Intervento di Scialom Bahbout al Consiglio dell’Unione delle comunità ebraiche italiane
Domenica 16 novembre 2008
Pur non ricoprendo alcun incarico comunitario, penso che la mia esperienza di vari anni al DAC e in molte attività comunitarie – che avevano lo scopo di avvicinare gli ebrei lontani – mi consenta di fare una riflessione e di seguito una proposta che qui presento in sintesi. Il tempo a disposizione è limitato e quindi si tratta solo di appunti che potranno essere approfonditi nelle sedi più opportune.
Il tema di questo incontro è l’identità ebraica. In genere, quando si parla dell’identità, molto spesso si ricorre ad argomentazioni generiche. Ora, se vogliamo ridurre all’osso il modo attraverso cui si esprime l’identità ebraica, penso che dovremmo dire l’educazione alle mizvoth, che sono i modelli culturali dell’ebraismo. In effetti nelle nostre comunità le attività dedicate alla discussione intellettuale prevalgono su quelle dedicate alla conoscenza degli aspetti pratici della shemirath mizvoth. Questo non significa si debba rinunciare all’approfondimento degli aspetti culturali, spirituali e intellettuali dell’ebraismo e delle mizvoth che lo caratterizzano, ma soltanto che si debbano definire le proporzioni tra i vari ambiti.
I consigli delle comunità e i rabbini hanno dato spesso più importanza ad aspetti quali la ricerca di una maggiore esposizione mediatica, di un dialogo interreligioso, di attività “culturali” sulla Shoà ecc., trascurando quelli che sono i compiti fondamentali per i quali le comunità sono state costituite.
Eccone alcuni che mi sembrano fondamentali per dare un senso alla comunità:
• creare le condizioni più favorevoli per facilitare l’osservanza delle mizvoth e la loro trasmissione alle giovani generazioni
• porre l’insegnamento della Torà tra le priorità sia per i giovani che per gli adulti
• impegnarsi attivamente nel ricercare e accogliere gli ebrei più lontani
• recuperare gli ebrei che hanno annullato l’iscrizione alla comunità
• studiare le strategie per “individuare” gli ebrei che non i sono mai iscritti alle comunità
• disponibilità ad accogliere persone di origine ebraica, ma non ebree formalmente, mediante una politica culturale che le porti ad avvicinarsi alle comunità e poi progressivamente alla shemirath mizvoth.
• organizzare attività specifiche per incrementare l’endogamia.
E’ chiaro che per perseguire una politica del genere vi è la necessità di:
• un’analisi delle forze disponibili
• un coinvolgimento dei “laici” (presidenti, consigli di comunità ecc.)
• una creazione di forze giovani, preparate e motivate: è indispensabile una politica che si proponga di cercare questi giovani dando loro, accanto alla preparazione ebraica, anche una preparazione tecnica adatta a svolgere le funzioni di cui sopra.
Non c’è dubbio che non abbiamo la possibilità di fare miracoli: è necessario creare un progetto che si proponga un piano per i prossimi cinque/dieci anni per contrastare il trend di decadenza al quale da anni assistiamo impotenti, quasi convinti che non ci sia niente da fare. Di converso, assistiamo con meraviglia all’interesse del mondo non ebraico per l’ebraismo, cosa che viene testimoniata dal numero di dichiarazioni che destinano l’Ottopermille all’Unione delle comunità.
In proposito, voglio raccontare una piccola esperienza. Venuto a conoscenza che in Puglia c’erano state circa 1000 persone che avevano fatto la dichiarazione a favore dell’Ucei, ho deciso di fare un tentativo. D’accordo con il prof. Guido Regina e con il maestro Lotoro, ho organizzato a Brindisi una conferenza su “Ebraismo: universalismo e particolarismo”. E’ stata affittata una sala, inviato un comunicato alla stampa, stampato un invito distribuito in alcuni negozi. La sera prima di recarmi a Brindisi, ho fatto un tentativo per cercare di identificare un po’ di ebrei a nella città. Qual è il primo cognome da ricercare sull’elenco abbonati della città? Naturalmente Cohen! Con mia profonda sorpresa ne trovai una decina (tutti con l’acca). Pieno di speranza, telefono ad alcune di queste persone, alle quali mi presento come un rabbino di Roma, desideroso di sapere se c’era una comunità ebraica o degli ebrei: la risposta fu assolutamente negativa. Per quanto deluso, il giorno dopo mi sono recato da Barletta a Brindisi (un viaggio di circa 200 km), assieme a Francesco Lotoro. Alla conferenza si presentano una ventina di persone. Alla fine della riunione si avvicinano due coppie di ebrei: una di origine tunisina e l’altra americana. Ma la sorpresa ancora maggiore fu il fatto che mi si avvicinò anche una coppia con due figli, non ebrei, che aveva iniziato per proprio conto un processo di avvicinamento all’ebraismo (avevano fatto circoncidere il figlio maschio).
In effetti, era bastato solo lanciare questo che potremmo chiamare un “ballon d’essai” per trovare quattro ebrei. Una ricerca più approfondita e “scientifica” forse potrebbe dare dei risultati maggiori.
Qualcuno potrebbe dire che l’impegno profuso per cercare questi ebrei lontani sia sproporzionato rispetto ai risultati ottenibili e che “scovare” degli ebrei a Brindisi o altrove sia irrilevante nella politica di incrementare le nostre fila e che tanto vale lasciarli perdere.
Ebbene: abbandonare la periferia ebraica, rende più facile l’erosione e l’assimilazione dei centri maggiori. Del resto questo è quanto è successo nell’Ottocento, quando la comunità di Lippiano chiese aiuto a quella di Pisa che non rispose all’appello disperato. Anche la comunità di Pisa è diventata oggi una piccola comunità!
Se si raccolgono le idee fin qui espresse, potremmo proporre un progetto che, come primo titolo, definirei come Progetto ricerca e accoglienza e che dovrebbe essere composto da tre parti:
a) analisi della situazione
1 forze disponibili
2 “gruppi” di ebrei: ebrei vicini, ebrei tiepidi, ebrei lontani o non più iscritti
3 discendenti di ebrei
4 dichiarazioni Ottopermille
b) formazione di personale (per lo sviluppo delle attività di ricerca e accoglienza)
c) attività (rivolte in maniera proporzionata alle varie “classi” di cui sopra)
1) Analisi
Nella progettazione, bisognerà valutare quali proporzioni dare a ognuna delle voci di cui sopra.
Il punto a)- 3 ci induce a fare una breve digressione sul problema della conversione dei minori.
E’ importante stare attenti a non fare l’errore di cercare soluzioni facili e “scorciatoie”: Per esempio, di fronte all’assimilazione e ai matrimoni misti, in passato si è pensato che la strada più semplice fosse quella di negarne l’esistenza: in fondo bastava “convertire” i bambini nati da madre non ebrea, oppure appoggiarsi alla Halakhà che stabilisce che i figli nati da madre ebrea e padre non ebreo sono comunque ebrei ed è quindi garantita l’ebraicità della discendenza. Tuttavia, un matrimonio misto (anche se la madre è ebrea) molto spesso legittima un matrimonio misto nella generazione successiva. Bisogna quindi considerare i figli di madre ebrea e padre non ebreo quasi alla stessa stregua dei matrimoni misti con madre non ebrea. Con questo non intendo proporre una sorta di “riforma”, ma voglio soltanto che sia i rabbini che i consigli delle Comunità siano più consapevoli dei pericoli e dei problemi che comporta anche il matrimonio misto tra una donna ebrea e un non ebreo per la trasmissione dell’identità ebraica.
Non è qui il luogo per fare un’analisi di tutti gli aspetti halakhici collegati con il problema della conversione dei minori e dell’ebraicità dei figli nati da madre ebrea, ma per fare una denuncia.
Nulla o quasi è stato fatto affinché venisse dato un vero supporto per trasmettere un’educazione basata veramente sull’osservanza delle mitzvoth.
Nulla o quasi è stato fatto affinché i bambini nati da madre ebrea seguissero un processo educativo ebraico.
Nulla o quasi è stato fatto per accogliere veramente e per seguire sia i bambini che gli adulti dopo che hanno fatto la conversione.
Il problema fondamentale è l’accoglienza che la comunità nel suo complesso è in grado di dare agli ebrei lontani o assimilati o ai gherim (per i quali è necessario in una realtà così piccola come quella italiana stabilire dei criteri e dei programmi uniformi e farla finita con principati e ducati).
Il punto a) – 4 ci induce a fare alcune riflessioni:
• il numero delle dichiarazioni è superiore al numero degli ebrei: difficile dire se si tratti di estimatori dell’ebraismo o di discendenti. Non saprei come si potrebbe fare un’analisi
• in regioni in cui si osserva un discreto numero di dichiaranti è necessario restituire il favore con attività ebraiche (se si tratta di amici ed estimatori è giusto restituire il contributo con attività ebraiche e a questo scopo va destinato un congruo investimento dall’Ottopermille).
• Va reinventato il tipo di attività da realizzare con il contributo Ottopermille: in ogni caso penso vada privilegiata nella comunicazione (sia verso il campo ebraico e non ebraico) sempre e comunque il rapporto diretto con le persone.
2) Formazione
Impossibile fare in queste note una proposta precisa: penso che dovremmo istituire delle borse di studio per la formazione professionale di una decina di giovani affinché vengano preparati a svolgere la funzione di ricerca e accoglienza. E’ necessario quindi investire in un programma di studio con docenti appositamente preparati.
3) Attività
Anche qui è prematuro parlare di un programma specifico: il programma dovrebbe comunque essere coordinato da una commissione che affianchi il DEC (ovviamente sono necessarie forze e mezzi adeguati).
Conclusioni
Ritengo che l’ebraismo abbia un’occasione storica per presentarsi alla società italiana con le sue caratteristiche e le sue proposte culturali che possano far riavvicinare molti ebrei e far loro capire che l’ebraismo può dare una risposta ai problemi dell’uomo moderno. E’ necessario però che i responsabili a tutti i livelli scendano dai propri scranni, abbandonino la ricerca disperata di apparizione sui media – spesso è fine a se stessa e non destinata a raggiungere gli ebrei – e dedichino le proprie migliori risorse al rafforzamento della base comunitaria già attiva (che ha comunque bisogno di “crescere”) e alla ricerca degli ebrei lontani.
Ma questo impegno a cercare e ad accogliere gli ebrei lontani non è solo dei rabbini: ogni ebreo (in primis ovviamente i rabbini e i presidenti) deve sentire questo impegno e aprire loro la propria casa.