Introduzione
Sono trascorsi più di sessanta anni da quando Riccardo Bachi (1926 p. 364) sottolineò la “urgenza evidente” di una ricerca sul folklore degli ebrei in Italia; urgenza dovuta alla minaccia imminente di scomparsa “della tradizione verbale, del remoto ricordo di cose non direttamente praticate e vissute. Da allora molti sono stati gli studi e le raccolte di testimonianze; in alcuni settori, come quello linguistico, la ricerca è stata vasta e approfondita, con contributi di alto livello scientifico, in continuo sviluppo; in altri settori invece i dati raccolti e interpretati sono ancora pochi e molto dispersi; manca comunque ancora una trattazione vasta ed esauriente sull’argomento. Quando Bachi lanciò il suo appello alla ricerca, la disponibilità di fonti dirette era già significativamente compromessa; né Bachi poteva prevedere lo scatenarsi di avvenimenti storici che in poco tempo avrebbero radicalmente trasformato la composizione, le strutture sociali e la cultura della popolazione ebraica italiana. Così la ricerca sul folklore ebraico italiano, partita storicamente con molto ritardo rispetto a quelle su altre culture italiane, si presenta oggi molto difficoltosa già al primo livello, quello della raccolta dei dati, essendo venuta meno, forse irreversibilmente, gran parte delle possibili fonti dirette. In questa nota si tenterà. quindi di dare una prima organizzazione a un materiale molto frammentario e disomogeneo: nella situazione attuale anche una semplice elencazione (che si tenterà di evitare per quanto possibile) può essere importante. L’accento sarà messo sulle consistenze attuali dei fenomeni folklorici, possibilmente nell’ambito* di una sistematica prospettiva di, collocazione storica. La documentazione folklorica su altre comunità ebraiche del mondo è, a differenza dell’Italia, oggi molto ricca, e pertanto saranno qui evitate le descrizioni di fenomeni ben noti e diffusi altrove, privilegiando invece la specificità delle tradizioni ebraiche italiane a confronto con quelle delle comunità consorelle, e le dinamiche dei rapporti reciproci.
Un argomento che sarà quasi del tutto escluso da queste pagine, ma che deve essere tenuto presente per la comprensione completa del fenomeno, è quello della presenza ebraica nel folklore italiano: fenomeno molto ampio e dalle più svariate implicazioni, che non sono soltanto quelle, a prima vista prevalenti, dell’intolleranza, dello scherno e del pregiudizio, ma anche le comunicazioni culturali a doppio senso tra i due ambiti; anche su questo argomento manca una analisi completa. Le notizie riportate in questo saggio sono ricavate noti solo dalla bibliografia indicata in calce, ma anche le osservazioni personali e le varie testimonianze raccolte.
Le comunità ebraiche italiane
Parlando di comunità ebraiche italiane sono necessari alcuni chiarimenti preliminari sull’oggetto di questo lavoro. Secondo la tradizione ebraica è ebreo chi nasce da madre ebrea o si converte all’ebraismo davanti ad un tribunale rabbinico. In Italia la legge dello Stato (R.D. 30-10-1930 n. 1731) che stabilisce l’organizzazione delle comunità israelitiche recepisce praticamente questo principio, per cui sono iscritti alle comunità soltanto, coloro che sono ebrei secondo la definizione rabbinica. Nel 1984 vi erano complessivamente circa 35.000 iscritti. Lo studio del folklore ebraico in Italia non si può tuttavia limitare a questo gruppo, per quanto importante esso sia; vi sono infatti degli ebrei (secondo la definizione religiosa) che non sorto iscritti alle comunità ebraiche; il loro numero tende a salire da quando nel 1984 una sentenza della Corte Costituzionale (n. 239) ha abolito l’automaticità dell’iscrizione alle comunità; prima della sentenza, secondo stime piuttosto approssimative, il numero degli ebrei stabilmente residenti e non iscritti non doveva superare le cinquemila unità. Ma vi è poi tutta un’altra fascia di popolazione, non ebraica in senso stretto tradizionale, risultato di unioni matrimoniali tra ebrei e non ebrei. L’entità numerica di questa fascia è molto difficile da valutare: limitandosi alla prima generazione forse è inferiore ad una decina di migliaia; su più generazioni si moltiplica3. In tutti questi gruppi, per quanto possa essere più o meno tenue o sentito il rapporto con l’ebraismo tradizionale, sono molto sovente presenti dei segni di folklore ebraico (residui di comportamenti tipici, oggetti, lessico familiare” ecc.), talora unica inattesa traccia dei legami con l’ebraismo.
Oltre al materiale fornito da questi tipi di popolazione, in rapporto più o meno immediato con la cultura ebraica, esiste in Italia un altro tipo di possibile presenza folklorica ebraica in gruppi che non rientrano etnicamente nelle categorie sopraddette. Possono essere residui frammentari di ebraicità, in luoghi dove gli ebrei in passato avevano vissuto ed esercitato qualche influenza (per la Sardegna, ad esempio, cfr. Ben David 1937); o possono essere inquadrati come residui di marranesimo. “Marrani” erano gli ebrei che dopo essere stati convertiti a forza al cristianesimo continuavano a praticare di nascosto i riti dell’ebraismo, e per questo erano sottoposti ai rigorosi e persecutori controlli dell’Inquisizione. Numerosi Marrani circolarono in Italia nel XVI e XVII secolo; in parte sono stati riassorbili nell’ebraismo, in parte sono scomparsi senza lasciare traccia. In alcuni casi è possibile che delle comunità marrane abbiano mantenuto la loro coesione fino allo scorso secolo e perfino anche oggi. Il fenomeno è ben documentato per il Portogallo. In Italia, a parte isolate testimonianze sulla Sardegna (Medina, 1935), l’attenzione si concentra stilla Sicilia e soprattutto sulla Calabria, nella provincia di Cosenza; ma lo studio del comportamento e delle tradizioni di questi gruppi risulta oggi notevolmente ostacolato, se non irrimediabilmente compromesso, dalla commistione, volontaria o inconscia, di elementi appresi recentemente per mezzo dei mass media.
Infine un caso completamente a parte, con problematiche distinte, e a cui si accenna per completezza, è quello della comunità di contadini di un paese garganico, Sali Nicandro, avvicinatasi e poi convertita all’ebraismo nel periodo tra il 1932 e il 1948, e quindi emigrata in gran parte in Israele. Il gruppo sviluppò in pochi anni una sua tradizione, attingendo e adattando modelli locali: episodio esemplare di passaggio dal canto popolare (in questo caso meridionale pugliese) al canto religioso (L. Levi, 1957, p. 443).
Distribuzione ed origine degli ebrei italiani
La presenza ebraica in Italia conta venti secoli di storia ininterrotta. Dal punto di vista numerico, tranne che nel XVI secolo, l’entità complessiva è sempre stata contenuta sotto le cinquantamila unità. Il nucleo principale degli ebrei italiani, quello degli iscritti alle comunità, risulta attualmente distribuito in dite centri principali (Roma e Milano, rispettivamente circa 13.000 e 8.500 unità), in sei comunità ‘medie’ (Torino, Genova, Venezia, Trieste, Firenze) e quindi comunità ‘piccole’ (Alessandria, Casale Monferrato, Vercelli, Mantova, Merano, Verona, Padova, Gorizia, Parma, Modena, Bologna, Ferrara, Pisa, Ancona, Napoli). L’attuale distribuzione è il risultato di profondi rivolgimenti che hanno sensibilmente modificato anche gli aspetti culturali e quindi la tradizione folklorica. Dal punto di vista storico gli avvenimenti più determinatiti si sono verificati con la persecuzione nazifiscista che ha profondamente cambiato la composizione dell’originario gruppo ebraico italiano: emigrazioni all’estero (con bilancio negativo di circa 9.000 persone), deportazioni ed eccidi (circa 8.000 vittime), conversioni al cristianesimo. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale un cospicuo flusso immigratorio ha in parte compensato queste perdite, ma il numero (lei depositari delle tradizioni locali si è notevolmente contratto. All’inizio del secolo la percentuale di ebrei stranieri era intorno al 2 per cento; nel 1965 (anno in cui fu compiuta una fondamentale inchiesta demografica) circa il 20 per cento degli iscritti era nato fuori dall’Italia; dopo quella dita vi è stata una ulteriore immigrazione: circa 3.000 ebrei libici nel 1967, affluiti in maggioranza a Roma; si registra inoltre un sensibile continuo afflusso dal Vicino Oriente soprattutto verso Milano. La presenza di nati all’estero non è omogenea: superiore al 50 per cento a Milano, inferiore al 20 per cento a Roma (Della Pergola, 1976, pp. 53-67 e 1971, pp. 81-82); il relativo quadro folklorico ne risulta quasi ovunque condizionato, ma con una rilevanza molto differente da comunità a comunità.
I riti e le differenze liturgiche
Questi nuovi apporti etnico-culturali vengono ad inserirsi in una situazione di per sé già molto complessa. Fin dalle origini in Italia, malgrado la relativa esiguità numerica, la struttura del gruppo ebraico è stata sempre composita. A differenza di altri paesi del mondo, dove sono o erano presenti grandi gruppi ebraici, Piuttosto omogenei nella foro composizione etnica e nelle tradizioni culturali, la storia dell’ebraismo italiano ha favorito la concentrazione in piccoli nuclei di elementi della più disparata origine. Nella cultura ebraica la differenza di origine influisce sensibilmente sulla tradizione folklorica, particolarmente per l’importanza che hanno le divisioni in ‘riti’. La dispersione degli ebrei nel mondo si è tradotta storicamente nella nascita e nello sviluppo di differenti ‘riti’ sovrannazionali, nazionali o regionali; dapprima legati al paese di origine, sono stati trasferiti in altri paesi in seguito alle continue migrazioni e forzate espulsioni. L’appartenenza a un rito comporta, almeno in origine, grandi differenze nelle tradizioni liturgiche, differenze minori in altri comportamenti religiosi, ma anche e soprattutto sostanziali differenze di tradizioni sociali, linguistiche e folkloriche.
Nella grande maggioranza delle altre comunità ebraiche del mondo la differenza dei riti riguarda essenzialmente due blocchi principali: quello Sefardita, o spagnolo, e quello Ashkenazita, o tedesco, con riferimento alle località di origine nel Medioevo. In Italia la prospettiva è completamente differente perché l’elemento principale, sia dal punto di vista storico sia, ancora oggi, per il numero di coloro che lo seguono, è un rito locale, detto italiano o romano. All’estero è praticamente quasi sconosciuto (con l’eccezione di una Sinagoga a Gerusalemme, dove pregano ebrei di origine italiana). In Italia risulta diffuso un po’ ovunque, ed è distinguibile in due forme principali: quella romana, nella quale accanto a elementi originali di antichissima data (in cui sarebbero riconoscibili le fonti da cui ha attinto la nascente liturgia cristiana, L. Levi, 1956) sono presenti complessi influssi e commistioni, specialmente spagnole; l’altra forma, diffusa nell’Italia settentrionale, che conserva tradizioni originali protette tenacemente da ogni tentativo di commistione. Oltre al rito italiano sono da secoli presenti nelle maggiori comunità altri riti. Il rito spagnolo fu introdotto stabilmente dagli esuli della cacciata dalla Spagna nel 1492, e dai loro eredi, nelle diverse varianti ‘catalana’ e ‘castigliana’ (in qualche canto tuttora conservate a Roma), ‘levantina’ e ‘ponentina’; negli ultimi decenni le immigrazioni dal bacino mediterraneo (soprattutto Libia) e dal Vicino Oriente hanno introdotto le ulteriori diversità delle locali tradizioni sefardite. Il rito tedesco è arrivato in Italia a più riprese (XVI e XVIII secolo), insediandosi in varie comunità dell’Italia settentrionale; le sue particolari norme di antico adattamento all’ambiente italiano sono quasi scomparse; prevalgono invece le forme introdotte dalla più recente immigrazione da vari paesi europei, in tutto simili al resto del mondo ashkenazita. È praticamente quasi scomparso un rito detto Appàm, dalla sigla ebraica delle tre località piemontesi di Asti, Fossano e Moncalvo ove questo rito, unico superstite di un rito francese settentrionale medioevale era sopravvissuto (L. Levi, 1957). Da citare infine, anche se presente solo in rare pratiche liturgiche e nella memoria di pochi (qualche famiglia stabilitasi soprattutto a Trieste), il rito dell’isola di Corfù, con caratteri propri estremamente originali (L. Levi, 1961).
In passato l’impatto di ogni nuova corrente migratoria, portatrice di sue proprie tradizioni specifiche, sul precedente tessuto comunitario, è stato molto spesso non pacifico. 1 diversi gruppi si sono frequentemente guardati con ostilità e hanno tenuto a mantenere la propria individualità (un esempio in R. Toaff, 1972). Di conseguenza nelle maggiori comunità i vari gruppi hanno per secoli mantenuto separate tradizioni liturgiche, ciascuno avendo come centro una propria Scòla (termine tradizionale con cui l’ebreo italiano chiama la Sinagoga): così a Venezia quattro delle cinque Scòle costruite tra il 1528 e il 1578, e tuttora esistenti nel Ghetto, portano denominazione nazionale (Italiana, Tedesca, Levantina, Spagnola); a Roma, dove il pluralismo è di antica data (in epoca antico-romana esistevano le Sinagoghe di Tripoli, di Elea, di Schina e di Arca del Libano per gli originari delle rispettive città, cfr. Milano, 1964, p. 210), l’istituzione del Ghetto nel 1555 portò alla divisione dei gruppi in cinque edifici di culto: la Scòla Tempio, per le famiglie romane di antica data, la Scòla Nova, per gli italiani non romani, la Scòla Catalana-Aragonese, la Scòla Castigliana e Francese, la Scòla Siciliana (ibidem, p. 215 e sgg.).
Col passare del tempo inevitabilmente molte differenze si sono attenuate, con reciproci influssi. Nell’ultimo secolo altri fattori, come il calo demografico, l’abbandono delle pratiche religiose e la costruzione di Sinagoghe monumentali hanno poi spinto necessariamente a soluzioni unitarie (L. Levi, 1957). Altre comunità invece, specialmente in Piemonte, non hanno avuto significativi afflussi di differente natura etnica, e hanno così potuto mantenere la loro tradizione. Un caso a parte è quello di Livorno, dove la preponderanza della cultura e tradizione sefardita si è imposta con la forza su ogni altra diversità (Nahon, 1968, R. Toaff, 1972, Y. Colombo, 1972). Su questa situazione, piuttosto stabile all’inizio del secolo, si sono inserite le ondate migratorie recenti che hanno portato modelli liturgici e tradizioni culturali nettamente distinte, che per ora si mantengono tali.
Recenti fattori di cambiamenti culturali
Diversi fattori sono intervenuti negli ultimi centocinquanta anni a modificare sensibilmente la tradizione folklorica degli ebrei italiani. Il movente fondamentale è stata l’emancipazione e l’uguaglianza dei diritti concessa agli ebrei d’Italia, prima nel regno Lombardo Veneto, poi con Io Statuto del 1848 nel Piemonte e progressivamente nel nascente regno d’Italia e finalmente a Roma nel 1870. L’emancipazione ha comportato in larghe fasce della popolazione ebraica un progressivo allontanamento dalle tradizioni religiose, e, più generalmente, dalla cultura ebraica. Anche nelle fasce rimaste più fedeli alla tradizione, il miglioramento complessivo della situazione economica, e quindi la crescita di classe sociale, ha portato all’adeguamento ai modelli socio-culturali della borghesia italiana, a discapito delle originarie tradizioni familiari. Accanto a questo processo, e da esso probabilmente non disgiunto, si è avuta nella classe dirigente religiosa dell’ebraismo italiano una spiccata tendenza al razionalismo e alla opposizione netta verso la qabbalàh, la mistica ebraica, che aveva fino a tutto il Settecento dominato il quadro culturale dell’ebraismo. Poiché molte manifestazioni folkloriche ebraiche sono strettamente legate alla mistica, che le tramanda e le reinterpreta, la polemica contro la mistica comporta necessariamente la loro critica e l’abbandono. Ma l’ondata antimistica estesa in tutta l’Italia settentrionale, non è mai arrivata a Livorno, dove è esistita, fino alla passata generazione, una forte ed influente scuola locale di Maestri di qabbalàh; a Roma poi è arrivata molto più tardi, sia per il ritardo di una generazione nell’epoca della emancipazione, sia per la vacanza per circa metà dello scorso secolo – della cattedra rabbinica (e quindi l’assenza di Rabbini laureati nelle nuove scuole), sia per la struttura sociale di questa comunità, con un’ampia base di classi povere, tradizionalmente più legate alla propria cultura e istintivamente refrattarie a brusche modifiche.
Un altro dato, più recente, ha ulteriormente e notevolmente complicato la situazione locale: la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, riconosciuto come riferimento centrale religioso dalla maggioranza degli ebrei italiani, ha portato alla introduzione in Italia di forme religiose e liturgiche, di canti, di elementi folklorici vari, che in molti casi hanno sistematicamente soppiantato le locali tradizioni. Tra l’altro è soprattutto tramite questo canale che si diffondono le forme popolari e più moderne della religiosità del Chassidismo (un movimento mistico popolare originato in Europa Orientale nel XVIII secolo), che specialmente sulle giovani generazioni esercitano un fascino preponderante sulle tradizioni originarie.
Problemi metodologici e interpretativi
Ancora nel 1972, nell’articolo dedicato al folklore ebraico, l’Enciclopedia Judaica lo de finisce come eredità creativa spirituale culturale del popolo ebraico trasmessa, principalmente per tradizione orale, da generazione a generazione dalle varie comunità ebraiche. Il processo di trasmissione orale si verificò parallelamente allo sviluppo della letteratura scritta normativa” (Noy, 1972, col. 1375). La definizione corrisponde a un criterio basato eminentemente sulle modalità di trasmissione, in forma orale; è ben noto tuttavia che il dibattito sulla definizione e la natura dei fenomeni folklorici in questi ultimi decenni ha ampiamente rivisto questa posizione, un tempo prevalente, orientandosi piuttosto su criteri di classe sociale, sui rapporti tra egemonia e subalternità, e concentrandosi in particolare sulla cultura del mondo contadino. Quando si cerca di applicare questi nuovi orientamenti al mondo culturale ebraico si pongono problemi. complessi, che al momento attuale rimangono ancora aperti e non risolti. Mancando una definizione precisa, paradossalmente si potrebbe includere ogni manifestazione religiosa ebraica nell’ambito folklorico, o, all’estremo opposto, negare l’esistenza di folklore in assenza di subalternità; si impone in ogni caso una necessaria cautela, per evitare eccessi in un senso o nell’altro. Comunque la realtà socio-culturale dell’ebraismo, malgrado gli elementi in comune che legano tra di loro comunità anche lontanissime nel tempo e nello spazio, è a tal punto articolata che è evidente l’impossibilità di generalizzare metodi di analisi e definizioni. In primo luogo va notato che la popolazione ebraica italiana è stata negli ultimi secoli esclusivamente cittadina, il che esclude completamente il riferimento al mondo contadino. Se poi si pone l’accento sul dato della subalternità, nella realtà italiana, si può tentare di definire, come ipotesi di lavoro, qualche dinamica essenziale.
Il primo dato è il rapporto tra non ebrei ed ebrei. In generale il grande quadro ideologico e religioso dell’ebraismo non può essere certamente definito come subalterno alla cultura non ebraica circostante, quali che siano i rapporti di potere tra i due gruppi. D’altra parte è evidente che non si può ignorare in tutta una serie di aspetti particolari l’essenziale importanza di un continuo rapporto di dipendenza. In Italia il confronto tra ebrei e non ebrei si è quasi sempre posto nei termini numerici di una maggioranza schiacciante contro una esigua minoranza. In termini economici e politici il peso di questa minoranza è stato molto differente nel corso della storia. In alcuni luoghi e momenti (come la Puglia dell’Alto Medioevo, l’Italia centrale del Basso Medioevo, Livorno nel XVII e XVIII secolo, Venezia nel XVII secolo), i locali gruppi ebraici hanno avuto un sensibile e determinante peso economico, e quindi, benché sempre dipendenti dall’autorità, un relativo peso politico; in altri momenti – specialmente gli ultimi secoli dei ghetti – hanno visto invece il loro potere scemare gravemente. A indubbio che tutto questo abbia esercitato di volta in volta il suo influsso nella vita culturale ebraica: ai livelli e al passo della cultura egemone nei momenti di ricchezza e potenza, e da questa distaccata e passiva nei periodi di povertà. L’ultima fase di questo processo, cui si accennava alla fine del precedente paragrafo, è quella della apertura dei ghetti, con la dispersione nella vita civile, che ha comportato nuovi adeguamenti. Un tema particolare nell’ambito di questo rapporto potrebbe essere il ruolo del folklore come espressione della reazione all’integrazione, ma i dati che possediamo sono scarsissimi’.
Un’altra dinamica di rilevante importanza si pone nell’ambito stesso del gruppo ebraico, dove sono possibili, ed effettivamente documentabili, nette differenziazioni tra classi povere e classi agiate. In passato questo tipo di opposizione si poneva anche in senso etnico, quando i nuovi venuti (ad esempio dalla Spagna), appartenevano a una classe distinta; i relativi conflitti religiosi possono essere letti anche in questa chiave. Raggiunto l’equilibrio dal punto di vista etnico nel XIX secolo, il problema si è ripresentato in termini economici. Benché un po’ sfumate, queste differenze risaltano ancora oggi; ma in città come Venezia e Roma erano sensibili fino a pochi anni fa. Un altro tipo di dinamica, che si intreccia con il precedente, è il rapporto tra culti e noti culti. Se ci si riferisce non alla cultura generale, ma alla conoscenza della cultura ebraica, le tradizionali categorie di equivalenza egemone/culto non sono più applicabili automaticamente. Negli ultimi decenni non sarebbe fuori luogo parlare, con una certa ironia, invece che di cultura ebraica di classi povere opposta a quella delle ricche, dell’ignoranza ebraica dei poveri contrapposta a quella dei ricchi. Vi è poi il dato della religiosità, che può avere rapporto da un lato con il livello economico (cfr. Della Pergola, 1976, pp. 189-192), dall’altro, ma non strettamente diretto, con la persistenza di fenomeni folklorici. Ma non si può certo limitare l’analisi dei fenomeni folklorici ai soli gruppi subalterni nell’ambito della comunità. In alcune comunità è avvenuto che le classi povere hanno perso quasi radicalmente il contatto con l’ebraismo e le relative tradizioni. In altre invece la mancata o ritardata acquisizione, da parte dei più poveri, dei modelli culturali della borghesia italiana ha lasciato il posto e favorito il perpetuarsi di fenomeni folklorici. È il caso di Roma e del suo Ghetto, il campione più vivo ancora oggi e pieno di indicazioni. Forse è proprio qui che gli schemi prevalenti nelle analisi folkloriche italiane attuali possono avere una applicazione più diretta; ma sempre con molta cautela; per non parlare poi della difficoltà, in assenza di dati probanti, di analisi di tipo politico: come quelle sul carattere reazionario o progressista di certe manifestazioni folkloriche.
Il folklore nella tradizione orale, nell’arte, nei comportamenti, nella vita religiosa
La tradizione orale
1. Il giudeo-italiano come fenomeno folklorico
In molti luoghi della loro dispersione nel mondo gli ebrei parlano delle lingue particolari, distinte da quelle dell’ambiente esterno. Queste lingue o dialetti erano in origine quelle dei luoghi ove gli ebrei abitavano, commiste a un’ampia quantità di vocaboli ebraici e venivano scritte con i caratteri dell’alfabeto ebraico. Nel corso della storia subirono una evoluzione più lenta delle lingue locali, tanto più lenta quando i suoi fruitori si trasferirono in ambienti linguistici diversi. Sono note soprattutto due lingue principali, tuttora in uso, benché rapidamente decrescente: il giudeo-tedesco (yiddish), originato nella Germania medioevale (varietà di Mittelhochdeutsch) e parlato dagli ebrei in tutta l’arca ashkenazita; e il giudeo-spagnolo (detto talora ladino), trasferito dagli esuli della cacciata dalla Spagna del 1492 in tutto il bacino mediterraneo.
Lo stesso fenomeno di formazione di una lingua locale particolare del gruppo ebraico si è avuto in Italia, dove ha assunto però caratteri distintivi: gli ebrei italiani possono essere considerati come una “comunità linguistica” (Cuomo, 1983, p. 427); ma allo stato attuale, che rispecchia pallidamente la situazione degli ultimi secoli, non esiste una lingua unitaria giudeo-italiana, ma diversi dialetti o gerghi o parlate locali o regionali, più o meno strettamente collegate alle differenze dialettali delle regioni italiane’. L’esistenza di queste varietà ha nel nostro contesto una fondamentale importanza, per due motivi essenziali: in primo luogo perché l’utilizzazione specializzata del giudeo-italiano può essere considerata di per sé un fenomeno folklorico; in secondo luogo perché questi dialetti sono uno strumento essenziale di trasmissione di tradizioni folkloriche. Da una parte, quindi, assumono rilievo i meccanismi di persistenza e di adattamento del dialetto ebraico alla realtà linguistica locale. L’evoluzione ha seguito diverse strade: “dal conservatorismo arcaicizzante ed individuante della parlata degli ebrei del ghetto romano, al puro ibridismo lessicale di quella giudeo-veneziana” (ibid., 1). 450); è un fenomeno che ha diverse motivazioni, tra le quali sicuramente risalta il dato della maggiore o minore integrazione del gruppo rispetto all’ambiente circostante. In questi ultimi due secoli, la quasi completa integrazione si è accompagnata alla tendenza alla obsolescenza della lingua; in molti casi l’abbandono è stato motivato e cosciente, inserito ideologicamente nel rifiuto della condizione del ghetto. Inevitabilmente la lingua è venuta ad assumere ruoli sempre più specializzati: “di differenziazione e protezione verso l’esterno, e di espressione affettiva di sentimenti ed atteggiamenti propri del ghetto verso l’interno” (ibid., pp. 449-450). È la lingua in cui si comunicano necessità e azioni della vita religiosa e di quella familiare. Le donne (in generale meno istruite degli uomini in lingua ebraica) la usavano per pregare, con apposita traduzione dei testi liturgici (Cassuto, 1930); ma probabilmente anche per le preghiere personali, come avviene nel resto del mondo ebraico (ove donne poliglotte tuttora riservano la mome lushen, la lingua materna, l’yiddish, per le comunicazioni dirette con Dio). Nella vita familiare, per quanto oggi meno frequenti restano in uso vocativi affettuosi come quelli diretti a parenti e a piccoli (a Roma espressioni come: “bella carne de zia”, o “mordepà” – amore di papà – Del Monte, 1976, in seguito abbr. CD, p. 13).
Ma il giudeo-italiano è soprattutto la lingua che si usa per non farsi capire da terzi, come i bambini, o gli ebrei di un’altra regione, o i non ebrei (nei rapporti commerciali, come venditori o acquirenti; o dalla domestica in casa – chiamata bonariamente havertà, letteralmente la compagna o socia; qui già l’uso riflette un impiego in famiglia borghese -); è la lingua della solidarietà, dell’allarme, del pericolo. La specializzazione dell’uso è rilevata da Primo Levi (1975, pp. 9-10) che, scrivendo del giudeo-piemontese (ma l’osservazione è valida per tutta l’arca italiana), nota: ‘La sua radice umiliata è evidente: vi mancano ad esempio, in quanto inutili, i termini per ‘sole’, ‘uomo’, “giorno’, ‘città’, mentre vi sono rappresentati i termini per ‘notte’, ‘nascondere’, ‘quattrini’, ‘prigione’, [ … ] ‘rubare’, ‘impiccare’ e simili.” In termini più precisi ciò significa in particolare che il giudeoitaliano diventa “una lingua rifugio’ per i concetti colpiti da tabù linguistico” (Modena, 1978, p. 167) come quelli indicanti gli eventi infausti (soprattutto la morte, ma anche i dolori, le ostilità, gli individui pericolosi), i difficili rapporti con la religione cristiana, la sfera sessuale e le funzioni corporali (in questo caso, nota P. Levi, p. 11, con il vantaggio “di alleviare il cuore senza scorticare la bocca”); in un ambito opposto, positivo, ma forse per un meccanismo di difesa dal malocchio, sono usati termini di origine ebraica per indicare persone di famiglia, bambini, eventi fortunati e beni materiali (Modena, 1978, pp. 161-162). Pescando nel patrimonio lessicale della tradizione religiosa, gli adattamenti dialettali risultano spesso carichi di curiosa ironia, quando non c’è l’irriverenza o addirittura si sfiora la bestemmia: come nel romano maqom, letteralmente ‘luogo’, quindi nell’uso comunissimo di luogo di decenza’ (cfr. Scazzocchio, 1970, p. 126), mentre nel resto del mondo ebraico, in applicazione di un concetto filosofico (Dio è il luogo del mondo), la stessa parola ebraica è sinonimo rispettoso della divinità. Da notare infine come nell’uso dialettale delle parole di origine ebraica si conservi accuratamente la antica forma di pronuncia italiana dell’ebraico; una pronuncia caratteristica, tipo particolare della pronuncia sefardita, con qualche differenza regionale (Artom, 1962), che a parte quest’uso dialettale e un impiego piuttosto limitato nella liturgia da parte dei cantori tradizionalisti, viene in questi ultimi decenni sostituita sistematicamente da quella in uso nello Stato d’Israele’.
2. Il giudeo-italiano e la letteratura popolare
L’altro ruolo essenziale in chiave folklorica del giudeo-italiano è quello di veicolo letterario. L’argomento, data la sua complessità, va discusso nei suoi diversi aspetti.
Il racconto popolare. Da secoli tra gli ebrei italiani è viva una tradizione narrativa: dal Sefer Josippòn (X secolo) e il Rotolo di Achima’atz (1051), prodotti nell’Italia meridionale, ai nostri giorni, in cui in lingua italiana riscuotono successo i racconti ferraresi di ambiente ebraico di Giorgio Bassani. Ma se si limita il campo alla sola produzione ‘popolare’, il materiale esistente risulta scarsissimo. Le testimonianze scritte in lingua ebraica risalgono al più tardi ai primi decenni dello scorso secolo e sono da considerarsi comunque una elaborazione culta di materiale eventualmente popolare (Dan, 1974, p. 3). In questo ambito, ad esempio, rientrano le varie elaborazioni della leggenda del papa ebreo, circolante in fonti ebraiche scritte (riportate in Jellinek, 1877) e forse ancora in qualche racconto orale in italiano (Gatto Trocchi, 1982). Tracce di tradizione narrativa orale si possono poi identificare in alcuni filoni determinati: storie e aneddoti sulla vita di celebri Rabbini, come i livornesi Chajim J.D. Azulai (1727-1806) e Elia Benamozegh (1823-1900), non ancora raccolte organicamente, e trasmesse dai discepoli dei discepoli; brevi aneddoti di vita di Ghetto, spesso in forma di barzelletta’, o come spiegazione di soprannomi insoliti, trasmessi anche a discendenti. I recentissimi Racconti di Barotto (Piperno, 1983-1984), romani, contengono molti spunti ricavati da una tradizione locale orale, rielaborati dall’autore. In un caso particolare, le storie ebraiche sii Gesù, l’insolita diffusione nell’Italia del XVIII secolo, in copie manoscritte, di vecchi racconti a sfondo prevalentemente magico, configura come popolare (nel senso inteso da Cirese, 1977, p. 100) l’uso di quei testi all’epoca, e, a maggior ragione, la successiva trasmissione in forma orale di frammenti di quelle storie, tuttora reperibili nella memoria di qualche intervistato (Di Segni, 1985, p. 36 e 222).
Il teatro. Dai tempi del Rinascimento in diverse comunità si svolgevano manifestazioni teatrali in occasione della festa di Purìm (che ricorda l’episodio del libro biblico di Ester), con la recitazione di poemetti e commediole satiriche su gente del luogo o ispirate all’episodio biblico istitutivo della festa; da queste attività hanno avuto origine delle produzioni culte di notevole importanza storica (Milano, 1963, pp. 568-569), mentre è proseguito parallelamente un filone a carattere più popolare di cui qualche traccia ci è arrivata (cfr. Alfredo Toaff, 1960, p. 154). Questo tipo di produzione è in qualche modo tuttora vivo, con continua edizione di copioni ad uso comunitario o scolastico, e che possono essere considerati popolari nella misura in cui rappresentano variazioni più o meno originali su un tema fisso, senza pretese letterarie. A parte il Purìm, sono di questo secolo dei tentativi di ricreare situazioni e scene di vita ebraica di epoche passate con piccole commedie in dialetto locale: da La Gnora Luna, di ambiente fiorentino (Bené Kedem, 1932), alle opere livornesi di Guido Bedarida con lo pseudonimo di Ben David (1949 e 1950), alla veneziana Quarant’anni fa (Polacco, 1972), fino alla recentissima romana Pur’io ríderio si ‘o matto ‘n fosse mio (Compagnia “Chaimme ecc. 1985). Il successo notevole di pubblico che quest’ultima opera ha incontrato, ha contrastato con alcuni giudizi critici apparsi sulla stampa ebraica; le critiche sull’esiguità della struttura letteraria hanno evidentemente ignorato il ruolo di ricostruzione d’ambiente e la natura prevalentemente folklorica del lavoro, che ripropone situazioni e temi tradizionali.
La poesia. In questo secolo vi è stata una notevole produzione originale in diverse città di poesie nel locale dialetto giudaico: più importanti i nomi di Crescenzo Del Monte (1976, ristampa antologica) a Roma e Guido Bedarida (1956) a Livorno; produzioni minori in altre località come a Maritova (Annibale Gallico, in Colorni, 1970, pp. 163-164). Nella maggioranza dei casi non sono produzione folkloriche, ma contengono documenti, testimonianze e ricostruzioni di ambiente di importanza fondamentale e spesso esclusiva. In un caso, che appare molto isolato, una poesia triestina d’inizio secolo esprime la protesta di un gruppo di ebrei ridotto alla disoccupazione dal comportamento scorretto di un ricco ebreo della comunità (Stock, 1977): caso rarissimo per l’ebraismo italiano di protesta sociale veicolata da uno strumento folklorico. Andando un po’ più indietro nel tempo si incontrano, nell’epoca dell’emancipazione, manifestazioni frammentarie di poesia anonima, di livello più o meno basso, spesso di tono beffardo, con larga indulgenza all’oscenità (Terracini, 1962, p. 270; cfr. anche Terracini, 1938). Cercando delle produzioni più antiche, anche in questo caso è la festa di Purìm a fornire il materiale più abbondante; ogni comunità doveva avere proprie tradizioni; abbiamo notizie più dettagliate per Venezia (Fortis, 1972), come in un testo del 1720 reperito da Benvenuto Terracini: “Amisi cari, vi invito de core / al seder [la cena rituale] de Purim con tutt’amore; / porté putte / belle e brutte…” (Nalion, 1972, p. 570). Livorno conservava la letteratura più ricca; due dei testi più importanti – che si cantavano – sono stati pubblicati da Alfredo Toaff (1960). fi primo, probabilmente del XVII secolo, in spagnolo, misto a ebraico e italiano, dovrebbe rappresentare simbolicamente la vitalità e la resistenza di Israele, indicato con il nome simbolico di Chaym Cilibi (probabilmente è il titolo turco di Signore, persona raffinata). Inizia cori: 9 a iiii i-ne Hamavan Chayini Cilibi, moros e indianos arinan por mi / …”; nel testo pervenutoci è riconoscibile quel “salto semantico” che Mukarovsky (1973, pp. 392-410) ritiene tipico dell’arte popolare. Il secondo testo, in lingua italiana (stampata in caratteri ebraici nel 1792) è un lungo contrasto tra un prodigo e un avaro che discutono se lasciar andare via il Purin, qui chiamato Carnovale`: “Carnovale non te ne andare, / ti daremo tiri salsicciotto, / mezzo crudo e mezzo cotto / l’andererrio a mangiare. / Carnovale non te ne andare / …” Si tratta comunque di un patrimonio molto più scarso rispetto ad altri con testi come quelli sefarditi mediterranei attuali, raccolti da Armistead e Siiverman (1983).
Un caso particolare di produzione letteraria è quello dei resti per bambini: come le filastrocche e cantilene di cui abbiamo esempi romani nella poesia di Crescenzo Del Monté, e le formule di preghiera particolare: come quella pitiglianese del venerdi sera: ‘Tona sera, bona stimana, bon’anno, sanità, pace, bene e berhà [benedizione], vita lunga e contentezze…” (Terracini, 1962, p. 282), o quella romana prima di coricarsi, che ancora oggi una bambina (G. Spagnoletto) ha imparato dalla nonna e ha pubblicato nel “Giornalino” della Scuola Elementare “V. Polacco” (a. III, n. 3, 1987): “Ascem, Ascemme [“il nome”, invocazione rispettosa del Signore], Amènne Amènne / coi nome di Dio sia sempre Amènne / So la calata ma non so la rizzata, / anima a Dio raccomandata. / … / M’insogno e m’insognai / coi Malòch l’angelo raccontai / col Malàch buono dissi a Dio: / Sogno buono sia lo mio! / Formule queste francamente folkloriche, a differenza di altre di stile e impianto culto, di autori identificabili, come la filastrocca pasquale citata da Giorgio Romano (1974).
Un ultimo settore di interesse è quello dei modi di dire e dei proverbi. Nelle varie raccolte di testimonianze linguistiche 12 sono citate numerose espressioni caratteristiche e modi di dire. Si tratta in pratica di espressioni con una o più parole di origine ebraica, o di concetti presi dalla vita religiosa, applicate poi con spirito critico e spesso con ironia alla vita quotidiana. In contrasto con l’abbondanza di questi dati (qualche centinaio, in totale), di veri e propri proverbi popolari è possibile individuare solo pochi e dispersi residui. Ciò contrasta anche con l’abbohdanza delle diverse raccolte di proverbi di altre comunità ebraiche del mondo (Noy, 1972, col. 1388). Può essere che la scarsità di dati italiani dipenda almeno in parte dalla niancanza di una ricerca sistematica orientata in questo senso specifico. In assenza di questa raccolta si possono identificare solo delle linee di tendenza generale. Vi sono detti derivati da situazioni e problematiche tipicamente ebraichc; come il rapporto difficile con i non ebrei: “chi de gèi [del non ebreo) se fida chasir [maiale] magna” (Mantova, Colorni, 1970, p. 149, ma ubiquitario); il rapporto elastico con la tradizione religiosa: “La forà ‘d Moscé (l’insegnamento mosaico] chi la pia da la testa e citi la pia dai pé” (Torino, Diena, 1985, p. 242, ma ubiquitario);, l’osservanza del sabato “scíabat… non è e la borsa non gh’è” (Mantova, Colorni, 1970, p. 150) da un aneddoto medioevale che racconta la risposta che dette un ebreo a chi gli chiedeva cosa avrebbe fatto trovando dei denari di sabato, giorno in cui la tradizione proibisce di toccarli.
In molti altri casi si tratta di proverbi comuni al mondo circostante, in semplice traduzione o adattamento complesso: “ai chamorìm [asini] non gite piasen i confetti” (Mantova, Colorni, 1970, p. 149); “non l’è 1 frac neglier e 1 cuiet nsu ca fan 1 ben adam [l’uomo], ma i ma’asìm tovlm (le buone azioni] e la virtù” (Torino, Bachi, 1929, p. 35); un esempio meteorologico è nel torinese ” Vaiachèl gava ‘i mantèl, Picudè turnlu a buté” (Diena, 1985, p. 243), riferito agli incerti primi caldi primaverili (Vaiachèl e Picudé sono i nomi di due sabati di marzo).
Riflesso delle difficoltà e situazioni quotidiane sono alcuni proverbi circolanti a Roma: “tra zonòd [prostitute] e mezonòd [alimenti] se ne vanno li mangòd li soldi]”; o l’esempio di tre cose che vanno prese come vengono: “figli, chamhn (cibo sabbatico che si conserva al caldo, può scuocersi e rovinarsi] e jenneri [generi]”; o il distaccato e ironico: “mejo senza pesci che aliciotti [pasto sabbatico povero]”.
3. La musica:
La tradizione musicale dell’ebraismo italiano è estremamente ricca e articolata e di notevole interesse storico (L. Levi, 1956 e 1957); riguarda principalmente la liturgia, ma anche la vita pubblica e familiare. Porta i segni evidenti di una storia di influssi molteplici, con residui di varie epoche ed ambienti. I canti più diffusi e famosi (un esempio è il Ma’oz Tzur, della festa invernale di Chanukkà) hanno avuto complicate odissee di trasferimenti e adattamenti. A più riprese, sebbene ispirati da motivazioni ideologiche differenti, i compositori e i cantori hanno adattato o semplicemente trasferito in campo ebraico dei motivi musicali profani (e persino religiosi) dominanti nell’ambiente esterno dell’epoca: nell’Ottocento, ad esempio, la liturgia è stata adattata alla pompa e al gusto operistico, mentre antichi inni religiosi venivano cantati con la musica di motivetti patriottici (conte del resto avveniva negli altri paesi dell’Europa emancipata).
Di data più antica, e di particolare interesse folklorico, sono i canti per le feste celebrate in famiglia: dei canti di Purìm si è già detto sopra; qui sono da citare soprattutto i due canti in chiusura della cena pasquale (il capretto e uno chi sa). Gli ebrei italiani preferiscono ai testi stampati in lingua ebraica ed aramaica le varie versioni dialettali italiane locali. Non è stata ancora chiarita con sicurezza l’origine di questi testi, che hanno vari riscontri nel folklore noti ebraico; non è cioè sicuro citi abbia ispirato l’altro (L. Levi, 1962, Scheiber, 1980, p. 33); in ogni caso dall’ebraismo sono tornati all’esterno (un esempio in Anna Colombo, 1979) e persino recentemente il pubblico italiano se ne è riappropriato grazie all’adattamento di un noto cantante (Angelo Branduardi, Alla fiera dell’Est).
Un altro fenomeno interessante è l’uso profano di melodie liturgiche; a Roma ne resta qualche esempio nelle musiche della Mishmarà (vedi il paragrafo Il ciclo della vita), che tra l’altro, secondo un gusto tipicamente popolare, vengono cantate strascicando le melodie; sul motivo dell’inno mistico a Bar Jochai si cantano delle strofette parodistiche, come: “C’era pure Moscé lo ladro / ch’arubbava li biscottini. / Più n’arubbava più ne magnava / Bar Jochai… Robbidìm [rabbini] e sciammascìm (inservienti della Sinagoga) / so’ ‘na massa de gannavìm (ladri]”.
Merita poi menzione, nella liturgia domestica, la versione italiana del rituale invito a benedire dopo il pasto (zimmùn), come il canto ferrarese Abbiamo mangiato, ce n’è avanzato, ringraziamo il Signòr; un canto analogo, più lungo, in uso a Pitigliano, è citato in Terracini, p. 282. Ormai solo un ricordo sono i canti in uso nelle confraternite (un esempio in CD, p. 101). Per gli ultimi anni è da segnalare la predominanza dei motivi del nuovo folklore israeliano e chassidico, di cui stranamente, e per differenti vie, si servono anche dei gruppi di attivismo cattolico.
4. L’arte
L’ebraismo italiano si è segnalato nei secoli per una rilevante produzione artistica religiosa. Nelle principali raccolte internazionali di arte ebraica e nelle pubblicazioni artistiche specializzate, la componente italiana occupa sempre un posto di rilievo. Importanti documenti sono conservati in ogni comunità ebraica italiana, specialmente nelle mostre permanenti di Venezia, Firenze e Roma. Senza dubbio la qualità della tradizione artistica italiana ha profondamente influenzato, nella sensibilità e nei gusti, la committenza (perché nella maggioranza dei casi gli artisti non sono ebrei) e la produzione della minoranza ebraica. Si tratta quasi esclusivamente di arti minori, finalizzate alla creazione e decorazione di oggetti rituali: dopo il Rinascimento, soprattutto la lavorazione di metalli pregiati e di tessuti, che hanno conferito un aspetto caratteristico agli ambienti religiosi dell’ebraismo italiano. Recenti studi hanno impostato in termini rigorosi la valutazione di queste produzioni (Gaglia, 1984 e Mossetto, 1984), che sono perloppiù espressione di una attività artigianale specializzata e accurata, che si adegua al gusto più raffinato dell’ambiente circostante. In questo senso, in generale, i prodotti non possono essere considerati come arte popolare, con l’eccezione di alcuni oggetti particolari, come 1 e lampade per la festa invernale di Chanukkà, di cui esistono esemplari pregevoli e altri di produzione meno accurata e di gusto ‘popolare’.
In un altro settore, invece, quello della decorazione dei contratti nuziali (ketubbòth) (Roth, 1968, Mortara Ottolenghi et al., 1984), è forse possibile un rilievo inverso: accanto a un minicro relativamente ridotto di produzioni artistiche di tipo culto, esiste una maggioranza di vera e propria produzione folklorica. L’uso della decorazione dei contratti nuziali è diffuso in molte parti del mondo ebraico, e in ogni nazione si è sviluppata una tradizione stilistica distinta. In Italia il diffondersi di quest’uso – che sembra iniziare con la nascita dei Ghetti – si incontrò con la consuetudine locale di decorare scritte di tutti i tipi. Si svilupparono diversi prototipi di decorazione in rapporto allo scritto: come a Livorno e in aree sefardite, dove il testo è a due colonne, con la parte ristretta della pergamena in alto; o a Roma, dove il testo è su una sola colonna, e la pergamena è stretta in basso. La decorazione è fatta con scritte augurali e con disegni colorati, a temi abbastanza fissi (e localmente ricorrenti): disegni geometrici, elaborazioni floreali, gli stemmi delle dodici tribù, i segni zodiacali, il Tempio di Gerusalcemme, gli stemmi di famiglia degli sposi, talora i ritratti stessi degli sposi. Raramente intervengono veri artisti, spesso non ebrei, che rimangono comunque quasi sempre anonimi; la qualità del risultato è molto variabile; col passare del tempo il gusto evolve molto lentamente, mentre si moltiplicano le variazioni su tema; in questi sviluppi si possono identificare appunto alcuni caratteri tipici dell’arte popolare, secondo Mugarovski (1973, p. 47). La tradizione prosegue tuttora, e l’adeguamento a moderni canoni estetici continua ad essere in generale molto lento. In questo secolo si sono sviluppate piccole industrie di arte popolare, con la produzione a varie riprese (in Piemonte e in Toscana) di piatti in ceramica con disegni a temi religiosi; tuttora a Venezia è viva la produzione e il commercio di oggetti in vetro a scopi rituali (come calici per la benedizione festiva del vino).
I comportamenti
1. L’abbigliamento
Nel Medioevo l’ebreo italiano si distingueva per qualche abbigliamento particolare, come il cappello a punta (pileus cornutus), successivamente scomparso, e i vari segni (come la ‘rotella’ colorata), imposti con vicende alterne anche nei secoli successivi (Milano, 1963, pp. 585-589). Recenti studi (Owen, 1986) hanno sottolineato anche l’importanza di alcuni dettagli come l’uso delle donne ebree del Medioevo di portare gli orecchini. Nell’epoca della formazione dei ghetti le mode dei paesi di origine, per gli ebrei stranieri, finirono rapidamente, mentre restava solo, per un certo periodo, un gusto orientale di trucco femminile accentuato (Boccato, 1979). Anche se esiste qualche testo di inquadramento (come Milano, 1963, pp. 563-566 e Ruben, 1973), una ricerca sistematica sull’abbigliamento degli ebrei italiani nel periodo manca ancora, ma le fonti in proposito abbondano, essendo rappresentate soprattutto dalle ripetute ordinanze (“Pragmatiche”) che i dirigenti delle varie comunità emisero a più riprese per frenare la tendenza al lusso, e dove indicarono dettagliatamente gli abbigliamenti consentiti (cfr. ad esempio Milano, 1932, 1963, p. 554 e 1967, Boccato, 1979).
Potenziali elementi distintivi furono per le donne sposate l’uso di tenere coperti i capelli (attestato in dM, p. 9), e quasi scomparso negli ultimi decenni; forse accompagnato anche dalla tonsura (di uso corrente nell’area aslikenazita; per l’Italia un’esile traccia in proposito in CD, p. 3). Per gli uomini, scomparso il significato religioso attribuito alla cintura (dM, p. 10), resta l’uso del copricapo, che è segno di rispetto e pietà religiosa. Il tipo di copricapo è stato talora ritualizzato, come la lobbia o il cilindro nelle maggiori Sinagoghe (Nahon, 1968, p. 450) e la sua sostituzione progressiva con semplici zucchetti, negli anni Cinquanta e Sessanta di questo secolo, ha sollevato resistenze e polemiche: esempio di applicabilità al folklore del concetto engelsiano dei lunghi periodi” (cfr. Di Nola, 1976, p. 21). I rabbini usavano vestire più austeramente; dall’Ottocento, se non prima, hanno indossato in Sinagoga le toglie e i cappelli dei giudici civili. Anche tra chi non è osservante è sempre più diffuso, in Italia, come nel resto del mondo ebraico, l’uso maschile e femminile di portare, al collo ad esempio, dei distintivi laici di ebraicità, come la stella a sei punte (che solo nell’ultimo secolo è diventata, da semplice amuleto, un simbolo nazionale ebraico, cfr. Scholem, 1982, pp. 363-370).
2. Evitazioni, sistemi di sicurezza, medicina popolare
Gli ebrei romani si astenevano dal passare sotto l’Arco di Tito, documento storico della loro antica sconfitta e deportazione”. Nel 1948, quando fu proclamata l’indipendenza dello Stato d’Israele, una cerimonia ufficiale pose fine all’antica proibizione. A parte questo uso, di chiare motivazioni storiche, tutta un’altra serie di cautele riguarda i diversi rischi del negativo. La morte, in primo luogo; i segni tipici dei riti funebri sono sistematicamente evitati: a Roma, ad esempio, non si mettono delle sedie vuote in fila, perché ricordano la visita rituale di condoglianze; non ci si siede su cuscini (sui quali, in terra, siede la persona in lutto); né si taglia l’uovo sodo con la lama di un coltello, come il rito prescrive di fare ai parenti in lutto di ritorno da un funerale. Dopo la morte, un altro rischio fondamentale è quello del malocchio, di remote origini tradizionali (Colien, 1935, Trachternberg, 1970, pp. 54-56). Gli individui pericolosi in questo senso erano chiamati a Livorno nahasciosi (Modena, 1968, p. 171).- Ma più in generale viene esageratamente mitizzata la potenza dell’ “occhio dell’ebreo” di cui si dice persino che “sprofondò Gerusalemme” (CD, pp. 69-70, 175-177). Contro questi rischi un rimedio generico è la cartuccia di sale (CD, p. 69); più potente e specifico, e di nobili e lontane tradizioni (Trachtemberg, pp. 139-145) è il qaniìa’, in dialetto chimiangk: un foglio di pergamena con scritte augurati e- protettive in ebraico, redatto ad pemonam! che viene piegato e avvolto in una custodia di stoffa, specialmente seta e si porta ai collo. Diffusissimo in passato, viene conservato in molte famiglie ‘ che spesso ne ignorano il significato; continua talora ad essere portato ancora oggi, nuovamente scritto ad personan?, o ereditato.
Dalla letteratura rabbinica dei primi secoli dell’era volgare derivano alcune prescrizioni rituali sul taglio delle unghie (cfr. Di Segni, 1981, pp. 126-134) sostenute da preoccupazioni magiche, poi rielaborate dalla mistica; Leon da Modena’ le dichiarava ormai non più in uso; ma ancora a Livorno nelle passate generazioni alcune donne conservavano i ritagli delle proprie unghie che volevano venissero sepolte insieme al loro corpo. Nella pratica quotidiana sono ancora molto frequenti, presso chi usa esprimersi in dialetto, delle espressioni confermative e rassicurative, che sono essenzialmente dei giuramenti, privi tuttavia della carica originaria di potenza e usati piuttosto come intercalari; a Roma: “sulla vita mia” o “pe’ vita tua e mia”, o “badanài” = perdio (tanto frequente in passato che molti romani così chiamavano gli ebrei, cfr. Milano, 1964, p. 469) o “pe’ li [sette] santi Sefarìm – i rotoli manoscritti del Pentateuco.
Le notizie che abbiamo sull’esistenza di tradizioni di medicina popolare sono estremamente scarse, e in questo caso è probabile che la costante presenza attiva in tutti i livelli sociali di medici ebrei esperti abbia notevolmente limitato queste tradizioni. Una traccia isolata sembra essere quella di un ‘unguento di Purimme’ citato da Del Monte (CD, p. 161). In un campo vicino, l’etnopsichiatria, abbiamo notizie più ampie: la diffusione di storie di possessione spiritica e demoniaca (dibbùq), con almeno quattro episodi documentati tra il XVI e il XVIII secolo (Nigal, 1983) e persino con sporadici casi contemporanei.
3. La cucina
L’importanza culturale della cucina e delle sue tradizioni viene giustamente sottolineata in recenti studi sull’ebraismo (Allouche-Benayoun, 1983). In Italia si osserva una tradizione in cucina ebraica ancora molto viva e articolata, in molti casi forse più sentita e seguita, come fattore di identità, delle stesse tradizioni religiose. Dell’interesse soprattutto pratico che suscita sono eloquente testimonianza il successo di diversi libri recenti di ricette italiane (Ascoli, 1970, Limentani, 1982, e negli Stati Uniti, Servi, 1981). Osservando questi testi si può verificare da un lato la persistenza di tradizioni specifiche locali, dall’altro la recente penetrazione di diverse nuove tradizioni (in questo senso è indicativa la struttura del libro di Ascoli, 1970). Gli studi scientifici su questi temi non sono molto sviluppati e sicitramente potrebbero portare delle sorprese: come la constatazione della quasi totale origine spagnola dei piatti della Più ‘tipica’ cucina ebraica romana”. Tra i diversi elementi di interesse, alcuni in particolare sono da segnalare: la ritualizzazione della cucina – che inizia già nei modi di preparazione – e il suo stretto collegamento con la vita religiosa, per cui ogni momento festivo liturgico viene sistematicamente segnalato da una serie di cibi e menù stabiliti, dai primi piatti fino ai dolci, particolari per ogni occasione 16 ; la possibile natura ‘povera’ della cucina ebraica, che utilizza, tra quelli che la tradizione consente, ogni possibile alimento (specie vegetali inconsuete, tagli di carne meno pregiati ecc.); il ruolo di definizione dell’ambiente di alcune abitudini culinarie, come quella romana di cuocere al sole, appesi fuori della finestra, dei tagli di carne (“le coppiette”); la diffusione delle ricette al di fuori del mondo ebraico (si pensi ai “carciofi alla giudìa”), ulteriore esempio di comunicazione culturale tra i due mondi.
La vita religiosa
1. Il ciclo della vita
È un capitolo ovviamente ricco di comportamenti folklorici. L’antica consuetudine di richiesta di grazie presso la tomba di illustri Maestri sopravviveva solo a Livorno, dove le donne ebree usavano recarsi alla tomba di Ch.J. Azulai (vedi paragrafi precedenti) per chiedere di poter avere figli (Nahon, 1968, p. 449). La salma di Azulai è stata recentemente traslata in Israele, ma l’uso era probabilmente finito molto prima. Dopo il parto la puerpera veniva nutrita con pane bagnato nel latte “’pariata”) per stimolare la lattazione; un uso quasi ritualizzato, con la gelosa conservazione dei grossi bicchieri necessari alla preparazione. La protezione della puerpera e del neonato era una necessità pressante; una tradizione ebraica ubiquitaria trasferiva miticamente la coscienza del rischio nell’immagine di una persecuzione messa in atto da Lilìth, prima moglie di Adamo, e simbolo della sessualità femminile edonistica e non finalizzata alla procreazione (Scholem, 1982, pp. 357-362 e Trachtemberg, 1970, pp. 36-37). L’uso italiano era di collocare, a difesa della puerpera e del neonato, nelle quattro pareti della loro stanza, dei quadretti (“bollettini”, secondo dM 101) con iscrizioni su argento (Pavoncello, 1982) o carta. Attenuatosi l’uso, e dimenticata la specifica finalità dei “bollettini”, questi sono stati comunque conservati e riutilizzati altrove (ad esempio nei negozi) a scopo decorativo e protettivo (Pavoncello, 1980).
Il rischio diveniva maggiore nella notte precedente la circoncisione del neonato (all’ottavo giorno), e per proteggerlo si teneva una veglia di studio e di preghiera (Mishniarà), che con il passare del tempo, a Roma, ha subito varie evoluzioni: dalla veglia vera e propria a una breve riuffione conviviale e di canto, che oggi si usa fare non solo per le circoncisioni, ma alla vigilia di ogni avvenimento familiare lieto. Una forma differente di Mishmarà, detta Zor, da Zohar, il testo mistico che per l’occasione viene studiato, è in uso presso gli ebrei di recente iminigrazione dalla Libia. Al termine della Mishipiarà i padroni di casa offrono agli ospiti che escono un pacchetto con dolci tipici, in quantità precise, detto Kavòd (“onore”). Tra gli aspetti folklorici della circoncisione risalta quello dei comeraggio maschile e femminile: un uomo (a Roma due, da molti secoli: DR, p. 54) che tiene il bambino mentre viene operato; una giovane nubile tiene calmo il bambino facendogli succhiare un tamponcino zuccherato, e si afferma che la giovane si sposerà entro un anno; subito dopo una donna – che non è la madre – allatta il bambino. Al circoncisore viene offerto un Kavòd speciale, che contiene anche un uovo sodo (DR, p. 56). A sua volta, almeno a Venezia, il circoncisore offriva un dono di dolci alla puerpera (dM, p. 105). Il risanamento della ferita (a Roma chiamato ‘caduta della Milà’ [circoncisione], DR, p. 57) veniva segnalato a Venezia con un omaggio di confetture (dM, p. 105). Per le banibine è in uso una cerimonia di benedizione (zéved habàth) al compimento di un mese a Venezia (dM, p. 105), o a 40 giorni a Roma, forse in coincidenza con il cosiddetto ‘capaparto’ che nella medicina popolare romana è il termine standard della ripresa del ciclo mestruale. Sulla culla si appende un ciondolo metallico, spesso di pregevole fattura, chiamato Shaddài (l’Onnipotente), dal nome divino che vi compare sempre inciso, a scopo protettivo.
In occasione della circoncisione o della benedizione viene dato il nome al neonato. Nella scelta del nome si mantengono, per quanto un po’ attenuate, consuetudini antichissime: il doppio nome, ebraico e italiano, la cui associazione può essere casuale, o legata a diverse tradizioni consolidate (Colorni, 1983 e 1983a); la perpetuazione dei nomi di famiglia (ma differenti usi regolano la legittimità dell’uso di nomi di ascendenti in vita). Il cognome assume interesse folklorico nell’abitudine a ebraicizzare la parola, cercando etimologie fantastiche basate sulla somiglianza dei suoni: così ad esempio ‘Misano’, dal nome di una città marchigiana, diventa Mish’àn, coi significato di ‘sostegno’ e ‘Ascarelli’, da un toponimo spagnolo, diventa ‘AzkArièl, ‘forte come il Leone di Dio’. Di grande frequenza, infine, è il ricorso ai soprannomi: un uso inutilmente deprecato e combattuto già dai rabbini del Talmùd, ma sempre vivo e giustificato anche dalle frequentissime omonimie che si verificano nelle comunità”.
Al trentesimo giorno dalla nascita di un primogenito si compie la cerimonia del riscatto (di istituzione biblica, cfr. Esodo, 13:13). In questa occasione ancora oggi a Roma (dove la cerimonia è chiamata ‘scompro’) il dialogo rituale tra genitore e sacerdote si trasforma in una movimentata scena collettiva, che Del Monte definiva “farsa piuttosto sudicia” (CD, p. 52); il fenomeno meriterebbe invece di essere considerato con rispetto e studiato con attenzione. Il primo taglio di capelli al terzo anno di vita (Opshernish) è di recente introduzione e ancora limitato alle famiglie di osservanza o influenza chassidica.
Con la pubertà, a 13 anni i ragazzi e a 12 le ragazze, raggiungono la pienezza dei diritti e doveri nella società ebraica. L’antica consuetudine prevedeva una breve cerimonia religiosa e dei festeggiamenti per i soli uomini. Nello scorso secolo le comunità ebraiche riformate hanno istituito una cerimonia anche per le ragazze; l’uso è stato poi accettato, non senza polemiche (dirette soprattutto contro la pedissequa imitazione di modelli cristiani e una certa pompa), da alcune comunità ortodosse come quelle italiane. La consuetudine oggi è diffusa ovunque; in qualche luogo si usa farla collettivamente nella festa di Shavu’òth (la Pentecoste), e l’imitazione cristiana appare con maggiore evidenza; ben pochi comunque ne conoscono l’ofigine; è un esempio di uso introdotto dalle classi agiate, di riforma imposta ‘dall’alto’, ma che in breve è entrata nelle abitudini comuni (Siporin, 1984).
Usi matrimoniali. A necessaria garanzia della continuità del gruppo, un’antica consuetudine, solo da poco caduta in distiso, e neppure completamente, era quella dei matrimoni combinati, attività alla quale si dedicavano occasionalmente o sistematicamente volontari o ‘professionisti’. Fino a pochi anni fa a Roma la sera del Kippùr (il giorno solenne dell’Espiazione) si provvedeva persino al cosiddetto ‘imbussolamento’, la combinazione di coppie mediante estrazione a sorte. Un complesso cerimoniale riguardava i preparativi delle nozze. Era costante – e lo è rimasta fino ad oggi – la tendenza al lusso e allo sfarzo, che le autorità in passato cercavano di moderare, come documentano le ripetute disposizioni nelle “Pragmatiche” (vedi il paragrafo precedente L’abbigliamento). Si curava di scegliere come data un giorno nelle fasi di luna crescente (dM, 90), periodo di buon augurio. I due sabati prima delle nozze erano chiamati piccolo’ e ‘grande’ e destinati alla pubblica esposizione di doni e corredo (CD, p. 73); ritualizzati anche gli auguri alla sposa (CD, 32 e 88). Il matrimonio veniva illuminato da torce, di probabile significato magico- protettivo; a Pesaro e Modena l’originario intento veniva integrato da contenuti religiosi e nazionali, usando una lampada a sette braccia (Noy, 1972, col. 1397-1398); a Venezia erano dei ragazzi a portare le torce (dM, p. 91); a Roma la torcia è retta dal fratello dello sposo (o, in assenza, da un collaterale stretto) (DR, p. 60), e la sposa gli fa omaggio di un fazzoletto ricamato.
La morte e il lutto. L’antica prescrizione talmudica di versare tutta l’acqua attinta in casa, in occasione di un decesso, veniva giustificata dalla credenza che l’angelo della morte vi pulisse la sua spada (dM 118); ne è documentata la pratica recente (CD 67) e anche attuale, in cui si lascia scorrere l’acqua dai rubinetti (DR 63). Nella stanza dove giace il defunto si apre la finestra (anche perché l’anima possa uscire più facilmente) e si coprono gli specchi (uso di recente introduzione, cfr. Trachitemberg, 1970, p. 302). Diversi usi regolano lo svolgimento delle esequie (chiamate in giudaico-romanesco ‘accompagno% in una complessa sovrapposizione di influssi ed esigenze: a Roma ad esempio si usava, a scopo espiatorio, trascinare la bara sul selciato e poi farla cadere nella fossa, suscitando lo scherno e l’ironia dei cristiani che assistevano alla scena; tale pratica fu per questo abolita intorno al 1850 ffionfil, 1970, pp. 242-244). L’uso delle sette o nove fermate, citato da Leon da Modena (dM 120), è completamente scomparso. Persiste invece il rito mistico di circumambulazione della salma (Di Segni, 198 1, pp. 60~67). Le donne, almeno a Roma, un tempo non partecipavano ai funerali. L’omaggio floreale è di recente introduzione, e non è di origine ebraica. L’uso di abiti o segni neri, per lutto, è presente da secoli (dM 122), anche se non specificamente ebraico. Di notevole interesse è l’uso romano di apparecchiare la tavola in onore del defunto per quattro venerdì sera dopo il decesso, supponendone la presenza in visita (DR, p. 66); uso probabilmente collegato a una leggenda talmudica su un noto Maestro. E molto sentita la prescrizione religiosa di recitare, in onore e suffragio dei defunti, la preghiera del qaddìsh; è un rito che non sfugge talora a meccanizzazioni magiche e che in passato raggiungeva in Italia degli eccessi che i ritualisti attuali considerano paradigmaticamente negativi (Grunwald, 1973, pp. 371-372).
2. La Sinagoga e il calendario liturgico
In questo ultimo paragrafo, in aggiunta alle notizie già date sopra, si accennerà brevemente ad alcuni aspetti singoli e caratteristici di una realtà complessa. Un elemento tipico della Sinagoga italiana è l’uso di scialli di preghiera in seta, bianchi a strisce trasversali azzurre, di produzione locale; da qualche anno la produzione semiartigianale è finita e quindi il numero di questi scialli è in continua diminuzione. Si conservano gelosamente scialli pregiati di famiglia con accurati ricami, utilizzati per speciali occasioni festive. Scialli più piccoli si usano per i bambini, mentre per la circoncisione le famiglie ne conservano uno molto piccolo ricamato. Nei giorni di festa, durante la benedizione sacerdotale, i gruppi familiari si raccolgono sotto lo scialle portato dal più anziano della famiglia: scena tipica, che ha avuto anche descrizioni letterarie recenti, come ne Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani (1962, p. 43). Come nel resto della preghiera, anche durante la benedizione sacerdotale le donne rimangono separate dagli uomini; talora durante la lettura della formula, le donne che non hanno i figli accanto a sé mantengono ugualmente le mani tese in atto benedicente. Nel periodo mestruale le donne evitano di recarsi in Sinagoga, o almeno di compiere un atto che generalmente è affidato al pubblico femminile, quello di riavvolgere la fascia che copre i rotoli manoscritti del Pentateuco. Il rispetto per questi rotoli impone particolari cautele; massima attenzione deve essere posta per impedirne la caduta durante il trasporto, evento che non solo impone un digiuno rituale, ma che viene considerato di cattivo augurio. In un caso molto più particolare, si impone cautela nella conservazione in Sinagoga, per un intero anno, dell’azzima che all’inizio della Pasqua viene usata per una-particolare funzione rituale, l’Erùv; secondo una credenza locale chi la spezza muore entro l’anno; fonti autorevoli mi hanno riferito due casi in cui il fatto (rottura dell’azzima e morte) si è effettivamente verificato.
La vigilia del Sabato era il giorno in cui i poveri facevano la questua girando per le case (dM 30); un uso venuto a mancare anche per le moderne forme di assistenza sociale comunitaria. Al tempo dei ghetti l’inizio del sabato qbraico (al tramonto del venerdì) veniva annunciato da un suonatore (dM, p. 58; Boccato, 1979); l’uso si è completamente perso per la dispersione urbana . Nelle case si accendeva una lampada speciale, a olio, tonda, “con quattro o sei lucignoli” (dM 59), o anche di più; illustrazioni medioevali la mostrano identica a quelle che molte famiglie ancora possiedono, ma che di solito non usano più a scopo rituale, preferendo ormai i candelabri con le candele steariche, di recente influsso ashkenazita . Il venerdì sera, al ritorno dalla preghiera pubblica, il padre benedice i figli (dM 59).
Qualche giorno prima del Capodanno (che cade a settembre) si mettono a germogliare dei chicchi di grano, granturco e legumi; le piantine si conservano sino alla fine del ciclo delle feste autunnali (DR, p. 37). E un uso di lontane origini non ebraiche, reperibile anche nel folklore italiano non ebraico, in genere in primavera; nell’ebraismo è documentato alla fine dell’XI secolo, con alcune varianti: si piantano legumi su foglie di palma e le piantine si fanno girare intorno al capo, per trasmissione liberatoria della colpa. Successivamente questo rito è stato completamente soppiantato da quello delle kapparòth, nel quale, allo stesso scopo, si fanno girare intorno al capo dei galli e delle galline (Trachtemberg, 1970, pp. 163-165). Le kapparòth si facevano anche in Italia – ma non ovunque (dM 75) -, almeno fino all’inizio del secolo, e probabilmente la loro introduzione ha ridimensionato l’uso delle piantine, che comunque è sopravvissuto fino ad oggi in forma ridotta. In altre comunità si spargono sulla tavola dei chicchi di grano. Per dieci giorni, dall’inizio dell’anno fino al Kippùr, il giorno dell’Espiazione, in applicazione estensiva di una regola codificata, ci si astiene da cibi acidi e dal limone, per simbolico e augurale rifiuto dell’asprezza (DR, p. 36). Alla vigilia del digiuno di Kippùr, un uso di origine sefardita e di significato non ben definito, probabilmente protettivo, è di fare con un impasto di acqua e farina una figura di mano aperta, chiamata la “manina del malàkh” [dell’angelo], e di lasciarla sulla tavola, che viene apparecchiata con cura, anche se non vi si mangia (qualcuno riferisce che è in onore di angeli e parenti defunti che vengono in visita). Alla fine del Kippùr, dopo la cena, l’uso romano è di compiere “visite” a famiglie vicine (DR 41).
La notte del settimo giorno di Sukkòth, l’uso sefardita è di organizzare una veglia di studio; nella pratica, a Roma, è una riunione breve di studio e preghiera in una casa del ghetto, al termine della quale sono serviti dei cibi stabiliti (DR, p. 42); al mattino, la partecipazione abitualmente notevole ai riti sinagogali di folla festante che agita rami di salice ripropone in forma unica lo spirito della grande festa del Santuario di Gerusalemme, descritta nella Mislinà (Sukkòth, cap. V). La festa immediatamente successiva di Simchàt Torà si distingue per la cerimonia solenne dei giri dei rotoli della Bibbia, che i mistici introdussero nel XVI secolo, e che ogni comunità compie con un suo stile particolare (Di Segni, 1981, pp. 53-56); in questa occasione ogni Sinagoga conferisce a due persone l’onore della lettura finale e iniziale del ciclo di lettura annuale del Pentateuco; Crescenzo Del Monte ha lasciato descrizioni ironiche dell’esibizionismo e dei comportamenti vanitosi delle mogli dei prescelti (CD 34). Durante la lettura della storia biblica di Ester, nel corso della festa di Purìm, il nome del persecutore Hamàn viene salutato dai clamori dei bambin, presenti; uso diffuso in passato (dM 85), poi attenuatosi per il perbenismo ufficiale dell’ebraismo emancipato, e ora lentamente ricomparso. Sempre i bambini, a Purìm giocavano alla “rottura della pila” (CD 95). In molte comunità italiane il ricordo di speciali avvenimenti fausti e di liberazioni miracolose ha portato all’istituzione di Purìm locali, che continuano ad essere ricordati, ma ormai soltanto a livello liturgico sinagogale.
Alla fine della cena della Pasqua, l’azzima che dovrebbe essere consumata come ultimo alimento (afiqòmen), viene invece gelosamente conservata a Roma, come un segno di buon augurio, e chiamata ‘azzima del guadagno’ (DR, p. 22). Senipre a Roma, finita la festa, si conserva un pacco di azzime di scorta, una sorta di assicurazione nell’eventualità che cause contingenti impediscano di produrle l’anno successivo (DR, p. 25). La resta di Shavu’òth (Pentecoste, festa della promulgazione del decalogo) è chiamata Pasqua Rose (Nahon, 1968, p. 45 1); in quest’occasione le Sinagoglie italiane venivano addobbate con ghirlande e festoni floreali, usando principalmpnte le rose (dM 71); poi sono stati impiegati tutti i fiori. A la festa in cui si mangiano fragole e ciliege; i bambini si appendono coppie di ciliege alle orecchie: un gioco comune, ma che viene in questa occasione riferito alle due tavole della legge (DR, p. 28). Nei giorni di Capomese (corrispondenti alla luna nuova) le donne si astengono, per sottolinearne il carattere festivo, da lavori di cucito (DR, p. 18).
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Ringraziamenti. Sono grato al proressor Alfonso M. di Nola per chiarimenti metodologici preliminari; al dottor Roberto Milano per una segnalazione sul problema delle tradizioni culinarie; a Emanuele Pacifici per collaborazione bibliogratica; alla professoressa Anna Foa, che ha letto e commentato il saggio; a Susanna e Gabriele che mi hanno segnalato il loro “Giornalino”.
Note
1 Sull’Italia un utile primo inquadramento, ma solo generico e non focalizzato sul folklore, è nella ‘classica’ storia di Milano 1963, in particolare nel capitolo su ‘La famiglia – vita privata’ (pp. 552- 584). Per inquadramenti generali sul folklore ebraico, dopo le opere classiche di Grunwald e Gaster, cfr. Noy, 1972, con bibliografia fondamentale e Scheiber, 1980; importante per gli aspetti recenti nello Stato di Israele, Desben-Shokeid, 1984; indispensabili strumenti di aggiornamento bibliografico le rubriche dell’Index of Articles on Jewish Studies (X1 – Jewish cultura] life-Folklore) e di Kiryal Sefer (16-Effinography, Folklore, Art).
2 Per alcuni spunti sull’argomento cfr. Canepa, 1978, Boiteaux, 1976, A. Colombo, 1979. in ogni caso comunque si inipone una estrema cautela interpretativa- ad esempio, non si può più affermare liberamente, senza fornire adeguati sostegni, che la “carta musica’ della Sardegna derivi dal pane azzimo ebraico, come faceva Cesare Medina intorno al 1870 (Medina, 1935).
3 Il calcolo si può fare valutando grossolanamente i dati dei matrimoni misti e delle conversioni in questo secolo. Per un inquadramento generale del problema cfr. Della Pergola, 1976, pp. 3-37 e 1971, pp. 76-80.
4 Un primo gruppo, già emigrato in Belgio, si è apertamente dichiarato di origini ebraiche nel 1970; ha accettato la conversione rabbinica ed è emigrato in Israele (Di Segni, 1970); in seguito altri gruppi hanno riaffermato le lontane origini ebraiche e hanno stabilito rapporti con le organizzazioni comunitarie ufficiali. Questi gruppi presentano comportanienti di indubbio interesse (onomastica; endogamia; per alcuni la circoncisione; usi della sera di venerdì – l’inizio del sabato clirlico -: accensione di luci particolari, oppure la frequentazione dell’osteria, dove però non consumano).
5 Comunicazione del professor Michele Luzzati.
6 Un esempio isolato in questo senso proviene dall’ambito delle preghiere private – un settore ancora tutto da studiare -, dove merita particolare menzione un testo in lingua ebraica di Cortemaggiore, del 1870, pubblicato da Ariel Toaff (1973), nel quale si invoca alla vigilia della visita medica per il servizio di leva, l’esenzione dall’arruolamento: caso notevole, in epoca di dichiarato patriottismo ufficiale, di qualche resistenza e opposizione.
7 Da questa situazione è nata una complicata questione scientifica, volta a chiarire una ipotesi formulata inizialmente da Cassuto, per il quale sarebbe esistito un vero e proprio dialetto unitario degli ebrei italiani, formatosi tra il XIII e il XIV secolo nell’italia centro-meridionale e da qui espanso in altre regioni e quindi adattatosi sulla parlata locale. L’ipotesi unitaria ha avuto sostenitori e detrattori, e più di recente una proposta di superamento della controversia che suggerisce di parlare di “varietà del giudeo-italiano socio-linguisticamente inteso”; cfr. Cuomo, 1983, p. 436; in calce a quest’articolo (pp. 451-454) un’ampia bibliografia aggiornata. A questa bibliografia vanno aggiunti: P. Levi, 1975, M. Modena, 1978, Diena, 1984.
8 Così come si è completamente interrotta la tradizione di scrittura dell’ebraico con caratteri corsivi di tipo italiano, completamente sostituiti dal tipo in uso nello Stato d’Israele, a sua volta di origine ashkenazita, cfr. Di Segni, 1984.
9 Come la storia dei due ebrei appena convertiti, la cui scarsa convinzione è provata dal fatto che mentre attendono, nell’anticamera papale, un’udienza richiesta, si preoccupano che il ritardo non consenta loro di recitare in tempo la preghiera ebraica pomeridiana; o la scena dell’ebreo moribondo che chiama al capezzale tutta la famiglia, ma poi si preoccupa che il negozio rimanga incustodito – riportata poi in un sonetto da C. Del Monte del 1929 – CD, p. 179, ma tuttora circolante anche tra non ebrei.
10 La festa ebraica, che dura un solo giorno, cade in un periodo che di solito coincide con quello del Carnevale, a cui somiglia in Italia per qualche aspetto di festeggiamento. A Livorno PuHm veniva quindi chiamato Carnevale o Carnovale dagli ebrei, così come la festa invernale delle luci, Chanukkà, era chiamata Candelora (Alfredo Toaff, 1960, p. 160, nota A).
11 Come “la cavalleria de Picciachò” CD, p. 19; “Piove pioverella / La gatta và in Zavella”, p. 57; “Cucchereccù e babberabbà / Dio, Dio, chi chhènne che cià” p. 106.
12 Bachi, 1929, pp. 32-35; Diena, 1958, pp. 238-243; Milano, 1964, pp. 448-470; Colorni, 1970, pp. 149-150; Terracini, 1962; Fortis-Zolli, 1979 ecc.
13 Ne parla anche G.G. Belli in un sonetto del 1830: “Ma adesso, prima de passacce sotto, se farlano ferrà dar maniscarco” (Campo Vaccino III, a p. 122 dell’ed. del 1964).
14 Nella risposta a Gaffarel, ripubblicata in RMI (VII), 1932, p. 302.
15 Comunica zione personale del dottor Roberto Milano, che ha derivato il dato dal confronto sistematico di un ricettario in poesia di Crescenzo Del Monte Culinaria Romana Ebraica, con quello de La Lozana Andalusa, di Francesco Delicado, Venezia 1528, trad. il. di L. Orioli. Milano 1970.
16 Un curioso esempio di integrazione tra cucina e rito è la denominazione romana di un canto liturgico pasquale, letto alla fine della preghiera del mattino, e che viene chiamato “Le pizzarelle”, come il dolce tipico della Pasqua (DR 24), probabilmente perché lo si consumava proprio al ritorno a casa dalla preghiera.
17 Alcuni esempi in Scazzocchio, 1970, p. 123, Piperno, 1983 e 1984, diffusamente*, una raccolta romana inedita è conservata nella biblioteca di Emanuele Pacifici.
18 Rashi in Talmùd Babilonese, Shabbàth 81b.