto ciò che è negativo: l’aggressività e l’ignoranza), il padrone del pozzo (cioè D.) pagherà (la ricompensa), cosicché l’uomo restituirà l’amore ricevuto (kessef da una radice che significa anelare, come in Tehillim 84 che recitiamo ogni giorno all’inizio di Minchah: “la mia anima anela -nikhsefah- ai cortili di H.”) al suo padrone (cioè D. stesso, mettendosi al Suo servizio)”.
Possiamo a questo punto rileggere in modo analogo l’episodio centrale della Parashah odierna che parla appunto di pozzi. “L’uomo (Itzchak) si fece sempre più ricco… tanto che i Filistei ebbero gelosia di lui. Al punto che essi chiusero, empiendoli di terra, tutti i pozzi che al tempo di suo padre Avraham, i servi di questi avevano scavato. Avimelekh disse a Itzchak: “Va’ via da noi, poiché sei diventato molto più potente di noi. Itzchak si partì di là, si attendò sul torrente di Gheràr e vi si stabilì. Scavò di nuovo i pozzi che avevano scavato al tempo di suo padre Avraham e che dopo la morte di questi i Filistei avevano chiuso, e assegnò a essi i nomi che aveva dato loro suo padre. I servi di Itzchak scavarono presso il torrente e vi trovarono un pozzo di acqua viva. I pastori di Gheràr vennero a contestazione con quelli di Itzchak perché dicevano: “L’acqua è nostra” ed egli diede al pozzo il nome di ‘Esek (“alterco”), perché altercarono. Scavarono poi un altro pozzo che fu denominato Sitnah (“odio”) per la contestazione che ci fu anche su quello. Di là si trasferì e scavò un altro pozzo sul quale non ci furono contestazioni; lo chiamò Rechovot (“larghezza”) poiché disse: “Ora H. ci ha fatto largo e potremo prosperare nel paese” (Bereshit 26, 13-22).
Nachmanide si domanda come mai la Torah si soffermi tanto a raccontare un episodio che apparentemente non fa onore a nessuno. Conformemente alla sua linea interpretativa egli suggerisce che ma’asseh avòt simàn la-bbanim (“Ciò che è accaduto ai padri è un segno per i figli”). Egli spiega che ciò che nel racconto non ha un’evidenza concreta, se viene riportato ha certamente un significato simbolico per le generazioni future. Nella fattispecie i tre pozzi scavati da Itzchak simboleggerebbero i tre Battè Miqdash. I primi due furono distrutti per la presenza di contestazioni. Solo il terzo, che sarà ricostruito in età messianica (presto ai nostri giorni), rimarrà per sempre simbolo della larghezza e della prosperità che ritroveremo in Eretz Israel.
Anche il No’am Elimelekh ne dà un’interpretazione allegorica, ma in modo diverso. Egli si sofferma sull’importanza dell’azione costante del Maestro, qui impersonato da Itzchak il Patriarca, nello scavare nuovi pozzi di ispirazione alla Torah ovunque si trovi. Quelli erano peraltro luoghi già molto ricchi di tradizione: Avraham suo padre aveva già scavato “pozzi” nella stessa zona a suo tempo. Avrebbero potuto vantare un attaccamento alla Torah straordinario. Se non che erano subentrate forze di altra natura, rappresentate nel racconto dai Filistei, i quali avevano semplicemente chiuso questi “pozzi”, le preziose fonti di ispirazione, riempiendoli di terra, la materialità per eccellenza! Il Timore di H., peraltro, non fu del tutto dimenticato come conseguenza di ciò, ma si trasformò in quella di cui il Profeta Yesha’yahu rimprovera i suoi contemporanei: wa-ttehì yir’atam otì mitzwat anashim melummadah (29,13), una sorta di abitudine, come un veicolo il cui motore si è spento per mancanza di benzina e tuttavia continua ad avanzare per inerzia. Ma per quanto tempo ancora l’avrebbe fatto? Il re dei Filistei si avvide che Itzchak nostro Padre invece arricchiva spiritualmente sempre più. Ebbe paura della novità che egli portava e decise di dirgli: “Ti rendi conto che anche noi possediamo una tradizione di cui andiamo giustamente fieri? Anzi, ti dirò di più. Proprio perché la nostra tradizione è più antica della tua, noi siamo superiori a te. Non capiamo le tue “novità”, che ci sembrano inconciliabili con le nostre sanissime abitudini… secolari. Perciò: vattene!” Avimelekh (così si chiamava il re) mostrava peraltro di non rendersi conto, in buona o cattiva fede, che proprio l’antica tradizione che tanto millantava era stata interrata: anzi, l’aveva interrata lui stesso!
Itzchak reagì nell’unico modo accettabile. Si rese conto che era suo dovere, per quanto possibile, prendere coraggio e sforzarsi di far tornare nel cuore di quelle persone il Timore di H. e di riaprire gli antichi pozzi che erano stati chiusi, affinché riprendessero a sprigionare l’ “acqua viva” della Torah come in antico. “E quando un uomo (il Maestro) apra il pozzo (della Torah) o quando un uomo scavi (nel cuore delle persone) il pozzo (della Torah) senza ricoprirlo…” Già nel Talmud si domanda il significato della ripetizione presente nel versetto: “Se la regola del risarcimento vale per chi abbia riaperto un pozzo già aperto da altri e nel frattempo richiuso, c’è bisogno forse di tornare a specificare che si applica anche a chi abbia scavato un pozzo ex novo per conto suo?” (Bavà Qammà 50a). Il Talmud risponde lehavì koreh achar koreh (51a): il versetto si ripete per includere il caso di chi approfondisce ulteriormente lo scavo di un pozzo già scavato da altri e mai richiuso: l’ultimo è responsabile in ogni caso (Rashì ad v.). Riuscendo di metafora, se il Maestro ha il dovere morale di riaprire i cuori delle persone che si sono richiusi dopo essere già stati un tempo aperti e non ci riesce in una volta sola, dovrà tornare a scavare più e più volte, come è scritto in un altro versetto: hokheach tokhìach et amitekha (Wayqrà 19,17), “ammonire ammonirai il tuo prossimo”, dove il verbo ammonire è a sua volta ripetuto due volte per sottolineare che se una non basta, si deve ripetere. E’ ciò che fece Itzchak: tornò a risvegliare il loro spirito che riprese a fluire come se fosse un torrente, ripristinando la yir’ah precedente quale era stata instillata loro da Avraham Avinu, fonte e sorgente di tutta quanta la yir’ah del popolo d’Israele per ogni generazione passata, presente e futura.
L’allegoria del No’am Elimelekh finisce qui. Egli non dà conto del seguito della narrazione, con i due episodi in cui Itzchak deve affrontare i pastori prima di trovare finalmente pace la terza volta. Qui ci soccorre l’interpretazione del Nachmanide. Dei due Battè Miqdash distrutti è soprattutto il secondo a pesare sulla nostra coscienza. Anzitutto perché la sua distruzione è più recente (cfr. Ta’anit 28b). In secondo luogo perché i suoi effetti durano ancor oggi dopo duemila anni. Infine (e questo è il motivo più serio) perché i nostri Maestri insegnano che esso fu distrutto non per infedeltà verso H., ma per l’odio immotivato fra di noi (Yomà 9a). Non è un caso che la località della seconda lite fu denominata sitnah (“odio”)! Da sempre una delle ragioni di contrasto nelle nostre Comunità riguarda l’applicazione delle norme, che ci vede divisi fra facilitanti e rigoristi. Troviamo due Maestri sefarditi dell’Ottocento che affrontano l’argomento con altrettanti approcci differenti. Al di là della penisola balcanica R. Chayim Palagi di Smirne sostiene che la spinta alla facilitazione nella Halakhah deriva dalle forze d’impurità e pertanto in presenza di influssi esterni si devono stabilire le regole secondo rigore (Mo’ed le-khol Chay 15,4; in realtà la fonte è nel commento ai Pirqè Avot di R. Shimshon Nachmani di Modena, Siena e Reggio – Toledot Shimshon a 3,1-). Al di qua dei Balcani R. Eli’ezer Papo di Sarajevo (Pele Yo’ètz s.v. Minhag) scrive invece: “I tementi del Cielo, cui preme uscire d’obbligo secondo tutte le opinioni, adoperino pure tutti i rigori in casa propria, ma senza mostrarsi in pubblico. Soprattutto non rimproverino gli altri perché non si comportano allo stesso modo: ma –aggiunge- neppure si lascino trascinare dalla maggioranza ad adeguarsi”!