Tratto da “Il Talmud – A cura di Abraham Cohen”, Laterza 1999
Forse l’esempio più significativo del modo in cui i Dottori svilupparono un comandamento della Bibbia, è quello fornito dal Shabbath. Mentre la Scrittura formula semplicemente la legge generale che nessuna specie di lavoro si può compiere in quel giorno, un intero trattato talmudico è consacrato allo studio di ciò che costituisce o meno una violazione del Shabbath.
I lavori proibiti sono classificati in trentanove capi: «Seminare, arare, mietere, legare i covoni, trebbiare, vagliare, scegliere, macinare, ventilare, impastare, cuocere; tosare la lana, imbiancarla, cardarla, tingerla, tessere, ordire, fare due fili, intrecciare due fili, separare due fili (di una corda), annodare, sciogliere, cucire due punti, strappare (il filo) per cucire due punti; cacciare il cervo, ucciderlo, scuoiarlo, salare (la carne), conciare la pelle, raschiare (il pelo), tagliarlo a pezzi; scrivere due lettere dell’alfabeto; cancellare per scrivere due lettere; costruire, demolire; accendere un fuoco, spengerlo; battere col martello; portare un oggetto da un dominio ad un altro» (Shab., VII, 2).
Ciascun termine di questa classificazione sollevava diversi problemi di definizione e un infinito campo di discussioni si apriva per determinare se un particolare atto rientrasse o no in una delle categorie. Diamone un esempio. L’ultimo capo ricordato, dà luogo a due serie di ricerche, di cui la prima considera i caratteri che l’atto del trasferimento deve rivestire per essere considerato violazione del giorno santo. Questa ricerca è oggetto del primo capitolo del Trattato Shabbath. La prima clausola della Mishnah dice: «Vi sono due atti nel passaggio degli oggetti (da un dominio ad un altro) che si estendono a quattro per quanto concerne l’interno (di un locale) e quattro per quanto concerne l’esterno. Com’è questo? Il mendicante, per esempio, sta di fuori e il padrone di casa di dentro, e il mendicante stende la mano all’interno e mette qualche cosa in mano al padrone di casa o prende dalla mano di lui qualche cosa, che porta fuori. In questo caso il mendicante è colpevole (di infrazione alla legge del Shabbath) e il padrone di casa è libero da colpa. Se il padrone di casa stende la sua mano e mette qualche cosa nella mano del mendicante o ne prende qualche cosa, che porta entro la casa, allora il padrone di casa è colpevole e il mendicante è libero da colpa. Se il mendicante stende la sua mano all’interno, e il padrone di casa ne leva qualche cosa o vi mette qualche cosa, sono ambedue liberi da colpa. Se il padrone di casa stende la sua mano fuori e il mendicante vi prende qualche cosa o vi mette qualche cosa che il primo porta entro casa, sono ambedue liberi da colpa. » Da questo esempio si può arguire quanto la questione divenisse complicata nella trattazione dei Dottori.
La seconda serie di ricerche è volta a determinare quale carico sia proibito trasportare nel Shabbath. Per esempio, v’era una regola che stabiliva quale parte del vestiario della donna fosse da considerarsi vestito propriamente detto e quale ornamento, essendo quest’ultimo ritenuto carico superfluo. « Una donna può uscire di Shabbath portando trecce di capelli, siano essi dei suoi, o di altra donna o di animale; o con frontali o con altri ornamenti cuciti al suo copricapo; o con una rete da capelli o con riccioli falsi, nel cortile (di casa sua)[1]; o con cotone nell’orecchio, o nella scarpa, o applicato per ragioni di salute; o con un chicco di pepe o con un grano di sale o con qualunque altra cosa che sia abituata a tenere in bocca, purchè non se la metta per la prima volta di Shabbath, e se cade di bocca, non ve la rimetta. Quando si tratti di un dente rimesso o di un dente d’oro, R. Jeudah lo permette mentre i Dottori lo proibiscono» (Shab., VI, 5).
È questo uno dei tanti esempi dileggi concernenti il Shabbath, che sembrerebbero giustificare l’accusa, spesso ripetuta, che la casistica rabbinica ha reso il giorno sacro un crudele incubo per gli Ebrei, privandolo di tutta la sua gioia, di tutta la sua spiritualità. La verità è, invece, che il popolo, pur sperimentando tutto il rigore di queste leggi, non solo mai si accorse del supposto peso schiacciante, proclamò anzi che il Shabbath è un giorno di luce, di bellezza e di santità.
Ecco qui una breve preghiera composta da un Dottore per essere recitata la vigilia del Shabbath: «Per il Tuo amore, o Signore nostro Dio, con cui Tu amasti il Tuo popolo Israel, e per la compassione, o nostro Re, che Tu provasti per i figli del Tuo patto, Tu ci hai dato, o Signore nostro Dio, questo settimo giorno grande e santo in amore» (Tosifta Ber., III, II). Solo colui per il quale il Shabbath era una grazia e una delizia poteva pronunciare queste parole, che rispecchiano il sentimento generale. Sul testo: «Affinché sappiate che lo sono il Signore che vi santifica, (Esodo, XXXI, 13), si nota: «Il Santo, che benedetto sia, disse a Mosè: Ho nel mio tesoro un dono prezioso, chiamato Shabbath, e voglio offrirlo a Israel; va e informalo» (Shab., 10b).
La sua osservanza non comportava alcuna particolare astinenza. Le pubbliche manifestazioni di lutto, che duravano per una settimana dopo il seppellimento di un parente morto, dovevano sospendersi nel Shabbath. A questo riguardo il testo prediletto era: «Chiama il Shabbath delizia» (lsaia, LVIII, 13), su cui si fondava la raccomandazione di tenere in casa una lampada accesa (Shab., 25b), di indossare gli abiti migliori (ibid., 113a) e di fare tre buoni pasti (ibid., 117b). Si considerava atto degno di lode lo spendere liberalmente per onorare il Shabbath, e si assicurava che «chiunque presta al Shabbath è ben ripagato» (ibid., 119 a). Si narra la storia di un Dottore che visitò di Shabbath la casa di un collega, il quale gli offrì grande abbondanza di vivande cotte. «Sapevi che sarei venuto io, che hai preparato con tanta abbondanza?» domandò all’ospite, che rispose: «Sei tu stimato da me più del Shabbath?» (ibid.). Questo uso di onorare il Shabbath dette luogo a interpretare il verso: «Io sono nera ma bella» (Cant., I, 5), in questo modo: «Io (Israel) sono nera i giorni della settimana, ma bella di Shabbath» (Midrash ad loc.).
Quale amorosa devozione dimostravano i due Dottori di cui si narra: «R. Channina usava indossare i suoi vestiti migliori e, verso il tramonto del venerdì, esclamare: “Venite, e usciamo incontro al Shabbath Regina”. R. Jannai usava indossare i suoi vestiti migliori la vigilia del Shabbath ed esclamare: “Entra, o sposa! entra, o sposa!”» (Shab., 119 a).
Il Shabbath era destinato a santificare la vita. «“Perchè è santo per voi”(Esodo, XXXI, 14) insegna che il Shabbath aumenta la santità in Israel » (Mech. ad loc.; 104 a). Come abbiamo veduto, si credeva comunemente che il giorno santo dotava chi lo onorava di una (anima supplementare ».[2]
Due varianti di una medesima storia mostrano quale speciale sapore desse il Shabbath alla vita del popolo. «Chiese l’imperatore a R. Jeoshua b. Chananyah: “Come mai il cibo del Shabbath ha un odore così piacevole?” “Possediamo una droga – egli rispose – chiamata Shabbath[3], che noi vi mettiamo e gli dà questa fragranza”. L’ imperatore chiese che gli dessero un po’ di quella droga, ma gli fu detto: “Serve soltanto per chi osserva il Shabbath“, (Shab., 119 a). (R. Jeudah invitò a pranzo Antonino un giorno di Shabbath, quando tutte le pietanze venivano servite fredde. Egli mangiò e gradì il cibo. R. Jeudah lo invitò a pranzo in un’altra occasione, però in un giorno di settimana, quando tutte le pietanze venivano servite calde. Antonino disse: “Le pietanze dell’altra volta mi sono piaciute di più”. Gli rispose l’ospite: “Ci manca una certa droga”. Ma come? mancherebbe qualche cosa nel tesoro del re?’ chiese Antonino. “Le pietanze mancano del Shabbath- fu la risposta – hai tu il Shabbath?”. (Gen. R., XI, 4).
[1] Cioè in una proprieta privata. Non le è permesso di uscire nella pubblica via.
[2] (1) V. p. III.
[3] (2) Conferisce maggior acutezza alle due storie il fatto che la parola ebraica che designa l’«aneto » è shebeth, formata dalle consonanti stesse di Shabbath, sabato.