- Il Seder di Rosh Ha-Shanà (R. Di Segni)
- Dinim in pillole: Rosh Ha-Shanà, Da Rosh Ha-Shanà a Kippùr, Kippùr, Sukkòt
- Una storia nella Storia (I.D.N.)
Le feste del nuovo anno
Non è solo la sera di Pasqua ad avere il Seder; anche il Capodanno ne ha uno. È un rito molto meno conosciuto, meno importante di quello pasquale, ma con indubbi elementi di interesse. Facendo un confronto tra i due Sedarìm, quello di Capodanno (vedi riquadro) si rivela ben altra cosa; in particolare emerge un quadro ideologico e una situazione religiosa profondamente differente; e la differenza diventa ancora più rilevante se si pensa allo spirito con cui l’ebraismo vive il suo ciclo penitenziale. Il Seder pasquale è una commemorazione storica e insieme un tentativo di approfondimento della propria esperienza; ha inoltre un preciso intento didattico per le nuove generazioni. In questa cornice ogni atto e ogni cibo simbolico hanno una funzione storica, didattica e religiosa ben precisi. Nel Seder del Capodanno, almeno in apparenza, tutto questo non c’è; il cibo viene portato sulla mensa perché evochi, senza mediazioni storiche, il senso di una speranza. L’erba amara pasquale, ad esempio, ricorda l’amarezza della schiavitù; il miele di Capodanno, invece, non si ricollega a un fatto storico; il miele è dolce e così l’anno che inizia deve essere dolce. Volendo usare dei termini scientifici attuali, il rito del Capodanno sembrerebbe quindi rientrare nell’ambito di un esorcismo di male futuro, realizzato attraverso l’alimento. Formalmente è in gioco un meccanismo di magia “simpatica”, in base alle associazioni che si stabiliscono tra natura o nome dell’alimento e l’oggetto del desiderio. Ma questo potrebbe essere in contrasto con tutto lo spirito del ciclo penitenziale ebraico. È ben noto che qui il presupposto è la Teshuvà; il pentimento, o meglio il ritorno sulla strada corretta che ognuno deve percorrere. Il principio è squisitamente morale e religioso; senza una presa di coscienza non è possibile rifondare il benessere della società e un rapporto positivo con Dio. Tutto ciò è contraddetto da un comportamento di tipo magico: se è il miele a portare la dolcezza e la barbabietola a togliere i nemici, a che serve più l’impegno morale e il pentimento?
Bisogna sottolineare che queste obiezioni non sono proprie della nostra epoca e del nostro modo attuale di vedere le cose, ma risalgono a molti secoli fa. Abbiamo un documento di Natronai Gaon, del decimo secolo, in cui il rito viene difeso dall’accusa di magia. È un segno che questi usi, in parte già documentati nel Talmùd Babilonese, dopo secoli non erano stati ancora accolti unanimamente e suscitavano delle discussioni. In ogni modo la tradizione li ha poi accettati, e bisogna quindi capire perché. A questa domanda si possono dare diverse risposte. In primo luogo bisogna bene individuare la natura di questo presunto atto magico. Difendendo il rito, Natronai Gaòn lo definisce «nichùsh tov», un buon augurio. Come a dire che esistono diverse gradualità nell’atto magico, e che questa del Capodanno è certo il più innocente di tutti; è solo un buon augurio. E sempre per quanto riguarda l’essenza stessa dell’atto magico non bisogna dimenticare che esso è realmente tale quando stabilisce un meccanismo automatico assoluto tra azione e risultato, senza impegno morale né rapporto divino. E non è affatto questo il nostro caso. Lo dimostrano le formule che accompagnano il consumo dei cibi, che sono invece invocazioni a Dio, nelle quali compare con grande frequenza il problema morale: la menzione dei propri meriti e la richiesta di un giudizio benigno. Siamo molto più nell’ambito di una preghiera, sottolineata da un segno tangibile, che in quello di un esorcismo. Molto importante poi è l’intervento di interpreti successivi che hanno voluto integrare i significati originari con nuovi concetti. Vi è, ad esempio, una tendenza ad eliminare ogni possibile aspetto di invocazione negativa, che, al limite, evocherebbe un sia pur lontano ricordo di magia nera (ricordiamo che Natronai parlava di buon augurio); per cui il simbolo originario collegato ai porri (la rovina dei nemici) viene messo in discussione; l’autore della Agudà sostiene che il segno deve essere buono per tutti, e non solo per gli ebrei; quindi i porri vanno portati sulla mensa per un altro motivo, perché crescono rapidamente, e come tali sono di buon augurio di rapida crescita per tutti. Un’altra tendenza, più ampia e sistematica, è quella di inserire dei riferimenti storici, o religiosi, o cabalistici: per cui il capo d’agnello diventa ricordo del sacrificio di Isacco, o sigla della frase «fare la volontà del nostro Padre in cielo (lerò’sh – la’asòth retzòn Avìnu shebashamàim); o la mela che si mangia con il miele il simbolo del mistico campo di meli. Vi è infine un altro dato che difende la legittimità religiosa in ambito ebraico del rito: il fatto che si tratta di un pasto comune, nel senso di un atto compiuto da un’intera collettività in un momento preciso; come tale è uno strumento di identificazione nel tempo e nello spazio, e di unità intorno ad un’invocazione di serenità e prosperità. È questo in definitiva il significato autentico, al di là delle classificazioni immediate, del piccolo Seder della cena di Capodanno.
Riccardo Di Segni
Dinim in pillole
Rosh Hashanà
Quest’anno Rosh Hashanà inizia la sera di Venerdì 17 Settembre e finisce la sera di Domenica 19.
La vigilia di Rosh Hashanà si usa visitare il cimitero, lavarsi e radersi.
Dall’inizio della festa, fino a tutto Kippùr, bisogna fare attenzione alle numerose variazioni nel testo della Amidà.
Durante la cena si mangiano per buon augurio dei cibi speciali e si recitano delle formule augurali seguendo un ordine preciso che varia secondo i riti locali; se ne parla in un’altra parte del giornale.
Uno degli obblighi specifici della festa è l’ascolto del suono dello shofàr. Formalmente ne sono esentati le donne e i minori, comunque è buon uso che anch’essi ascoltino lo shofàr. Lo shofàr non si suona di Sabato, per cui quest’anno viene suonato solo nel secondo giorno.
I due giorni di Capodanno devono essere dedicati alla riflessione sul tema principale della ricorrenza, la teshuvà. Sono comunque giorni di festa, nei quali si mangia e si beve in abbondanza.
Durante il Capodanno si usa andare presso un corso d’acqua o in riva al mare per gettarvi una pietra, recitando una formula apposita. Il rito, detto del tashlich, non deve essere eseguito di Sabato.
La seconda sera di Rosh hashanàh si ripete la recitazione della benedizione di shehechejànu nel Qiddùsh e l’assaggio di cibi particolari come nel primo giorno.
All’uscita della festa si fa l’havdalàh omettendo le benedizioni sui profumi e sul fuoco.
Da Rosh hashanà a Kippùr
Il periodo tra Rosh hashanà e Kippùr è detto «giorni di teshuvà» e deve essere dedicato alla preparazione personale al culmine del ciclo penitenziale.
In questo periodo, oltre a particolari aggiunte nei testi di preghiera, si usa intensificare la lettura di testi liturgici che insistono sul tema del pentimento e del perdono. Si usa anche essere più rigorosi nell’osservanza di norme tradizionali per le quali nel corso dell’anno era lecito un atteggiamento facilitante.
Il giorno dopo Rosh hashanàh (Lunedì 20 Settembre) è il digiuno di Ghedalià; l’astensione da cibi e bevande va dall’alba al sorgere delle stelle.
Il Sabato che cade in questo periodo (25 Settembre) è detto di teshuvà.
La vigilia di Kippùr (cioè Domenica 26 Settembre) si usa partecipare in massa alle Selichòth notturne. Numerosi usi caratterizzano questa giornata. Il più importante è quello di cercare di risolvere i contrasti sociali. È noto il principio che stabilisce che il Kippur serve ad espiare le colpe commesse dall’uomo contro Dio; per le colpe tra uomo e uomo è necessario chiedere il perdono all’offeso, e il momento più opportuno è proprio la vigilia del Kippùr.
Sempre in questa giornata, secondo gli usi, si compiono i riti delle Kapparòth e della fustigazione. È buona norma fare un bagno di purificazione. A Minchàh si recita di Widdùj, la confessione collettiva; in molte comunità in Italia si aggiunge la formula particolare della Moda’à.
Si anticipa il pasto di interruzione per finire in pieno giorno. È opportuno non abbondare troppo in questo pasto.
Si lascia la tavola di Kippùr coperta con le stesse tovaglie usate per il Sabato, e si accende il lume recitando la benedizione «‘al hadlaqàt ner Jom haKippurìm».
Kippùr
Kippùr inizia la sera di Domenica 26 Settembre e termina il giorno successivo con l’uscita delle stelle. Quest’ultimo particolare deve essere sottolineato: il digiuno non finisce con il suono dello shofàr di Ne’ila, ma bisogna attendere ancora qualche minuto, con la recitazione di ‘Arvìth e la cerimonia della havdalà.
Durante l’intera giornata (di circa 25 ore) sono in vigore tutte le regole di osservanza del Sabato, più altri divieti specifici: mangiare e bere, lavarsi (anche i denti), ungersi, mettersi scarpe di pelle, avere rapporti sessuali.
I minori sono esentati da tutti i divieti specifici, ma negli ultimi anni che precedono il bar o batmitzwà sono educati progressivamente all’osservanza di queste norme.
Di regola sono esenti dal digiuno le puerpere nei primi tre giorni, mentre le donne incinte e quelle che allattano sono tenute a digiunare, sempreché non esistano pericoli per la loro salute da valutare singolarmente.
Ugualmente sono esenti dal digiuno i malati per i quali si delinea n pericolo per la salute; la decisione spetta al rabbino, in base al parere del medico e del malato.
La sera del Kippùr si prega indossando il tallèt.
I Maestri sottolineano che il Kippùr ha valore espiatorio solo per chi si pente e crede nel suo valore; ciò significa tra l’altro che la giornata vale effettivamente se la partecipazione non è solo puramente formale.
Alla fine del digiuno si fa l’havdalàh omettendo la benedizione sui profumi; per quella sulla luce bisogna stare attenti ad usare u lume che era già acceso durante la giornata.
La fine del Kippùr è da considerare quasi come un giorno festivo. È buona norma iniziare subito la costruzione della Sukkà.
Sukkòt
Il precetto più caratteristico di sukkòt è la capanna, la Sukkà. Nello spazio dove si costruisce la capanna non deve esserci alcuna interruzione tra tetto della Sukkà e cielo; ad esempio non si fa la Sukkà sotto un albero o sotto un balcone.
Il tetto della Sukkà deve essere fatto di materiale vegetale, staccato dalla terra, e che non può diventare impuro; quest’ultima limitazione esclude, ad esempio, qualsiasi oggetto vegetale lavorato che possa in qualche modo fungere da recipiente.
Nella superficie del tetto, l’area priva di copertura deve essere inferiore a quella coperta, ma è bene non mettere una trama troppo stretta da impedire la visione delle stelle.
La Sukkà deve avere delle pareti, che possono essere fatte con qualsiasi materiale. i sono delle misure precise per le dimensioni minime e massime da rispettare nella costruzione della Sukkà.
Durante la festa, la Sukkà deve essere la residenza fissa. Compatibilmente con il clima italiano, ciò significa che bisogna almeno consumarvi i pasti. È obbligatorio mangiare del pane in Sukkà la sera del primo giorno (quest’anno la sera di Venerdì 1 Ottobre). Successivamente fuori della Sukkà si possono consumare solo pasti molto piccoli (con meno di 56 grammi di pane).
Si benedice «lishèv basukkà (sedere nella capanna)» solo in occasione dei pasti a base di pane o di farinacei in quantità superiore ad alcuni limiti da verificare in caso di dubbio.
Se piove in abbondanza si è esentati dall’obbligo. Si sta in Sukkà fino a Hosha’nà Rabbà compresa (Venerdì 8 Ottobre).
Dopo la Sukkà, la seconda caratteristica della festa è il mazzo di quattro specie, da prendere per agitare al momento della recitazione della relativa benedizione, durante la lettura dell’Hallèl.
Il mazzo comprende, come è noto, un ramo di palma ancora chiuso (lulàv), 2 rami di salice (‘aravà), 3 di mirto (hadàs) e un cedro (etròg). Generalmente la comunità, per mezzo del rabbinato, mette in commercio le quattro specie già pronte e selezionate: esistono infatti numerose regole da rispettare per la corretta scelta delle specie.
Il rito delle quattro specie si celebra di giorno, per ogni giorno della festa, cioè fino a Hosha’anà Rabbà compresa, escluso il Sabato. Quest’anno il Sabato coincide con il primo giorno della festa, per cui non vigono alcuni rigori speciali; in particolare, il secondo giorno della festa (domenica 3) in cui si inizia con il lulàv non è necessario per questo sia di proprietà personale di cui lo usa per recitare la benedizione. Si può quindi usare un lulàv preso in prestito.
Il mazzo si prende con la destra e il cedro con la sinistra; lo si agita ai quattro punti cardinali e in alto e in basso, secondo ordini differenti nei vari riti.
Il settimo giorno della festa, Hosha’nà Rabbà, si acquistano dei rami di salice, che si usa battere alla fine della Tefillà; è buon uso conservare ciò che rimane di questi rami fino alla vigilia di Pésach per bruciarvi il chamètz.
La sera di Venerdì 8 inizia Sheminì ‘Atzèret. La mattina successiva, nella preghiera di Musàf, si inserisce la formula per la richiesta della pioggia nella ‘Amidà.
La sera di Sabato 9 inizia Simchàt Torà, caratteristica per la cerimonia delle Haqqafòt; ogni comunità italiana ha tempi e modi particolari per la celebrazione di questo rito.
Una scuola di Ferrara alla scoperta della Comunità Israelitica
«Dalle nostre ricerche, dalle nostre letture, dalle testimonianze siamo venuti a conoscenza che nella nostra città esiste una comunità che: ha una religione diversa dalla nostra; ha tradizioni diverse dalle nostre; ha un profondo attaccamento alle tradizioni; ha un forte richiamo alle origini; è orgogliosa di appartenere al popolo ebraico; ha grande spirito di solidarietà; ha una storia che fa parte della storia della nostra città; ha subito persecuzioni; ha sofferto; ha pagato un prezzo di vite umane molto alto a causa della sua «diversità». Siamo giunti così alla conclusione che questa comunità: è completamente inserita nella vita della città; mantiene una propria individualità; ha il diritto di essere riconosciuta e rispettata». Questa la conclusione di una ricerca condotta dagli alunni delle classi III, IV e V della scuola elementare C. Govoni di Ferrara sul tema «La Comunità Israelitica Ferrarese», tema risultato vincitore del concorso «La nostra città». Ma ricerca è stata pubblicata su un inserto-guida della rivista «La Pianura» edita dalla Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Ferrara, nell’ultimo numero del 1981.
Il lavoro è stato condotto dai ragazzi, guidati dai loro insegnanti, con grande rigore, coinvolgendoli tutti nella ricerca di documenti storici e comunitari, fotografie, bandi, mappe e piante, libri religiosi ebraici e interviste ai cittadini ferraresi. Ne hanno poi tratto statistiche, dati storici e conclusioni. La ricerca è divisa in diverse parti. Nella prima – «Chi sono gli ebrei?» – accanto alla riproduzione delle due lapidi che ricordano il tributo di sangue pagato dagli ebrei durante la II guerra mondiale, e la deportazione degli ebrei ferraresi, è riportata la serie di domande sugli ebrei rivolte dai ragazzini ai loro concittadini e le risposte ricevute, da cui poi sono indotte statistiche e conclusioni: «La maggioranza delle persone intervistate considera gli Ebrei uomini uguali a noi, anche se hanno religione e tradizioni diverse; però esistono ancora persone intolleranti che li ritengono molto diversi e da perseguitare».
Segue la storia degli ebrei ferraresi, dal 1088, data che si trova su una lapide funeraria in memoria di una donna ebre a nome Sara, fino ai giorni nostri. La presenza ebraica nella città all’epoca degli Estensi è provata da un decreto del 1275 che riconosce agli ebrei alcuni privilegi per esercitare le proprie attività. I giovani ricercatori non mancano di notare, con giusto orgoglio che «Durante le persecuzioni nella Spagna, nel Portogallo e nei paesi dell’Europa del Nord molti ebrei si rifugiarono a Ferrara, perché gli Estensi li accolsero favorevolmente. Essi portavano ricchezza e perciò non esisteva nessuna differenza tra loro e gli altri cittadini del ducato». Questo stato di cose durò finché, nel 1598 lo Stato Pontificio estese il suo dominio su Ferrara, e cominciarono le discriminazioni e le limitazioni per gli ebrei: obbligo di portare il segno giallo, divieto di possedere immobili e di esercitare professioni liberali; infine nel 1627 la concentrazione nel ghetto (e in proposito viene riprodotto il decreto «Capitoli sopra il ghetto degl’hebrei»). Salvo la breve libertà nel periodo napoleonico, nel ghetto gli ebrei ferraresi rimasero fino al 1859, quando, durantela II guerra di indipendenza, l’Emilia si ribellò allo Stato Pontificio e fu annessa al Piemonte. Gli ebrei ottennero tutti i diritti civili e politici. Ma poi vennero le leggi razziali del 1938, 200 ebrei furono deportati nei lager nazisti; solo cinque fecero ritorno.
Gli allievi della Govoni si occupano anche della cultura ebraica a Ferrara, ricordando come nel 1485 ser Samuel Melli istituì una scuola per bambini ebrei provenienti da famiglie povere nei locali della Sinagoga, e la fondazione, nello stesso edificio, dell’Accademia Rabbinica (tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500), la quale «preparava i rabbini, cioè i sacerdoti, per celebrare i riti religiosi, e i maestri delle scuole ebraiche. Riscuoteva denaro dalle persone benestanti per donarlo a quelle che per calamità naturali o disgrazie ne erano state private; giudicava anche le persone che trasgredivano le leggi della comunità». Fungeva insomma da Collegio Rabbinico, da commissione contributi e da Beth Din (Tribunale Rabbinico).
La vita degli ebrei nel ghetto è accuratamente descritta, e corredata da cartine, disegni e fotografie; oltre che dalla storia delle tre sinagoghe allora esistenti – di rito italiano, spagnolo e tedesco – e dei cimiteri ebraici.
È inoltre ricordato il contributo degli ebrei alla vita economica, politica e culturale della città; sono riprodotte le due lapidi che commemorano i caduti ebrei delle guerre risorgimentali e della Liberazione. Una foto di Giorgio Bassani e del frontespizio del suo libro «Le storie ferraresi» illustrano l’attività dello scrittore, ed è menzionata la sua carica di presidente di «Italia Nostra».
Particolarmente interessante la parte che tratta della presenza ebraica nel tempo, da cui risulta che sotto gli Estensi gli ebrei costituivano circa un quinto della popolazione (si calcola fossero 2000); che molti di essi seguirono poi gli Estensi a Modena; che anche negli anni della dominazione pontificia il loro numero non subì flessioni «… per la tolleranza dimostrata dalla popolazione ferrarese verso di loro». Mentre nel nostro secolo la popolazione ebraica ferrarese è andata diminuendo, per spostamenti a causa di lavoro in altre città, o fuori dell’Italia per le persecuzioni razziali; per le eliminazioni nei campi di sterminio e per le emigrazioni in Israele. Oggi la comunità ferrarese è di circa 200 persone, ed «… e costituita in maggioranza da persone anziane».
Nelle pagine seguenti, i giovani ricercatori si sono sbizzarriti nell’illustrare con disegni, collages, dipinti, le maggiori ricorrenze e festività ebraiche, pregevolmente riprodotte anche a colori. L’ultima ricorrenza che viene ricordata è il 10 di Teveth. Il disegno mostra un forno crematorio e un reticolato di filo spinato, con figurine simbolicamente vestite da carcerati, con i nomi dei campi di concentramento più tristemente noti. «Ogni anno il 10 di Teveth – dice la didascalia – noi ricordiamo le vittime delle persecuzioni di tutti i tempi e il loro ricordo ci deve servire di monito e di insegnamento.
I.D.N.