Intervento per il convegno del S. Egidio, Palermo, 2 Settembre 2002
Ringrazio…
L’argomento che discutiamo questa mattina ha un posto di tutto rilievo nell’esperienza religiosa ebraica. Quando Charlton Heston nei panni di Mosè nel film I dieci comandamenti scende dal monte Sinai e scopre il vitello d’oro, gli sceneggiatori gli fanno dire che “non c’è libertà senza legge”. In questo caso la battuta non è un’invenzione holliwoodiana, ma ha un preciso riscontro nella tradizione. Il rapporto tra legge e libertà è definito con precisione nel racconto della Bibbia, in particolare nel libro dell’Esodo. La storia a tutti nota è quella di un popolo che viene strappato, forse anche contro la sua volontà, dalla schiavitù egiziana, e che poi , a 50 giorni dal giorno in cui è stato liberato, assiste alla rivelazione divina con la promulgazione del decalogo sul monte Sinai. Il modello dell’uscita dall’Egitto diventa fondamento dell’esperienza religiosa ebraica, base della legge, criterio di riferimento per un sistema di diritto dove non c’è posto per l’ingiustizia e l’oppressione. La prima affermazione dei cosiddetti 10 comandamenti è quella in cui D. si presenta come Colui “che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dalla terra della schiavitù” (Esodo 20:2). La legge che regola la schiavitù si basa sul principio che “i figli d’Israele sono per me schiavi che ho fatto uscire dall’Egitto (Lev. 25:55). Come spiegano i rabbini, schiavi di D. ma solo di Lui, e quindi di nessun altro. Sottomissione a D. come libertà da qualsiasi altro assoggettamento. Il tema della libertà si caratterizza quindi in un modo del tutto particolare, nel legame inscindibile con D. e la sua volontà e il dovere che impone. Mosè davanti al Faraone cita le parole divine: “manda via il mio popolo, perché mi servano” (Es. 7:16, 26, 9:1,13, 8:16) da una parte la libertà, dall’altra il servizio.
Come è noto, nell’ebraismo il racconto biblico non rimane solo un documento del passato, ma è base dell’esperienza quotidiana, oggetto di studio e modello di pratica che viene sistematicamente rivisitato. Il ricordo dell’uscita dall’Egitto, che è in altri termini quello della libertà acquisita, è base di tutta la vita cerimoniale, dal Sabato alla Pasqua. Ma la scansione liturgica del tempo comprende necessariamente la celebrazione di Shavuot, la Pentecoste ebraica, a sette settimane dalla Pasqua, e alla quale ci si prepara giorno per giorno, contando letteralmente ogni giorno, con una piccola cerimonia, in ossequio al dettato biblico di Lev. 23:15. Il messaggio è chiaro: che la libertà conquistata non ha senso se non c’è la la legge, la cui promulgazione si celebra appunto a Shavuot.
I rabbini hanno voluto ribadire questo concetto con una specie di slogan. E’ un famoso midrash, un insegnamento rabbinico del secondo secolo, che gioca sull’espressione biblica con cui si descrive la scrittura delle tavole della legge. Il testo dice che “le tavole erano opera divina e la scrittura era scrittura di D. incisa sulle tavole” (Esodo 32:16). “Incisa” in ebraico è “charut”; sostituendo una vocale –cosa possibile perchè il testo non è vocalizzato- si può leggere cherut, che significa libertà: Quindi i Maestri suggerivano di leggere la frase nel senso che “la scrittura di D. è libertà nelle tavole”1. La frase ha un grande effetto di per sè, ma i rabbini continuarono a ragionarci sopra. Alcuni spiegarono: “chi si occupa di Torà è libero per sè stesso”. 2 Altri discussero il senso di questa libertà: Rabbì Jehuda dice “libertà dai regni”, o in altre versioni “dagli esili”; rabbi Nechemia dice “libertà dall’angelo della morte”, gli altri Maestri dicono “libertà dalle sofferenze” 3 La divergenza rabbinica, che ora cercheremo di capire, scopre l’aspetto al tempo stesso debole e forte del principio. Perchè può essere facile parlare di libertà, ma di libertà ce ne se sono tante e diverse e lo slogan non ha senso se non si chiarisce di che libertà si tratti. E se qualcuno si potrebbe stupire per la mancanza di consenso rabbinico su un così importante pilastro del sistema, usi almeno questo rilievo come conferma di un primo dato molto importante: che la divergenza sul senso della libertà dimostra come ci sia nel sistema un ampio margine di libertà di pensiero e di dissenso. Entrando nel dettaglio della divergenza possiamo spiegare che la prima interpretazione, quella che parla di libertà dai regni o dagli esili, è essenzialmente politica; si tratta di indipendenza nazionale e il messaggio è che per il popolo ebraico solo se c’è l’accettazione della legge c’è la garanzia di non dipendere o ed essere sottomessi ad altri. Ma quello che sembra un semplice discorso politico probabilmente contiene un profondo messaggio religioso perché sostiene per gli ebrei l’unicità e l’esclusività della legge divina come garante di una libertà che altri popoli invece possono acquistare anche solo in termini meramente politici. Quando poi si parla, nelle altre due interpretazioni, di libertà dalle sofferenze o dall’angelo della morte, il discorso non è più – almeno in apparenza- politico, ma sale sulla scala dell’esperienza religiosa, per integrare la dimensione collettiva con quella personale, per passare dalla sofferenza materiale all’equilibrio e alla crescita spirituale, fino alla trasformazione totale della condizione dell’uomo. Beninteso, i messaggi che cerchiamo di interpretare sono in parte ancora misteriosi, con ampio raggio di significati, e le proposte di lettura non potranno mai garantire la certezza del risultato; ma questo nell’ebraismo fa parte del gioco.
Se dunque sul primo termine del discorso, la libertà, tutti concordano che c’è ma ognuno l’ intende a modo suo e abbiamo qualche difficoltà a capire fino in fondo di cosa si parli, sul secondo termine, quello della legge, l’intenzione è chiara, malgrado il terribile equivoco che lo circonda. Quando in tutti i testi tradizionali si parla di legge, si intende sempre qualcos’altro, che non è strettamente legge, è la Torà. Torà significa essenzialmente insegnamento ed è il nome che viene dato in senso stretto alla prima parte della Bibbia, il Pentateuco, che rappresenta la Torà scritta, e in senso più largo a tutta la tradizione sacra, che viene definita orale perché fino a circa il secondo secolo veniva trasmessa solo a viva voce. In tutti i testi che abbiamo citato la parola legge è da sostituirsi con Torà. Di questa traduzione parziale e fuorviante è responsabile il tramite greco, che spesso rende Torà con nomos e poi ne riduce il significato. In questo processo riduttivo, e in qualche modo emarginante, ha una notevole responsabilità il cristianesimo dei primi secoli, e di questo dato, proprio nel contesto attuale che è di confronto rispettoso e costruttivo, dobbiamo tener conto con grande attenzione. Il cristianesimo di Paolo nasce alimentandosi su una contrapposizione con la legge, che è poi contrapposizione alla Torà, e proprio in questa contrapposizione trova parte della sua identità rispetto alla matrice originaria ebraica. Le espressioni rabbiniche sopra citate vanno lette anche in questa luce, come un tentativo di sistematizzazione che ha sullo sfondo la nascita di una nuova religione che critica all’ebraismo la sua fedeltà alla Torà. Il paradosso è che il cristianesimo eredita dall’ebraismo il tema della libertà che si conquista solo nella strada di una disciplina spirituale, ma allo stesso tempo rifiuta il modello globale presentato dall’ebraismo, definendolo come “legge”. Nei secoli successivi il distacco si farà ancora più profondo, accompagnato anche dal disprezzo e dall’accusa di freddo legalismo.
Questa prima grande rivolta del figlio contro il padre ha avuto la sua ripetizione quasi vendicativa nella rivolta del nipote contro padre e nonno; uscendo di metafora, la nascita del mondo contemporaneo intorno all’idea della democrazia, fondata sui concetti di libertà ed uguaglianza. La modernità, mentre attinge questi concetti -anche senza ammetterlo- dalle fonti mai prosciugate della tradizione giudeo-cristiana rifiuta in qualche modo l’ispirazione religiosa sottolineando il diritto ad una legge che l’uomo si dà da solo, senza dipendere dall’autorità divina o di chi pretende di rappresentarla in questa terra. Alcune religioni monoteistiche hanno faticato molto nel tentativo di conciliare i fondamenti della società attuale con l’idea di origine sacra degli ordinamenti dei propri sistemi; spesso il risultato è quello di un compromesso più o meno onorevole nel quale si cerca di far convivere le differenze separando gli ambiti di competenza. Altre religioni non hanno neppure fatto questo tentativo, o sono giunte, in alcune loro componenti , alla conclusione di opporsi totalmente al sistema democratico. E siamo così arrivati alla dolorosa recente constatazione che in questo mondo globalizzato l’estremismo religioso, opposto ai valori centrali della democrazia, è diventato veramente una minaccia seria.
La dicotomia tra secolarismo e religione sul tema della libertà, dopo essere stata una delle basi del conflitto degli ultimi due secoli tra progresso e reazione, torna alla tragica ribalta nella tormentata ricerca attuale di un equilibrio. La società occidentale deve trovare la sua strada tra le minacce dell’estremismo religioso da una parte e del relativismo morale dall’altra 4. Il ruolo delle religioni, specialmente delle tre grandi monoteistiche, potrebbe essere determinante in questo processo, ma è difficile dire se le religioni riusciranno a trovare una piattaforma condivisa per una risposta comune. Non si può ignorare quanto, proprio su questi temi, in ciascuna religione l’identità sia costruita su un’immagine forte, e spesso, almeno nel passato, polemica verso le altre realtà. Ma perchè non possiamo rifiutare la richiesta e la responsabilità, dobbiamo ragionare sui nostri fondamenti, sui valori e sulle proposte da offrire, ciascuno partendo dalla propria esperienza.
L’idea che guida l’ebraismo è la riflessione sulla natura e sul dovere dell’uomo. L’uomo è libero di scegliere il suo destino ma non è indipendente dalla creazione e dal Creatore, ed è per questo chiamato ad una vocazione superiore, alla realizzazione della spiritualità cui lo chiama la sua natura duplice, materiale e spirituale. Come l’accampamento, dove il popolo si raccoglie e si ferma deve essere sacro (Deut. 23:15), così il singolo individuo deve realizzare la santità per diventare egli stesso accampamento e sede di immanenza divina; un’immanenza che cerca l’uomo singolo come la collettività organizzata e vi si posa sopra anche suo malgrado, “sta in mezzo a loro tra le loro impurità” (Lev.16:16). L’uomo è sottoposto e minacciato da ogni tipo di schiavitù, da quella delle passioni personali a quella politica e ideologica della società che lo circonda. In opposizione a queste minacce il modello di santità proposto rappresenta una forma di riscatto e di liberazione totale dalle seduzioni passionali e culturali; e rispetto alle forme politiche di oppressione una linea di resistenza attiva e passiva, e un’espressione di speranza nella forza divina liberatrice. Di libertà ce ne sono tante, come di schiavitù. Quando un essere umano serve più di un padrone sta facendo una qualche forma di idolatria. Il richiamo assoluto ebraico alla spiritualità non estranea l’uomo dalla società ma ve lo reimmerge decisamente con un progetto di rinnovamento e di correzione, indicando un modello di libertà molto più ampio e comprensivo di quelli di cui la società laica si accontenterebbe. Senza estremismi e imposizioni, possiamo e dobbiamo rivendicare, nel confronto con gli altri sistemi e le altre culture, e potremmo farlo anche insieme, che la nostra idea di servizio assoluto ad un unico Re è la risposta necessaria, è una sfida alla crescita, è un lievito fecondo.
1 Avot 6 :2 dove il testo prosegue: « e’ libero solo colui che si dedica allo studio della Tora’ »
2 Avot de Rabbi Nathan 2
3 Numerose le fonti: Tanchuma Waera 9, Shir haShirim Rabba 8, Shemot Rabba 51, Waikra Rabba 18
4 Paul Eidelberg, Beyond the Secular Mind. A Judaic Response to the Problems of Modernity, Greenwood Press