Ancora un articolo tratto dalla rivista Emor: comportarsi in maniera “Kashèr” anche verso il prossimo.
Rabbi Avi Gisser – Estratto da Ma’aglei Tzedek cheshvàn 5766
Nel cinquantesimo anniversario della morte di Rav Salanter, Rav Kook ha descritto la personalità e la visione del mondo del fondatore del movimento chiamato Mussar, il quale dedicò la sua vita allo sviluppo di una cura per le afflizioni spirituali di tutti i livelli della società.
(…)
Attraverso il Mussar e la sua fiamma, che eleva l’anima, bisognerebbe dare grande preminenza alla giustizia sociale e ascrivere importanza alle responsa-bilità e ai comandamenti (che regolano la condotta) fra una persona e l’altra.
(…)
Secondo Rav Kook quello di cui la nostra generazione ha bisogno, soprattutto adesso, è aggiungere carburante alla grande fiammata di giustizia sociale che scaturisce da un profondo timore di Dio. Tre aneddoti tratti dalla vita di Rav Salanter lo dimostrano.
(…)
[Qui ne riportiamo uno solo]
Un giorno Rav Salanter era ospite di un uomo molto abbiente. Nell’eseguire il rito del lavaggio delle mani prima del pasto usò una quantità d’acqua limitata. Gli fu chiesto: “Non è scritto nella Torà che è degno di lode il lavarsi con molta acqua?” Rispose: “Posso comportarmi così soltanto in casa mia. Qua, invece, devo tenere in considerazione le esigenze del servitore che deve trasportare i secchi d’acqua”. Inoltre, quando interveniva a grandi cene formali, Rav Salanter si preoccupava di finire velocemente di mangiare in considerazione dei camerieri e di tutti gli altri lavoratori che dovevano attendere la fine del pasto per tornare a casa.
«La giustizia, la giustizia dovrai perseguire, affinché tu possa vivere sulla Terra ed ereditarla» (Devarìm 16, 20). Il possesso ereditario della Terra, la nostra esistenza e la qualità della nostra vita in essa – come società, Stato, comunità – sono inequivocabilmente dipendenti dal grado di giustizia sociale nella nostra comunità. In questo verso vediamo che c’è una connessione esistenziale tra il nostro futuro come Stato e le norme sociali, morali e giuridiche della nostra società.
La parola tzedek, giustizia, appare due volte non solo a scopo enfatico, ma anche per insegnarci che la stessa ricerca della giustizia dev’essere giusta.
(…)
Ricercare la giustizia in una maniera che sia giusta significa instaurare una società caratterizzata non solo dalla giustizia ma anche dalla compassione; non solo dalla lettera bensì anche dallo spirito implicito della legge. I nostri saggi hanno detto: «Gerusalemme è stata distrutta perché la gente che viveva a quel tempo seguiva le leggi della Torà». Il Talmùd chiede: questo non è for-se degno di lode?” e si risponde: «No, non lo è. Poiché gli abitanti di Gerusalemme limitarono il loro comportamento e i loro decreti legali alle leggi esplicite della Torà e non andarono oltre la lettera della legge la città fu distrutta» (Bavà Metzià 30b).
Oltre alla legge stessa, bisogna istituire un sistema di tzèdek, o giustizia, basato sulla morale sociale, in grado di rafforzare il debole, provvedere al suo sostentamento e alla previdenza sociale e garantire un minimo tenore di vita.
Pervenire alla giustizia con giustizia significa erogare dei servizi basati su una stima dei bisogni esaustiva e sensibile, in maniera tale da venire continuamente incontro ai bisogni del debole; è un sistema di assistenza basato sulla giustizia piuttosto che su una saltuaria benevolenza o carità.
(…)
La massima talmudica «Obblighiamo la gente ad astenersi dall’agire come gli abitanti di Sodoma» (Bavà Batrà 12b) è un altro paradigma sviluppato dai nostri saggi allo scopo di rafforzare la giustizia sociale e la solidarietà umana. Questo insegnamento è basato sulla visione ebraica del conflitto esistenziale tra Sodoma e Gerusalemme. Quest’ultima è una città di giustizia «che era piena di rettitudine, in cui dimorava il diritto» (Yeshayàhu 1, 21). Nelle parole del profeta, «Siòn sarà redenta con la giustizia e coloro che vi faranno ritorno con la rettitudine» (Yeshayàhu 1, 27). In contrapposizione si pone la città di Sodoma, i cui abitanti erano peccatori interessati solo alla loro proprietà privata e in cui i poveri non varcavano mai la soglia delle case per ricevere ele-mosine. Sodoma era il regno della legalità, dove tutto era basato sul diritto stabilito a norma di legge. C’erano leggi contro gli ospiti, contro i viaggiatori, c’era una legge che proibiva di aiutare gli estranei etc. Tutte queste leggi erano velate dalla sottile copertura della razionalità e di una pseudo-giustizia.
Sodoma era una prospera città-stato. Come vediamo nel libro della Genesi, prima della distruzione di Sodoma, Lot solleva gli occhi e vede «com’era ben irrigata l’intera pianura del Giordano» (Bereshìt 13, 10) e di conseguenza sce-glie di vivere a Sodoma. Non c’è dubbio che Lot ricevette cittadinanza grazie al suo ingente patrimonio e alla sua abilità nel dimostrarsi in grado di contribuire al benessere economico della città. Ma Sodoma non tollerava parassiti ca-renti di abilità. Né avrebbe accettato dei poveri, che cercassero di trarre bene-ficio dalla prosperità della città senza dare niente in cambio. Gli abitanti di Sodoma non erano disposti a permettere nemmeno temporaneamente il soggiorno di tali visitatori. L’accusa più frequente mossa a Lot proviene, ovviamente, dall’arena giuridica: «È arrivato qui per soggiornarvi temporanea-mente e pretende già di dettar legge!» (Bereshìt 19, 9).
Lot era un pericoloso sovversivo; accogliendo degli ospiti si fece giustizia da solo. [Tuttavia il desti-no di Sodoma fu che] Sodoma fu sconfitta in guerra contro le città vicine; tutte le sue proprietà furono saccheggiate e i suoi uomini migliori furono catturati.
In Bereshìt 14 impariamo i principi di etica e giustizia in una società così co-me ci vengono insegnati dal nostro patriarca Abramo. «Quando Abramo ap-prese che suo fratello (Lot) era stato fatto prigioniero» (Bereshìt 14, 14), ci viene detto che egli si sente in dovere di prendersi cura del suo parente, nonostante Lot avesse preferito allontanarsi da Abramo a causa di inconciliabili differenze culturali. Come risultato di questo impegno, Abramo entra in guerra per redimere Lot da prigionia e schiavitù. Quando Abramo ritorna vincitore, adorno di lodi, proprietà e schiavi, si ferma al bivio tra Sodoma e Ge-rusalemme. Malkitzèdek, re di Gerusalemme – la città della giustizia – gli va incontro per accoglierlo e lo benedice in nome del «Dio supremo, Creatore dei cieli e della terra» (Bereshìt 14, 19). Questo Dio, cui appartiene tutto ciò che vi è nel mondo, benedice Abramo con beni guadagnati in maniera giusta, se-condo le leggi di guerra. Anche il re di Sodoma si fa incontro ad Abramo e gli propone un affare: persone in cambio di beni. Suggerisce che Abramo prenda il bottino e gli ceda i prigionieri catturati in guerra. Abramo risponde: «Ho giurato al Signore, il Dio supremo, padrone del cielo e della terra, che non prenderò un filo, o un laccio da scarpe, o qualsiasi altra cosa che ti apparten-ga, affinché tu non dica: io ho arricchito Abramo» (Bereshìt 14, 22-23). A-bramo dimostra così che non potrebbe perdonarsi se accettasse quest’offerta e non vuole che nessuno al mondo possa sostenere che si è arricchito con dena-ro intriso di sangue di poveri e grida di schiavi oppressi; denaro che proviene dallo sfruttamento dei lavoratori e da leggi draconiche e discriminatorie.
Qui Abramo stabilisce uno standard etico alto e ben distinto a cui si può far risalire un codice della legge ebraica che regoli la conduzione dei commerci con nazioni straniere i cui sistemi economici sono basati sull’oppressione e la negazione dei diritti umani. Dal passaggio biblico impariamo che è proibito ricavare un profitto a spese di altri. Dopo la distruzione di Sodoma, Abramo non chiede niente per se stesso, ma solo «Ciò che hanno mangiato i giovani servi» (Bereshìt 14, 24); d’altro canto però Abramo non vuole imporre ad altri la sua morale, e prosegue: «Ma la parte di bottino degli uomini che mi hanno seguito – Aner, Eshkol e Mamre – lascia che prendano la loro parte.» Gli uomini che avevano combattuto e rischiato la vita in battaglia erano autorizzati a prendere la loro porzione di bottino secondo le leggi di guerra. Qui la decisio-ne di Abramo serve da avvertimento morale contro un eccessivo idealismo. Talvolta anche leaders dotati di senso etico e sensibilità possono – nelle loro battaglie in favore di un principio – togliere, inintenzionalmente, il pane a un affamato. Ad esempio, ci sono persone che si guadagnano da vivere come operai sfruttati; se le proteste si risolvono nella chiusura delle loro fabbriche, tali persone vengono lasciate alla fame. Per questo motivo ci viene insegnato: «Muovi guerra con strategia» (Mishlè 24, 6).
(…)
La grande innovazione del nostro tempo è l’avvento della giustizia sociale come politica sociale, nazionale ed economica. Nel corso delle generazioni, atti di carità sono sempre stati compiuti nelle comunità ebraiche di tutto il mondo, le quali avevano cassette per le offerte, mense per i poveri e diffusi sistemi di assistenza sociale. Come scrive il Maimonide nella sua esposizione delle leggi sulla carità, «Non abbiamo mai sentito o visto una comunità ebraica che manchi di un fondo comunitario di carità». L’obbligo di dare carità è chiaro e onnicomprensivo. E’ descritto in dettaglio nella Torà, ribadito dai Profeti, enfatizzato dalle Scritture e attraverso tutta la tradizione orale. Oggigiorno molte imprese commerciali e comunità in Israele sono paradigmi di un dare caritatevole. Ma questo tipo di tzedakà, il modello più classico, si occupa principalmente di poveri la cui situazione è talmente disperata che sono obbligati a mendicare. Ogni rabbino e ogni comunità conoscono persone indigenti che mendicano di porta in porta e richiedono fondi per spese varie, che vanno dalla dote per sposare le figlie a trattamenti medici e interventi chirurgici. Ciò che viene qui propugnato, al contrario, è un approccio sistematico alla giustizia sociale che dispensa giustizia e compassione a tutto il popolo d’Israele, provvedendo ai loro bisogni proattivamente e in maniera comprensiva prima che cadano in povertà.
Il moderno Stato sociale si distingue non per la diretta distribuzione della carità ai poveri, ma per politiche intese allo scopo di servire i bisogni di tutti i cittadini e impedire loro di cadere in povertà. Questo approccio alla giustizia sociale richiede un’ampia rete di sicurezza sociale, con assistenza da parte del governo per assicurare posti di lavoro, alloggi, salari di sussistenza, sanità adeguata, istruzione e una giusta distribuzione delle risorse per andare incontro a tutti i bisogni umani primari.
La differenza essenziale fra tzèdek, giustizia, e tzedakà, carità, può essere individuata nello status di colui che riceve. La tzedakà è un obbligo che incombe su ogni ebreo. Anche un ebreo povero è obbligato a dare tzedakà. Ma la legge religiosa non conferisce uno status di bisognoso che possa autorizzare gli individui a ricevere fondi o obbligare altri a dar loro carità. Mentre è vero che se un povero porta di fronte al bet din, tribunale ebraico, le istituzioni di carità della sua città con l’accusa di discriminarlo e il bet din gli assegna del denaro, lo status di questa persona resta quello di un mendicante che dev’essere grato ai suoi benefattori per qualsiasi cosa riceva, al contrario, tzèdek chevratì, giustizia sociale, enfatizza i diritti fondamentali dell’individuo e si propone come obiettivo di assicurare che i poveri non siano in una posizione disperata. Isti-tuendo sistemi che garantiscano a tutti il diritto a un salario equo, alloggio adeguato, istruzione, sanità e impiego operiamo il più alto livello di tzedakà. Poniamo gli individui in condizione di guadagnare abbastanza da condurre una vita dignitosa, li salviamo dal degrado e permettiamo loro di mantenere il rispetto di sé stessi e dei loro figli.
Proteggere la dignità e lo status di una persona è il più grande atto di generosità possibile. «Rabbì Shim’òn ben Lakìsh disse: chi impresta al suo prossimo è più grande di colui che dà carità, e chi inizia un’impresa commerciale con una persona bisognosa è più grande degli altri due [perché evita di imbarazzare colui che riceve]» (TB Shabbàt 63a). L’imprenditore che investe in società con altri crea mezzi di sussistenza per tutti. A un livello nazionale, questo modello di impegno sociale implicherebbe una giusta distribuzione delle risorse e la creazione di posti di lavoro per tutti. La tzedakà conduce la persona alla dipendenza e riduce la sua fiducia in sé stessa; una politica di tzèdek, responsabilità sociale e diritti, al contrario, dà dignità a tutti i membri della società.
(…)
[Oggi] La maggioranza degli abitanti di Israele gode di una qualità della vita senza precedenti, che i loro umili e modesti antenati non sarebbero neanche stati in grado di immaginare. Ma a questa realtà si accompagna un obbligo ancora maggiore.
Le differenze economiche e sociali in Israele hanno raggiunto dimensioni preoccupanti. Diseguaglianze significative in termini di reddito e di patrimo-nio smentiscono i nostri ideali sociali di giustizia sociale per tutti. L’alto tasso di disoccupazione e i tagli ai servizi sociali creano difficoltà in ampi (e cre-scenti) segmenti della popolazione.
Vorrei dare un suggerimento pratico: sulla base di doveri etici radicati nei valori sociali della Torà, propongo di agire in un’area con la quale tutti noi veniamo regolarmente in contatto. Grazie alla benedizione di Dio, tutti noi abbiamo opportunità di organizzare e svolgere un ruolo in celebrazioni familiari ed eventi comunitari. In questo campo c’è un ampio margine di opportunità di attivismo sociale.
Sale e servizi di catering impiegano molti lavoratori, come cuochi, lavapiatti, camerieri e addetti alle pulizie; talvolta impiegano anche lavoratori stranieri.
Dati raccolti da organizzazioni che si occupano di problemi sociali dimostrano che vi sono numerosi casi di sfruttamento di lavoratori e violazioni delle leggi sul lavoro da parte di tali stabilimenti. Alcune sale assumono camerieri mino-renni (è illegale impiegare individui minori di sedici anni o che non siano an-cora al secondo anno si scuola media superiore), mentre altri impiegano la-voratori maggiorenni ma li pagano al di sotto del minimo sindacale. In cucine, sale per eventi e bar di tutto Israele si lavora in condizioni che non garanti-scono nessuna sicurezza e inaccettabili. Ogni volta che assaporiamo il piacere che ci deriva dal trattare un buon prezzo quando prenotiamo un luogo per un evento, vale la pena di chiederci come è mai possibile che questi servizi ci vengano resi a prezzi così bassi e chi ne paga le spese.
Non credo che rabbini, chi ospita un evento e certamente non gli ospiti possano davvero raddrizzare questo tipo di ingiustizie o agire come poliziotti o ispettori del lavoro; Ma tutti noi abbiamo un ruolo da giocare nello svegliare le coscienze e creare un apparato di leggi civili. Proprio allo stesso modo in cui ci preoccupiamo dei dettagli concernenti la kashrùt del cibo che introduciamo nelle nostre bocche, dobbiamo esaminare anche la kashrùt di come il cibo ar-riva sulle nostre tavole.
(…)
Per essere una nazione santa dobbiamo aspirare ad essere seguaci del Rabbi Israel Salanter e del Chafètz Chayìm non soltanto a proposito della carne glatt kasher, ma anche nei riguardi di un comportamento glatt kasher. Questo comprende anche leggi quali: «Non lo dominerai [il tuo schiavo] con asprez-za» (Vayikrà 25, 43), «Aprirai la mano per il tuo fratello povero e per colui che ha bisogno del tuo aiuto» (Devarìm 15, 11), «Non sfruttare un lavoratore bisognoso e indigente» (Devarìm 24, 14), «Paga al lavoratore il suo salario il giorno stesso» (Devarìm 24, 15) e le miriadi di leggi che derivano dal princi-pio della Torà «Ama il tuo prossimo come te stesso» (Vayikrà 19, 18).
(…)
Ponendo determinate domande al proprietario di una sala per eventi, al responsabile della ristorazione e ai suoi fornitori possiamo iniziare a stimolre consapevolezza e a motivare una nuova kashrùt sociale che non è ancora mai stata in vigore nella nostra società. Possiamo perfino immaginare una realtà nella quale, un giorno, accanto alla certificazione che attesta la kashrùt del cibo in un determinato esercizio ci sarà anche un certificato o un marchio che attesti la kashrùt sociale di chi fornisce il servizio. A questo punto saremo in grado di dire: «Un redentore è giunto a Sion» (Yeshàyahu 59, 20).
Il nostro sogno e la nostra speranza è che, mentre la visione del ritorno a Sion si dispiega davanti ai nostri occhi, il moderno Stato di Israele non sia soltanto un sicuro rifugio per il popolo ebraico, ma anche la sede di una società ebraica unica e basata sul tikkùn ‘olàm, il riparare il mondo. L’impegno sociale e la realizzazione del principio del tzèdek sono temi centrali nel sogno sionista e una pietra miliare per il futuro dello Stato di Israele. Con le parole del nostro inno nazionale, “non abbiamo ancora perso la nostra speranza”, e l’urgenza della nostra missione aumenta ogni giorno. In nome dell’identità spirituale e del futuro di Israele, dobbiamo iniziare ad agire oggi. «Tu sorgerai, avrai pietà di Sion, perché è venuto il momento di farle grazia, perché ne è venuto il tempo» (Tehillìm 102, 14).
Traduzione di Miriam Camerini