- L’onor del mento (R. Di Segni)
- Di sabato non porto (M.E. Artom)
Barba sì, barba no, barba come: una disputa tra le varie scuole su una disposizione del levitico
L’onor del mento
Nel 1720 un gruppo di ebrei italiani si recò a Salonicco per affari. Tra gli ebrei della comunità locale e i nuovi venuti risaltava una speciale differenza: gli italiani no avevano la barba, perché se la tagliavano nei modi consentiti dalla tradizione; i loro confratelli, invece, erano, almeno in questo, più rigorosi, per cui la differenza era troppo evidente, e i rabbini locali poco disposti a tollerarla. Dai rabbini partì l’ordine di farsi crescere la barba; gli italiani protestarono e ricorsero ai maestri del luogo d’origine, che si divisero in merito alla questione; alla fine valse il principio che i nuovi venuti dovessero rispettare le consuetudini locali.
L’episodio è un esempio evidente dell’articolazione di opinioni che si è verificata nel corso della storia in merito alle modalità di osservanza di una norma biblica, le cui origini e significati sono ancora oggi per molti aspetti discussi. Sono solo due versi biblici a sollevare il vespaio di opinioni; ma poiché coinvolgono la parte più importante dell’aspetto fisico dell’uomo, è logico che la questione sia tanto dibattuta.
La fonte legale della disposizione è al verso 27 del capitolo 19 del Levitico: “non tagliate in tondo l’estremità della vostra capigliatura e non radere gli angoli della tua barba”; il verso è inserito in un contesto di disposizioni contro comportamenti genericamente definibili come idolatrici: è preceduto dal divieto di stregonerie, e seguito dal divieto di farsi delle incisioni nel corpo in caso di lutto. La norma viene ripetuta due capitoli più avanti, con due differenze importanti: la rasatura è indicata con un termine diverso (galach), e la regola riguarda in particolare i sacerdoti (Lev. 21:5). A questo punto sono due i problemi che da sempre la critica si è posta in proposito: il senso generale della disposizione, e le implicazioni della ripetizione della norma per i sacerdoti. Le opinioni espresse sono tante che è impossibile riassumerle in poco spazio. Ma almeno bisogna ricordare i termini principali. Il primo dato è che una grande corrente di interpreti è convinta che la norma ha un preciso significato antiidolatrico. Maimonide è tra i più autorevoli sostenitori di questa opinione; egli sostiene che la rasatura è proibita perché è un segno di appartenenza a un sacerdozio pagano. Molti altri dissentono, sottolineando come la regola deve essere inquadrata nell’ambito vasto delle norme bibliche inspiegabili, le cosiddette “decisioni del Re” (ghezeròth Mélekh), che vanno osservate in quanto tali, e non perché hanno una motivazione razionale.
La discussione in questo caso non è un puro esercizio esegetico, ma ha dei riflessi pratici: se infatti si ammette che la regola vuole impedire una pratica pagana, possono essere ammesse delle deroghe in casi particolari nei quali questo rischio non si pone, mentre c’è la necessità di adeguarsi a una moda; il caso classico è quello di come si deve comportare un ebreo quando è uno stretto collaboratore delle più alte autorità civili. Emerge in questa discussione l’elemento nascosto di tutto il problema, che condiziona in ogni momento storico, più o meno consciamente, i termini. La barba e la capigliatura non sono solo un fatto religioso; sono, soprattutto, una questione di costume e di moda; ancora oggi si è giudicati per il taglio dei capelli e della barba, e l’aspetto fisico diventa portatore di segnali di conformismo o di contestazione, o di appartenenza a gruppi e classi sociali particolari. Nell’ambito più specificatamente religioso, le tradizioni in proposito hanno origini lontane nel tempo. Il simbolo connesso con un tipo di taglio particolare è quello dell’appartenenza a un servizio; per cui i sacerdoti di alcuni culti, (quello di Iside per esempio), si sottoponevano a tosatura, ed era anche diffusa la consuetudine di radere la testa agli schiavi; da qui, secondo alcuni sarebbe derivato l’uso cristiano della tonsura, che un tempo, in alcuni riti, veniva fatto a tutti insieme al battesimo, e non riservata, come in seguito, a categorie speciali. Maimonide aveva quindi ragione a richiamarsi agli usi non ebraici per inquadrare la norma; ma il discorso va forse più allargato, in questo senso: la Toràh impone sistematicamente delle scelte all’uomo, in ogni suo comportamento; è quindi coerente con questa logica una norma che disciplini semplicemente e in modo univoco il taglio di barba e capelli, vista l’importanza che ciò può avere nel costume umano.
Qui risalta il contributo della legge orale, della halackàh, il cui compito è quello di dare una spiegazione di quanto nel testo biblico è poco chiaro, insieme ad un indirizzo preciso e costante nel tempo. Così la regola rabbinica risolve la possibile contraddizione tra norme per la comunità e norme per i sacerdoti emergente nei due versi sopra citati del Levitico; storicamente e criticamente si potrebbe supporre una originaria limitazione del divieto ai soli sacerdoti, poi estesa a tutta la comunità; oppure un maggior rigore nel divieto riguardante i sacerdoti, che si esprime con un verbo differente. Ma l’interpretazione rabbinica vuole dare una regola univoca, e in questo probabilmente riflette una situazione consolidata ormai da secoli; per cui conclude che le due regole si integrano e spiegano a vicenda: il radersi (ghillùach) del pelo, come avviene con la lama del rasoio (vedi riquadro).
La regola ha avuto comunque delle profonde evoluzioni per influssi di vario tipo, come si è prima accennato. È soprattutto da ricordare l’importanza che ha avuto nella tradizione l’atteggiamento dei cabalisti seguaci di Luria, a cui si attribuisce l’avvertenza a non toccare la barba neppure con le forbici. Si pensi a quanto è cambiato il costume ebraico: all’epoca talmudica risale un’ampia normativa sull’obbligo di riordinarsi la barba alla vigilia delle ricorrenze festive, o sul divieto di tagliarsi la barba nei giorni di lutto stretto (segno che altrimenti la barba veniva riordinata). Comunque, in coerenza con l’insegnamento di Luria, in vaste comunità la barba intonsa è diventata un segno immediato di appartenenza all’ebraismo, e come tale un valore da difendere in assoluto; all’inizio di questo secolo, ci informa la Jewish Encyclopedia (alla voce Beard, cui si rimanda il lettore per molti particolari interessanti) “in tutta l’Europa Orientale la completa rimozione della barba” era “considerata come un segno evidente di rottura formale con il giudaismo rabbinico”. Questa posizione oggi si è attenuata, ma in molti ambienti tradizionali ancora la pensano così, tuttavia neppure tutti i cabalisti erano d’accordo; dall’Italia, che in passato sembra essere stata il centro dei difensori del mento rasato (secondo le regole), deriva una dimostrazione cabalistica del concetto che la proibizione della rasatura vale solo nella terra d’Israele. Insomma, il problema ha sollevato sempre grandi discussioni, e l’unico punto di riferimento restano le fonti della halakhàh consolidata. Come per i non ebrei “l’abito non fa il monaco”, così tra gli ebrei molti sono opposti al “culto della barba”; nella Jewish Encyclopedia è citato questo epigramma di Josef del Medigo, che in traduzione libera suona così: “se gli uomini dovessero esser giudicati saggi dalle loro barbe allora le capre sarebbero le più sagge creature della terra”.
Riccardo Di Segni
Aspetti pratici dell’osservanza• Il divieto biblico è nell’interpretazione rabbinica riferito ai capelli che crescono sulle tempie (dalle orecchie alla fronte) e a cinque punti della barba; poiché vi sono diverse opinioni sulla localizzazione precisa di questi punti, il divieto è esteso a tutta la barba.• Sono esenti dall’osservanza solo le done; comunque, secondo l’opinione prevalente, alle donne è proibito radere gli uomini nei punti sopra citati.• Il taglio è proibito con il rasoio ed è permesso generalmente con le forbici. È consentito anche l’uso di pinze e sostanze depilatorie. Il rasoio elettrico è consentito in quanto la lama non aderisce strettamente alla pelle.• Le regole sono codificate in Shulchàn Arùkh, Jorèh De’ah, § 181; per dettagli ulteriori v. Talmudic Encyclopedia, vol X (alla voce haqqafàth haròsh) e vol. XI (alla voce hashchatàth zaqàn). |