Tempio di via Eupili – Milano
«L’olocausto resterà sull’altare tutta la notte e il fuoco vi durerà (Vayikrà 6,2)». I commentatori hassidici notano che “in esso” – tukad bo – si può leggere “in lui”. Il fuoco deve essere nel Sacerdote; deve essere riempito del desiderio ardente di servire D-o. Il fuoco da accendere è un esh tamid, un fuoco perpetuo, deve essere bruciato sull’altare e non si spegnerà (ibid., 6:6).
La parola tamid ha una curiosa ambiguità. In Shemot 27:20 leggiamo del ner tamid, la luce eterna, come anche in Vayikrà 24:2. In entrambi i casi non si dice che brucerà sempre, ma piuttosto “dalla sera al mattino”. Alcune traduzioni quindi lo rendono come una “luce regolarmente accesa”. Tamid può significare sia “per sempre” che “regolarmente”. Questo doppio significato è parte del segreto della sopravvivenza ebraica. Il Bet haMikdash doveva essere tamid, per sempre, eppure è stato distrutto. Come manteniamo quindi vivi i suoi messaggi? Attraverso il rituale, che viene eseguito regolarmente, rinnovato ogni giorno. In un mondo imperfetto, l’unico modo per conservare qualcosa per sempre è tornarci periodicamente. L’ebraismo non è una tradizione stazionaria, richiede un rinnovamento costante. Consideriamo il moderno ner tamid stesso. In ogni Tempio c’è un ner tamid, una luce eterna, che pende sopra l’Aron. Quando quel Tempio, o quella città, non ci sarà più, la luce si spegnerà. Potremmo concludere che l’appellativo “tamid” è errato, e tutta la luce è per sua stessa natura temporanea.
Eppure le candele dello Shabbat sono state accese silenziosamente, regolarmente, per migliaia di anni. In un certo senso sono le luci eterne del popolo ebraico. È nella ripetizione, nella regolarità, che manteniamo vivi sia la memoria che il significato. La lezione della Torà è la lezione del Tamid, fare qualcosa ancora e ancora, creare abitudini sacre per fare perdurare il significato di ciò che facciamo.
Tornando al Sommo Sacerdote, l’imperativo che sia acceso di entusiasmo religioso è qualcosa che non può essere vero in ogni momento. Ci sono momenti nella vita in cui è più difficile essere entusiasti. La personalità religiosa è qualcuno che ha una spia all’interno che può essere continuamente accesa in una fiamma. Quello che è richiesto in realtà ad ognuno è che ci sia in noi sia il fuoco che la cura del fuoco stesso. Quando Moshè si avvicina al roveto ardente, vede un fuoco che non consuma. È un insegnamento che una vita vissuta esclusivamente sul piano della passione è fugace e distruttiva. Dobbiamo sì avere la fiamma del desiderio e dell’entusiasmo ma anche tenerla sotto controllo, fare in modo che non ci consumi. Gli ebrei sono il popolo del ner tamid, la fiamma sempre rinnovabile. Ci sono stati momenti nella nostra storia in cui questa fiamma tremolava e sembrava in pericolo di spegnersi. Il Midrash ci insegna che la fiamma sull’Altare somiglia a un leone accovacciato ed era miracolosa nel fatto che anche quando l’Altare era coperto con il suo telo protettivo, mentre veniva trasportato nel deserto, la fiamma non si spegneva né bruciava il telo. Questa miracolosa fiamma permanente è un ulteriore simbolo della presenza eterna di D-o, ma anche il simbolo della luce della Torà e del calore che la vita ebraica tradizionale rappresenta. Re Shelomò in Shir Hashirim scrive: “[Anche] le grandi acque non possono spegnere [il fuoco dell’amore]” di D-o.
I Kohanim erano responsabili del mantenimento del fuoco eterno nel Bet haMikdash. Oggi siamo tutti responsabili della conservazione di quella fiamma eterna all’interno delle nostre famiglie e delle nostre comunità. Non c’è dubbio che siamo stati aiutati in questo compito, e che continuiamo ad esserlo, da D-o che ha sempre alimentato quella fiamma eterna, ma l’aiuto del Cielo non diminuisce in alcun modo la nostra responsabilità verso la conservazione di quella fiamma. I Rabbini del Talmud molto tempo fa ci hanno ammonito che è vietato fare affidamento sui miracoli per salvarci e per preservarci. È la nostra tenacia e attaccamento alla tradizione e alla Torà che crea i miracoli, per così dire, che garantiscono la nostra sopravvivenza, creatività e vitalità continue. La nostra fede e la nostra storia ci insegnano, tuttavia, che anche nei momenti in cui il bagliore sembra fioco o il giorno è buio, la luce risplenderà di nuovo. La fiamma eterna marcia con noi attraverso tutta la nostra storia e ha la grande qualità di riscaldarci e confortarci e tuttavia non ci brucia né si estingue. La Torà ci avverte enfaticamente “lo tichbè” – non permettere che quel fuoco si spenga. Lo studio, l’educazione alla Torà, l’osservanza delle mitzvot, il comportamento morale, atti di gentilezza verso il prossimo e una visione ottimistica sono tutti i mezzi per preservare questo fuoco e non permettere che si spenga.
In un mondo che a causa di quel che accade a noi e accanto a noi può portarci ad un senso di oscurità e disperazione, la fiamma del leone accovacciato della tradizione ebraica illumina la nostra strada verso un futuro migliore e un presente più significativo. Il nostro successo nel preservare questa fiamma e nel trasmetterla alle generazioni future è la vera sfida della nostra generazione. La luce è presente anche quando sembra in realà non esserci e in noi abbiamo le forze per superare l’oscurità e per trovare la luce e la speranza anche quando è fioca. Sono queste le vere sfide che affrontiamo ogni giorno, ma non siamo soli ad affrontarle. Nell’affrontarle dobbiamo essere consapevoli che la fiamma ci accompagna e non si spegne mai.