Introduzione
Il popolo ebraico ha saputo restare unito alla Torà anche nei momenti in cui sarebbe stato più facile e sicuramente più comodo abbandonare sia lo studio che l’osservanza. Questo rapporto inscindibile, questo attaccamento alle mitzvòt non può, a nostro avviso, essere spiegato sempre in modo razionale. Nelle poche pagine che seguiranno cercheremo di esporre in modo sintetico l’importanza e la solennità che la tradizione ebraica ha voluto attribuire al giorno in cui, un ragazzo raggiunto la maggiorità religiosa può finalmente contribuire a potenziare il proprio e l’altrui attaccamento al mondo delle mitzvòt.
Non pretenderemo certo di concludere qui questo argomento che per ovvie ragioni avrebbe bisogno di ampi approfondimenti. Vogliamo solo, con qualche parola di Torà, augurare al Bar mitzvà Kevin Zanzuri una vita prospera, piena di gioia e di poter piano piano trovare la sua strada nella Torà affinché aumenti sempre di più il suo amore e il suo rispetto per la tradizione che i nostri padri ci hanno tramandato.
I nostri maestri insegnavano:
Una volta il malvagio governo romano proibì agli ebrei di studiare la Torà e di vivere secondo la Torà. Venne Papus ben Yehudà e vide che Rabbì Akivà indiceva assemblee pubbliche e si occupava della Torà. Gli disse: “Akivà, non temi dunque il governo?”
Akivà rispose: “Ti spiegherò la cosa con una parabola.
Una volta una volpe andò a passeggiare sulla riva di un fiume. Vide i pesci che nuotavano spostandosi in branchi da un punto all’altro. Chiese loro: ‘Da che cosa volete sfuggire?’
I pesci risposero: ‘Dalle reti gettate dagli uomini per noi’.
Allora la volpe disse: ‘Perché non venite a terra per vivere insieme in pace, voi e io, come già hanno fatto i miei padri con i vostri padri?’
I pesci replicarono: ‘Ma sei davvero l’animale ritenuto il più intelligente? Tu non sei affatto intelligente, anzi sei stupido. Se già abbiamo paura nell’elemento in cui viviamo, quanto più dovremmo temere dove sicuramente moriamo!’”
“Anche per noi è così”, proseguì Rabbì Akivà. “Se già siamo in una brutta situazione quando sediamo a leggere la Torà di cui sta scritto (Deut. 30, 20): ‘È la tua vita e la lunghezza dei tuoi giorni’, quanto peggiore sarebbe la nostra situazione se trascurassimo la Torà!”
L’ebreo e il suo rapporto con le mitzvòt
Rabbì Chananià figlio di Akashià diceva: “Il Santo Benedetto sia volle rendere meritevole Israele, per ciò aumentò per loro il numero delle leggi e dei precetti”.
Questa frase della Mishnà, che viene per tradizione recitata nel momento in cui si conclude lo studio di un testo sacro e che da tempo è entrata a far parte della liturgia del giorno del Sabato nel rito sefardita, esprime, seppure in modo essenziale, tutto il rispetto e l’amore che il popolo ebraico ha sempre saputo mantenere nei confronti dell’osservanza delle mitzvòt durante il corso della sua lunga esistenza.
La storia ci ha insegnato che spesso l’uomo ha cercato in tutti i modi, e a volte anche attraverso violente guerre e rivoluzioni, di limitare al massimo il numero delle leggi che regolavano la propria vita sociale e spirituale in nome di un assoluta, ma solo presunta, libertà.
I Maestri, dal canto loro, hanno sempre voluto ribadire l’assoluta necessità di non tralasciare nessuno dei precetti che la Torà scritta e in gran parte la tradizione orale aveva tramandato poiché è soprattutto grazie ad essi che gli ebrei hanno trovato la forza e il modo di continuare ad esistere in un mondo che ha visto fiorire civiltà che parevano destinate ad un futuro ben più lungo e prospero di quello del popolo ebraico e che invece sono presto scomparse lasciando di sé solo un ricordo. Ma il rispetto dei precetti divini e dunque lo stesso avvenire di Israele verrebbe a trovarsi in serio pericolo se le mitzvòt fossero considerate esclusivamente come azioni che avevano ragione di essere messe in pratica solo nell’antichità.
Già nel diciannovesimo secolo S.R. Hirsh attraverso il suo commento alla Torà, rispondendo a quanti proponevano la necessità di un ebraismo “al passo con i tempi” e dunque privo di precetti scriveva:
«La più forte critica a questa idea è racchiusa nella prima mitzvà che fu ordinata ad Abramo, il primo ebreo della nostra storia: “lekh lekhà” (va’ via). La fede di Abramo era forse in linea con lo spirito del tempo? Egli viveva tra babilonesi, assiri, sidoni ed egizi! La divinizzazione della lussuria e della forza, questa era la morale in linea con i tempi; l’idea di Dio venne dimenticata ovunque fino a che sorse Abramo! Nel momento in cui il mondo intero chiedeva di adagiarsi o di modificare le leggi sociali egli seppe rinunciare all’idea di patria e ai suoi diritti di cittadino e di sua spontanea volontà si convertì al rispetto del Dio unico. Per questo c’è voluto coraggio, amore per la verità e nel cuore una grande fede nel Signore.
“Va’ via dalla tua patria e dalle tua terra” vuol dire in definitiva che al primo ebreo venne richiesto di saper anteporre la fede in Dio anche a quei valori che, seppure basilari per la vita di un uomo, mai devono sostituirsi al rispetto per le norme e per gli insegnamenti divini. “Va’ via” è l’ordine che viene costantemente ripetuto a noi tutti, di generazione in generazione, quando lo “spirito del tempo” ci potrebbe consigliare di abbandonare la nostra tradizione nel nome di una falsa modernità” (S.R. Hirsh a Genesi 12, 1).» Ma affinché le mitzvòt non diventino solo un ricordo bisogna dare la possibilità ad Israele di vivere in modo intenso il proprio rapporto con la Torà.
Fu per questo che, secondo alcuni pensatori (commento alla fine di Avòt del Maharàl di Praga e Maimonide su Makòt), Dio, nella Sua infinita saggezza, capì che era necessario donare al popolo ebraico un congruo numero di leggi, per dare cioè la possibilità ad ognuno di mettere in pratica con cura e fervore se non tutti i precetti almeno quella parte di essi verso la quale il fedele provava una sensazione e un amore particolare con la certezza che in tale modo il rispetto per tutte le mitzvòt si sarebbe piano piano instaurato nel suo “cuore” poiché, come si afferma nel Sèfer Hachinùkh (M.A. 16): “I cuori vengono trascinati dalle azioni”.
Ma per arrivare a tale meta l’ebreo ha bisogno di pensare, di ragionare e possibilmente di capire ciò che lo spinge alla pratica delle mitzvòt, ed è proprio questo continuo ripensamento e questa continua ricerca di nuovi stimoli che ha permesso alla Torà di acquistare un significato sempre attuale o, come dicono i Maestri del Talmùd “di permettere che la Torà venga consegnata al popolo ebraico ogni giorno, come se esso si trovasse costantemente sotto il monte Sinai”.
Per questo motivo l’ebraismo ha sempre dato un’importanza fondamentale al momento in cui un ragazzo entra a far parte nel mondo degli adulti, quando, per usare una frase del grande Maestro Rav Tzadòk Hakohèn di Lublino, “il soffio vitale ricevuto alla nascita diviene vero e proprio spirito” all’istante cioè in cui la sua maturità gli permetterà di accettare le mitzvòt non più solo come azioni imposte ma anche come atti da studiare, da capire e da amare e dunque da mettere in pratica con quel fervore ed quell’attenzione che permetteranno alla sua vita ebraica di migliorare sempre di più. Tale momento è chiamato Bar mitzvà (lett. figlio della mitzvà) e per volere divino (Shut Haròsh 16, 1) viene fatto coincidere con l’inizio della maturità sessuale del ragazzo, ossia all’età di 13 anni e un giorno (Avòt 3, 21). In origine il termine Bar mitzvà era adoperato per designare qualsiasi persona soggetta all’osservanza delle mitzvòt ed è solo nel XV° secolo che esso ha assunto l’attuale significato (Séfer Tzyoni di R. Menachèm Tzyoni a Genesi 1, 5). Da questo istante il giovane, anch’egli definito Bar mitzvà è obbligato a mettere in pratica tutti i precetti, per cui sarà ritenuto personalmente responsabile di ogni sua trasgressione ai comandamenti della Torà. La letteratura midrashica ha spesso sottolineato l’importanza del tredicesimo compleanno come giorno fondamentale per la vita di un ragazzo. Fu a questa età, per esempio, che Abramo trovò la forza per rifiutare l’idolatria (Pirké de Rabbì Eliézer 26) e fu sempre in questo giorno che i due fratelli Giacobbe ed Esaù scelsero rispettivamente l’osservanza dei precetti insegnati dal padre e l’adorazione di nuovi idoli rifiutando così il proprio ebraismo (Genesi Rabbà LXIII, 10).
Già all’epoca del secondo tempio si attribuiva al giorno del Bar mitzvà un carattere speciale. In esso i saggi usavano dare al nuovo adulto importanti incarichi all’interno della società e lo benedicevano pubblicamente con particolare solennità (Soferìm 18, 7), per cui ancora oggi è rimasto l’uso, accettato in ogni Comunità, che il Rabbino formuli un augurio al Bar mitzvà nel corso della sua tradizionale lezione al Bet Hakenéset (sinagoga) e gli impartisca una berakhà (benedizione) particolare oltre a quella del padre o del nonno. Attualmente ciò che caratterizza il passaggio dall’età giovanile a quella adulta si può riassumere in tre avvenimenti principali:
a) la chiamata al Séfer
b) una derashà (lezione o discorso) tenuta dallo stesso ragazzo
c) l’adempimento al precetto dei tefillìn.
La chiamata al Séfer
Il ragazzo dimostra di essere divenuto adulto quando, chiamato a leggere o perlomeno a seguire un passo della parashà settimanale, afferma di accettare e di seguire incondizionatamente tutti gli insegnamenti della Torà. È ovvio perciò che l’errore, purtroppo comune nelle nostre Comunità, di permettere al festeggiato di trasgredire alle mitzvòt (per esempio venire al Bet Hakenéset in macchina durante lo Shabbàt o di trasportare oggetti in luoghi pubblici) proprio nel giorno del suo Bar mitzvà, oltre che a essere in contrasto con il carattere stesso della giornata può educare il ragazzo a ritenere che i precetti della Torà siano solo semplici atti formali da preservare ma solo con lo scopo di mantenere intatte le usanze e le tradizioni millenarie tramandate dai nostri padri.
Nel momento in cui il Bar mitzvà è chiamato alla lettura pubblica della parashà è tenuto a recitare la relativa benedizione che dovrà ripetere, come tutti gli adulti, ogni qualvolta verrà invitato a “salire a Séfer” (come si usa dire comunemente al giorno d’oggi).
Ma anche questa benedizione acquista nel giorno del Bar mitzvà una valenza particolare; infatti in quel momento il ragazzo deve esortare tutto il pubblico ad esaltare il nome di Dio con le parole: “Benedite il Signore benedetto” intendendo in tal modo promettere pubblicamente che a partire da questo giorno egli cercherà di essere d’esempio per gli altri ebrei e di spronarli sempre e ovunque a benedire il nome di Dio e a glorificarlo (D. Soleveitcik).
Anche il padre del Bar mitzvà viene fatto salire a Séfer e alla fine della rituale benedizione da recitare prima e dopo la lettura della Torà, egli dovrà pronunciare anche un ringraziamento a Dio di averlo liberato dalla responsabilità del figlio attraverso le parole: “Benedetto colui che mi ha esonerato dalle responsabilità di questo” (Genesi Rabbà LXIII, 10).
Il motivo di questa strana formula, secondo il Séfer Hachinùkh, dipende dal fatto che per un’antica tradizione i padri sono ritenuti colpevoli per i peccati commessi dai figli minori e dunque passibili di punizioni divine. Secondo altri (Maghèn Avrahàm 125, 5), al contrario, sono i figli che non hanno ancora raggiunto il tredicesimo anno di età che vengono coinvolti nelle punizioni meritate dai genitori per cui nel giorno del Bar mitzvà il padre dimostra tutta la sua felicità dichiarando con gioia di non essere più la causa di punizioni che hanno finora colpito il proprio figlio ingiustamente. È importante notare che entrambe le idee qui citate trovano fonte in un unico versetto del libro di Ezechiele in cui il profeta afferma che nei tempi messianici “un figlio non deve scontare nulla dell’iniquità del padre e il padre non sconterà nulla dell’iniquità del figlio” (Ezechiele 18, 2). La formula sopracitata vuole dunque essere anche un augurio che il padre rivolge al figlio di poter con le proprie azioni e la propria osservanza avvicinare la redenzione di Israele.
La derashà
Oltre alla lettura del Séfer Torà il ragazzo deve anche spiegare un passo della Scrittura, possibilmente con l’ausilio del Midràsh o delle altre opere tradizionali ebraiche scritta dai Chakhamìm (Maestri). La derashà, però, non deve essere intesa come una prova di capacità oratorie ma come la concreta dimostrazione di saper accompagnare la Torà scritta ad un commento personale sì da renderla sempre viva ed attuale.
I Maestri hanno sempre attribuito enorme importanza all’interpretazione del Testo. Basti qui ricordare che per il noto Rabbino Meìr Simchà Hakohèn di Dwinsk nel racconto della Genesi tutto venne creato con il verbo divino tranne l’essere umano affinché egli imparasse da solo ad apprezzare il valore della parola, per instaurare sì rapporti con i propri simili, ma anche per studiare i Sacri Testi, per capirli e in definitiva per poter tramandare i propri insegnamenti alle generazioni future. In questo senso con la derashà il ragazzo non deve esprimere solo il livello di conoscenza dei Testi da egli raggiunto ma soprattutto le proprie capacità creative. Con il suo discorso il Bar mitzvà deve cioè dimostrare di saper essere, se così si può dire, un “creatore” a “Immagine e Somiglianza” di Dio poiché se il Signore creò il mondo con la parola egli potrà migliorare il proprio mondo ebraico, oltre che con i fatti, anche con la propria voce, con i propri studi, con la ricerca continua di nuovi significati dei Testi che contribuiscano a unirlo a Dio e a farlo procedere sempre nella strada indicata dalla Torà.
Oggi, purtroppo, in molte Comunità italiane si è persa l’usanza della derashà che fin dal sedicesimo secolo venne a far parte della cerimonia stessa del Bar mitzvà ed essa viene di norma sostituita da una serie di frasi in lingua ebraica che il ragazzo recita di fronte ai rotoli della Torà.
I tefillìn
I tefillìn sono due capsule di pelle nera contenenti alcuni passi della Scrittura che vengono poste rispettivamente una sulla fronte e l’altra sul braccio sinistro. Di solito essi vengono tradotti con il vocabolo “filatteri” dal greco Phylasso – custodisco, poiché alcuni pensavano che gli ebrei li portassero per difendersi da influssi malefici. È ovvio che tale termine toglie la vera essenza del precetto dei tefillìn che rivestono per l’ebreo ben altra importanza rispetto a quella che si è voluto attribuire a essi.
Molto è stato scritto sulla mitzvà dei tefillìn e non possiamo che riassumere qui solo due brevi insegnamenti racchiusi nelle norme che riguardano questo precetto ripetuto per ben quattro volte nella Torà.
La regola vuole che i tefillìn si debbano legare prima sul braccio e poi sulla testa. Il braccio è qui il simbolo dell’azione, del lavoro mentre la testa è la sede del cervello e dunque del pensiero. Legando le due capsule in quest’ordine ogni ebreo intende dichiarare la propria disponibilità innanzitutto a mettere in pratica le mitzvòt e a non subordinare le azioni comandate dalla Torà alla propria capacità di capire in ogni particolare il perché dei comandi divini.
Non si vuole con ciò chiedere all’ebreo di agire senza pensare ma solo di esprimere in modo pratico (attraverso la halakhà, la norma) che la mente umana non potrà mai arrivare alla vera essenza del pensiero divino.
Una seconda norma vuole che i tefillìn debbano essere di colore nero al punto da risultare inservibili nel caso essi si fossero anche parzialmente scoloriti. Il nero, secondo alcuni (Rav A. Neventzal) rappresenta qui il timore di Dio, la paura di trasgredire anche involontariamente ai precetti della Torà, che deve accompagnare l’ebreo nel corso della sua vita.
Da queste due brevi norme possiamo ricavare l’importanza che il precetto assume per il Bar mitzvà. Attraverso i tefillìn il ragazzo dichiara l’enorme importanza dei precetti e si ripromette di non abbandonare l’osservanza delle mitzvòt neppure quando la sua mente non gli permetterà di capire totalmente il loro significato, con la speranza di poter un giorno avvicinarsi al significato delle parole della Torà grazie alle sue forze, a quelle dei suoi Maestri e soprattutto grazie all’insegnamento che i genitori gli hanno saputo tramandare.
In occasione del Bar-mitzvà di Kevin Zanzuri 7 ottobre 1995