Un evento che è passato quasi inosservato è stata la decisione dell’orchestra e coro di Odessa di cantare in piazza Va’ Pensiero del Nabucco di Verdi. Il messaggio era molto chiaro: il coro nostalgico degli esuli e schiavi ebrei in Babilonia si riferiva alla lotta degli italiani contro la forza occupante austriaca, mentre l’obiettivo era chiaramente l’aggressore russo. Perché ispirarsi all’Esodo e andare così indietro nella storia per esprimere la propria voglia di libertà? Scrive Michael Walzer nel suo saggio Esodo e rivoluzione che la storia della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto è diventata il paradigma di ogni rivoluzione: la rivoluzione di Spartaco e degli schiavi neri negli Usa che hanno trasformato il loro desiderio di liberazione dall’oppressione egiziana in uno canto ben noto (Go Down Moses).
Per apprezzare il significato dell’affermazione di Walzer, può essere interessante fare un confronto con quanto tentò di fare nel 1825, lo zar Nicola I che – per il timore che la rivolta decabrista da lui repressa potesse essere presa come modello – cercò invano di cancellarne il ricordo dai libri: a questa storia si ispirò Lev Tolstoj nel romanzo Resurrezione. La storia narrata nella Bibbia appartiene a tutto il mondo occidentale ed è divenuta il riferimento per combattere per la liberazione dalla sofferenza e dall’oppressione: anche il linguaggio usato e le fasi della lotta per la liberazione vengono espresse con le stesse parole usate dalla Bibbia: la fuga dall’Egitto, l’alleanza del Sinai per ricevere la legge, il viaggio nel deserto per arrivare infine alla terra promessa. Se questo racconto non fosse stato trasmesso per iscritto e oralmente non sarebbe oggi di ispirazione per la società occidentale: gli ebrei ricordano questo evento con la festa di Pasqua: i protagonisti della cerimonia che accompagna la cena pasquale sono i bambini cui viene affidato il compito di trasmettere alle future generazioni il messaggio di libertà implicito nella festa.
Questo è il messaggio che la Bibbia vuole trasmetterci raccontando questa storia: un popolo non esiste se non è in grado di esercitare liberamente il suo ruolo nella storia. Quando è necessario si deve lottare per la libertà e investire tutte le risorse necessarie (anche le armi se non esiste altra soluzione). Il faraone egiziano era a capo della più grande potenza del tempo, che si era macchiata del tentativo di genocidio di tutti i bambini ebrei: nel processo di liberazione Mosè tentò più volte la via del dialogo e solo dopo i ripetuti rifiuti ad accettare un compromesso, la crisi condusse gli ebrei alla fuga e al “naufragio” dell’Egitto. Per dare un senso alla liberazione dall’Egitto, l’operazione doveva essere completata: bisognava che il popolo di schiavi maturasse e divenisse veramente libero e che acquisisse una legge che ne regolamentasse l’esistenza. Questo processo durò quarant’anni, fino alla scomparsa della generazione che aveva sofferto per la schiavitù e che e portava su di sé le ferite della schiavitù: era necessaria una preparazione e quindi una lunga marcia nel deserto, in una terra di nessuno e di tutti, dove poter formare il carattere di una giovane nazione, dandole una legge e dei valori sui quali fondare la propria identità.
Una persona o una collettività che vengono aggrediti hanno il dovere di difendersi con le armi che possiede e con tutte quelle che può procurarsi. La resistenza ebraica però non è mai stata limitata al solo uso delle armi. Il pericolo è di fare della guerra il centro su cui impostare la propria identità e di non avere un progetto alternativo. Quindi chi chiede di non investire nelle armi, deve avere la forza di chiedere investimenti proporzionati nel campo dell’educazione e della cultura con progetti credibili. Chi è impegnato nel campo della cultura sa bene che la cultura è il fanalino di coda di tutti gli investimenti. Anche gli investimenti per le armi non serviranno a nulla se non sono accompagnati da una proposta che includa nuovi interventi nel campo dell’educazione, della cultura e dell’università. Pèsach è festa della liberazione, che si manifesta nell’essere festa della libertà: la parola Pèsach (Pasqua) divisa in due parti – Pè e Sach – significa bocca che parla. Mosè ha potuto dichiarare di fronte al faraone il diritto degli “schiavi” di parlare liberamente di fronte al re egiziano. Secondo il racconto biblico, l’uso della parola caratterizza l’uomo rispetto gli altri esseri creati ed è l’espressione della sapienza divina: è sacra e va usata con saggezza. Capiamo quindi perché, come sostiene Walzer, l’Esodo con tutti i suoi messaggi è la radice e il paradigma di ogni movimento rivoluzionario.
L’autore (Tripoli, 1944) è un rabbino. Ha insegnato al Collegio rabbinico italiano ed è docente emerito di Fisica alla facoltà di Medicina della Sapienza di Roma