In America la psicologa Wendy Mogel insegna a lasciare che i bambini imparino a arrangiarsi. Indipendentemente dalla fede
Francesca Gentile
I genitori americani? Stressati e petulanti. Il “bambino perfetto”? Una missione impossibile. La classifica delle dieci migliori università americane? Pura pornografia. Idee chiare e concetti sferzanti escono dalla bocca di Wendy Mogel, la psicologa autrice del long-seller The Blessing of a Skinned Knee (Penguin Compass), una specie di guida a uso dei genitori, che utilizza gli antichi insegnamenti ebraici per dare consigli a misura del mondo contemporaneo sul difficile compito di crescere i figli.
“Attraverso lo studio e la pratica dell’ebraismo”, scrive l’autrice, “ho imparato che i genitori che venivano a consultarmi erano caduti in una trappola creata dalle loro stesse buone intenzioni. Determinati nel dare ai loro figli tutto ciò che è necessario per farli diventare dei vincitori in questa cultura altamente competitiva, trascuravano il dono più sacro che Dio ci ha fatto, ovvero la santità e la potenza del momento presente e l’individualità di ogni bambino”. Facile a dirsi, ma nella pratica come ci si deve comportare? E soprattutto, che cosa sta accadendo alle “mummy” e ai “daddy” americani? “Semplice, sono pieni di paure e superprotettivi. Un vero disastro per i figli”, risponde la dottoressa Mogel. “Dietro all’ambizione di crescere un figlio perfetto c’è un misto di orgoglio personale e timore del futuro. I bambini obbligati a superare i risultati raggiunti dai genitori, senza avere le capacità necessarie, sviluppano uno stato di sofferenza. Alcuni cominciano a sentire che il loro impegno è finalizzato solo alla soddisfazione dei genitori e si ribellano”. E perché ritiene la classifica delle università “top ten”, puntualmente aggiornata ogni anno, pura pornografia? “Perché è dannosa e oltretutto falsa”, ci risponde, “è un altro inganno che spinge i genitori a stressare i loro figli, a metterli sotto pressione sin da quando sono bambini, per renderli adatti a entrare in queste dieci università, le uniche secondo loro a garantire un futuro brillante e sicuro, quando sappiamo benissimo che in America ci sono almeno cinquanta buoni atenei”
Veniamo alla questione principale: che cosa dovrebbero fare i genitori? “Dovrebbero insegnare ai figli come diventare delle buone persone”, continua la Mogel, “il più delle volte i bambini che mi vengono portati in studio per una visita non hanno nessuna patologia. Eppure, quando, dopo aver condotto dei test, comunico ai genitori che il bambino è nei limiti della normalità, noto la loro delusione. Spesso preferirebbero un problema diagnosticabile piuttosto che una naturale “limitazione”. Un problema può essere risolto, invece una normale caratteristica implica l’aggiustamento delle proprie aspettative e l’accettazione di un figlio “imperfetto”. Secondo il pensiero ebraico un figlio non solo non è il nostro capolavoro, ma non è nemmeno interamente nostro. Ci è dato in prestito. Credo che l’idea che un figlio sia un “prestito prezioso” concesso da Dio possa aiutare i genitori”.
Le teorie divulgate da Wendy Mogel sono diventate un caso nel panorama educativo a stelle e strisce. Il libro The Blessing of a Skinned Knee, letteralmente “La benedizione di un ginocchio scorticato”, era uscito nel 2001 con una tiratura iniziale di cinquemila copie. Un esordio in sordina, passato quasi inosservato. Nelle librerie lo si poteva trovare nell’angolo riservato agli argomenti religiosi. Poi, come a volte capita nel mondo editoriale, è stato il passa-parola a trasformare il libro in un successo. I volumi venduti a tutt’oggi sono circa 120mila con un andamento costante di ventimila copie l’anno. Sbagliato pensare che i fan della Torah siano esclusivamente gli ebrei americani. Sono molti, infatti, i genitori con un’educazione diversa che si avvicinano agli insegnamenti raccolti dalla Mogel. Il libro è stato discusso nelle chiese e nelle scuole. Agli incontri che l’autrice offre una volta al mese in diverse località degli Stati Uniti partecipa di solito un pubblico eterogeneo. “Il mio lavoro interessa tutte quelle persone che hanno qualche difficoltà con i figli, indipendentemente dalla loro fede. Credo di offrire una prospettiva diversa in grado di alleviare parecchie tensioni familiari”.
Lo sviluppo teorico di Wendy Mogel ha coinciso con una crisi personale. “Con le mie figlie commettevo gli stessi errori che ritrovo nei genitori che mi chiedono aiuto”, spiega, “a un certo punto non riuscivo né a essere una buona madre né una terapista efficace”. Le tappe che hanno contrassegnato la crisi e il successivo rilancio professionale sono ben raccontate nel libro. “Sono stata formata per credere nella psicologia, la terapia delle parole”, scrive, “ho sempre creduto di fornire un supporto psicologico privo di atteggiamenti giudicanti, ma a un certo punto iniziai a esprimere sempre più giudizi. Qualcosa non funzionava, ma non riuscivo a localizzare il problema nel mio manuale diagnostico. Lavorando con i bambini cominciai a sentirmi come una baby-sitter di lusso. Lavorando con i genitori invece mi sembrava di prescrivere medicinali per appendiciti acute. Sentivo il bisogno di una supervisione e di una guida. Consultai due terapeuti di grande esperienza le cui opinioni stimavo profondamente. Ritornai in terapia per capire se avessi delle resistenze inconsce verso i miei pazienti, bambini e adulti. Non ho ottenuto niente. Le parole che pronunciavo per descrivere questi giovani in difficoltà erano di vecchio stampo: ostinate, rigide, tirchie, codarde, letargiche, imperiose. Mi chiesi se i loro problemi rientrassero in una categoria differente da me ancora non considerata, se per caso ci fossero delle questioni che la psicologia, da sola, non poteva risolvere. Il mio training stava fallendo”.
Wendy decide di smettere. Non trova il bandolo della matassa. Torna indietro con la memoria e ripensa alle sue origini. Nonostante sia figlia di due genitori ebrei, e abbia avuto un nonno presidente della sinagoga di Brighton Beach a New York, non è mai stata particolarmente religiosa. Da bambina sapeva poco di ebraismo, ma era certa di non sopportare i rabbini. “I pochi che avevo ascoltato”, ricorda nel libro”, avevano un modo di parlare deliberatamente pomposo. Mi domandavo se pensassero che tutti i fedeli fossero deboli. Ci definivano come delle vittime e ci intimavano di stare attenti all’inevitabile momento quando ‘il leone dell’antisemitismo solleverà la sua orribile testa’. Non si parlava mai di Dio, o di cosa ci fosse dopo la morte, o del perché le persone cattive la facessero franca, e di tante altre cose che mi chiedevo quando avevo undici anni”.
Una sera del 1990 la Mogel accetta l’invito di un’amica per andare a festeggiare il Capodanno ebraico vicino a Bel Air. A celebrare la ricorrenza è una donna rabbino “con i capelli corti, senza trucco, e una maniera di esprimersi molto semplice”. La situazione era piacevole “ma mi ritrovai in lacrime, non piango facilmente, ero confusa, qualcosa si agitava in me, ma non sapevo che cosa era”.
Wendy Mogel dà al suo lavoro una nuova direzione. “Intanto non ho mai più praticato la psicologia nel modo precedente alla mia crisi. E ho spostato l’attenzione dalla diagnosi e il trattamento alla prevenzione. Ho creato corsi per i genitori in grado di aiutarli a sviluppare una filosofia educativa basata sulla spiritualità. Che dia modo di affrontare le turbolenze dei figli, considerandole parte del loro sviluppo, senza dover ricorrere ogni volta a un esperto”.
Per esempio? “Un giorno arrivarono nel mio studio i genitori di Simon lamentandosi che il figlio si comportava in maniera diversa dagli altri”, racconta la psicologa. “Secondo di tre fratelli, Simon aveva difficoltà a scuola, gli era stato diagnosticato un Add (Attention Deficit Disorder), ed era sotto cura farmacologica. Mangiava poco e aveva un tic facciale. Il bambino era poco interessato alla lettura, preferiva lo sport, e aveva una spiccata sensibilità artistica. Il temperamento e le inclinazioni di Simon erano diversi da quelli degli altri componenti della famiglia. Consigliai di trasferirlo in una scuola meno impegnativa, sostituendo la pressione accademica, con qualche visita in più ai campi sportivi del parco. Simon rifiorì rapidamente e non ebbe più bisogno di dipendere dagli psicofarmaci. Troppo spesso i genitori interpretano i comportamenti dei figli come ribellione, mentre si tratta semplicemente di fedeltà alla propria natura. Ci aspettiamo che siano come noi, o meglio di noi, più ambiziosi e coraggiosi, e ogni deviazione da questo “programma” la riteniamo un difetto del comportamento. C’è un antico detto Chassidico che mi piace citare come esempio: “Se tuo figlio ha il talento per fare il panettiere, non chiedergli di diventare un dottore”. Questo è il punto. Se noi ignoriamo la personalità del bambino miniamo il piano di Dio. La rincorsa dei genitori verso la perfezione produce molte vittime. Ho visto bambini soffrire d’insonnia, mal di testa, problemi alimentari, o di tricotillomania, la compulsione a strapparsi i capelli”.
Non crede che le aspettative esagerate dei genitori siano alimentate dalla pressione sociale? “Indubbiamente è così”, risponde la dottoressa Mogel, “in America si vive nella paura. I mass media ci terrorizzano dalla mattina alla sera. Ci raccontano che se un bambino cammina per strada da solo rischia di venire rapito e noi ci crediamo. Tutte le nostre ansie si riversano sui figli. E quali sono le conseguenze? Che i nostri figli non avranno voglia di diventare genitori a loro volta. E come dargli torto: si accorgono della nostra infelicità e si sentono in qualche modo responsabili”.
Quindi sta dicendo che prima bisognerebbe curare i genitori? “In un certo senso sì, perché quello che osservo ormai da parecchi anni sono coppie di genitori intelligenti e preparate, che rimangono intrappolate progressivamente nella vita dei loro figli. Non importa quanto impegnati siano, i problemi dei figli diventano prioritari. Invece di divertirsi con loro, svolgendo insieme delle attività piacevoli, si preoccupano costantemente di portarli sulla retta via, di “aggiustarli”. Per esempio: personalmente non sono contraria all’idea di seguire i figli mentre fanno i compiti a casa. Però un conto è offrire un sostegno e incoraggiarne gli sforzi, un conto è applicare quella forma di controllo asfissiante, tesa da una parte a spingere al massimo le capacità del bambino. E dall’altra anche a proteggerlo dalla fatica di assumersi autonomamente delle responsabilità. Ci tengo a sottolineare questo aspetto del problema. I genitori superprotettivi desiderano risparmiare ai loro figli la percezione del dolore della vita. Questo è un errore. I bambini così non riescono a diventare forti e autonomi. Il padre deve insegnare al figlio a nuotare, secondo la tradizione ebraica, ma troppo amore e un eccesso di protezione vengono intesi dal bambino come la conferma della sua incapacità a procedere da solo. Lasciamo ai bambini il tempo di maturare, crescere e sognare: loro sono magici, le creature migliori sulla faccia della Terra. E se li si fa innervosire diventano infelici”.
Sono cinque le chiavi che Wendy Mogel fornisce per crescere un figlio forte ed equilibrato: “Sapere quando insistere con l’indipendenza: ovvero sviluppare il coraggio di rinunciare all’eccesso di protezione anche se questo implica, talvolta, che vostro figlio possa sentirsi scontento o persino in pericolo. Abituarli a risolvere i problemi personali: genitori, siete pronti a scommettere sull’arte di arrangiarsi di vostro figlio? Dategli l’opportunità di esercitare il dono divino del libero arbitrio: il modo migliore che il vostro bambino ha di ricordarsi di portare il pranzo a scuola è provare la fame per averlo dimenticato. Lasciategli sperimentare il mondo: se evitiamo ai nostri figli di frequentare persone differenti da noi, magari perfino un po’ “inopportune”, saranno rigidi e facilmente impressionabili da adulti. Insegnate ai bambini a non avere paura del dolore: affrontare le difficoltà quotidiane come parte della vita li incoraggerà a non trasformare i problemi in tragedie. Possiamo aiutarli a restare calmi solo mantenendo noi stessi la calma”.
Il prossimo libro della dottoressa Mogel si intitolerà The Blessing of a B- (La benedizione di un B meno). Di cosa parlerà? “È uno studio sugli adolescenti”, racconta, “io li adoro e, a differenza di molte persone, penso che siano fenomenali e perfino una fonte d’ispirazione. Gli atteggiamenti che assumono non devono essere fraintesi. Amano la musica ad alto volume, consumare tutta l’acqua calda sotto la doccia, indossare vestiti esagerati: il mio libro sarà un modo per offrire una prospettiva di lettura del loro mondo, delle loro prestazioni. Considerata “mediocri”, da B-, un voto scolastico che negli Stati Uniti viene considerato appena sufficiente”.
Lo psicanalista Donald W. Winnicott sosteneva che il bambino normale non è un “buon” bambino. Wendy Mogel riprende il concetto (che potrebbe valere anche per gli adolescenti). “Ogni bambino”, scrive, “trascorre una parte del suo tempo facendo il ‘cattivo’. La sfida dei genitori è quella di insegnare al bambino a controllare l’energia di questo impulso per trasformarla in qualcosa di positivo. Questo non significa solamente imporre regole più precise, ma anche accettare il temperamento del bambino, rispettarne i suoi limiti, e sostenere la sua forza creativa”.
“Sapete qual è il vero problema di cui ci dobbiamo occupare?”, chiede improvvisamente la Mogel. “Il surriscaldamento della Terra: questo è il vero problema”. Ma che cosa c’entra con il nostro argomento? “C’entra eccome. Dovremmo essere tutti più sensibili a quello che ci accade intorno, dovremmo prestare attenzione ai grandi problemi, e uscire un po’ da noi stessi, coinvolgendo in questo anche i nostri figli, perché no? Questa sì che sarebbe una maniera per aprire i loro orizzonti, lasciandoli respirare”.
La Repubblica/D, 07.04.2007