Gli inserti di Alef Dac Gli ebrei d’Etiopia |
Rassegna delle riviste (J.N. Pavoncello) |
Indice Alef Dac |
Tra storia e leggendaSecondo stime approssimative il numero attuale degli ebrei etiopi si aggirerebbe intorno ai 25-30.000. Il numero si riferisce a coloro che hanno mantenuto la tradizione ebraica. Esisterebbe poi un’altra fascia di popolazione, molto più ampia, di convertiti al cristianesimo negli ultimi decenni per influsso delle missioni protestanti o sotto altre pressioni e che continuerebbe a vivere in una posizione intermedia, né ebraica, né cristiana.La collocazione geografica tradizionale è nelle regioni nord orientali dell’Etiopia, sopra al lago Tana; alcuni gruppi si sono spinti nello scorso secolo più a est, nelle zone del Tigré. A seguito delle recenti vicende si valuta che un terzo della popolazione è rimasto nelle sedi originarie, un terzo è arrivato in Israele, mentre un altro terzo sta emigrando o attende di trasferirsi dal Sudan. | Una lunga serie di incontriMentre il mondo ebraico non sapeva praticamente nulla di loro, se non delle leggende imprecise, furono dei rabbini italiani trasferiti in Palestina a fornire, nelle lettere che spedivano alle loro famiglie, qualche prima indicazione.Rabbì Eliahu di Ferrara, a Gerusalemme nel 1425; così raccontava dieci anni dopo ai suoi figli rimasti in Italia quanto aveva appreso da un ebreo venuto dall’Etiopia. | Sono ebrei i falasha?I due rabbini Capi d’Israele – Shapira ed Eliahu – hanno respinto decisamente le critiche loro rivolte circa la questione del “Ghiur lechumrà” (conversione per maggior rigore) richiesto agli Ebrei di Etiopia. I Rabbini hanno precisato che non viene messa in dubbio l’ebraicità dei falasha sia del RiDbaZ (Rabbi David Ben Zimrà, rabbino capo d’Egitto del XIV sec.) che stabilisce che i falasha sono discendenti della Tribù di Dan. | Reazioni della stampaLe reazioni della stampa italiana all'”operazione Mosè”, che ha portato più di 10.000 ebrei etiopi in Israele, sono state abbastanza unanimi nel sottolinearne l’importanza e la necessità, insieme alla speranza che tale operazione si possa presto felicemente concludere fino al rimpianto dell’ultimo ebreo rimasto in Etiopia. Tutti i maggiori giornali hanno dato notevole risalto all’evento, e le pagine culturali e di politica estera si sono riempite ripetutamente di articoli e servizi, con tanto di cartine geografiche, non solo riguardo all'”operazione Mosè”, ma anche a simili operazioni svolte nel passato per altre comunità. |
Le origini degli ebrei di Etiopia
“In quel giorno il Signore si prenderà nuovamente il resto del Suo popolo, rimasto dall’Assiria… e dall’Etiopia… e alzerà un vessillo ai popoli e raccoglierà i dispersi d’Israele… dai quattro angoli della terra”.
(Isaia 11: 11-12)
Il nome “falasha“
La pronuncia corretta del nome è falàscia; l’uso comune di accentare l’ultima “a” è di influsso francese (è soprattutto in questa lingua che nel secolo scorso si cominciò a parlare di loro), ed è improprio.
Falasha significa, a quanto pare, forestiero, straniero, ed è il nome con il quale gli altri Etiopi chiamano gli ebrei; ha comunque un’accezione negativa, che gli ebrei non gradiscono. Essi preferiscono definirsi tradizionalmente come “beth Israél”. casa di Israele.
Quanti sono e dove vivono
Secondo stime approssimative il numero attuale degli ebrei etiopi si aggirerebbe intorno ai 25-30.000. Il numero si riferisce a coloro che hanno mantenuto la tradizione ebraica. Esisterebbe poi un’altra fascia di popolazione, molto più ampia, di convertiti al cristianesimo negli ultimi decenni per influsso delle missioni protestanti o sotto altre pressioni e che continuerebbe a vivere in una posizione intermedia, né ebraica, né cristiana.
La collocazione geografica tradizionale è nelle regioni nord-orientali dell’Etiopia, sopra al lago Tana; alcuni gruppi si sono spinti nello scorso secolo più a est, nelle zone del Tigré. A seguito delle recenti vicende si valuta che un terzo della popolazione è rimasto nelle sedi originarie, un terzo è arrivato in Israele, mentre un altro terzo sta emigrando o attende di trasferirsi dal Sudan. Le notizie sull’emigrazione dall’Etiopia al Sudan sono frammentarie e parzialmente coperte dal segreto. Si sa comunque che il trasferimento, che avviene a piedi a dura settimane è estremamente rischioso e sarebbero moltissimi coloro che sono caduti nel cammino, per fame, malattie e violenze esterne di ogni tipo.
Le origini degli ebrei dell’Etiopia, tra storia e leggenda
Il problema delle origini dell’ebraismo etiopico è estremamente complicato; non esiste finora alcun dato decisivo che possa dirimere tra le numerose e diverse ipotesi, tra storia e legenda, che sono state formulate.
Un dato è comunque certo: fin dai tempi biblici la regione conobbe insediamenti ebraici.
Dai tempi della Bibbia
Una prima prova in questo senso è rappresentata da diversi brani biblici che accennano a una presenza ebraica in Kush, regione che i commenti tradizionali e scientifici identificano in prevalenza con la terra delle sorgenti del Nilo, tra Sudan ed Etiopia.
Il profeta Zefanià, delle seconda metà del VII sec. av. e. v., dice al cap. 3: “Al di là dei fiumi di Kush, Atarai bat Putzài mi porteranno la loro offerta” (v.10). Non è affatto chiaro cosa intendano le tre parole che abbiamo riportato in trascrizione. Mentre qualcuno dice che si tratta di popoli non identificati, la tradizione (espressa ad esempio dal francese Ra. SH. I. dell’XI sec.) le interpreta come parole ebraiche e quindi rende Atarai come “coloro che mi pregano”, e bat Putzài come “le comunità delle mie dispersioni che ho sparso”. Non sappiamo cosa intendesse Zefanià, ma è certo che una tradizione rabbinica vi ha visto un accenno all’esistenza di ebrei in Etiopia.
Più chiaro il brano di Isaia 11: 11-12, che in una profezia messianica afferma:
“In quel giorno il Signore si prenderà nuovamente il resto del Suo popolo, rimasto dall’Assiria, e dall’Egitto e da Patros e dall’Etiopia (Kush), da Elam e da Shinar, da Chamat e dalle isole del mare e alzerà un vessillo ai popoli e raccoglierà i dispersi di Israele, radunerà le dispersioni di Jehudà dai quattro angoli della terra.
Quale che sia l’interpretazione del brano, che la tradizione crede sia stato scritto nell’VIII secolo av. e V., abbiamo un documento dell’esistenza di ebrei nella regine di un’epoca assai remota.
Qualcuno crede di vedere un’allusione ad ebrei etiopi anche in un altro brano di Isaia, nel capitolo 18, che per la sua estrema difficoltà di interpretazione non consente tuttavia conclusioni probanti.
La regina di Saba
Collegata a un racconto biblico, ma di natura leggendaria, è la storia dell’origine della dinastia reale etiopica, comune alle fonti ufficiali cristiane e a quelle ebraiche. Quando la regina di Saba andò a far visita al re Salomone, ebbe da lui un figlio, Menelik, che crebbe alla corte del padre. Una volta grande. Salomone lo nominò re d’Etiopia, e lo congedò con grandi ricchezze, facendolo accompagnare da un grande seguito di servi. Dal figlio di Salomone sarebbe originata la dinastia dei Salomonidi (un vanto mantenuto fino all’ultimo Negus, Haile Selassie); dal seguito di ebrei il primo nucleo di popolazione ebraica. D’altra parte gli stessi Etiopi dichiarano che prima di cristianizzarsi, nel terzo secolo professavano la religione ebraica. L’imperatore d’Etiopia portava il titolo di “Leone di Giuda”.
La leggenda delle tribù disperse, la tribù di Dan e il Prete Gianni
Secondo il racconto della Bibbia dopo lo scisma tra regno di Israele, o del Nord, e regno di Giuda, furono gli Assiri a distruggere il primo nell’anno 721 av. e. v. circa, deportandone dalla Palestina gli abitanti. Uguale sorte toccò poi al regno di Giuda che cadde nel 586 sotto i colpi dei Babilonesi. La sorte degli esuli di questo regno, costituito dalle tribù di Giuda e Beniamino, è nota: fu loro concesso da Ciro di tornare in Palestina, e da loro deriva il popolo ebraico di oggi. Del ritorno dei primi esuli, le dieci tribù, le fonti ufficiali non dicono nulla, ed è verosimile che siano scomparsi assimilandosi agli altri popoli presso i quali erano stati deportati.
L’ignoranza della loro sorte lasciò comunque spazio allo sviluppo di teorie e legge,te che già troviamo nella letteratura talmudica. Alcuni maestri discussero sulla possibilità di un ritorno delle dieci tribù: Rabbì Aqivà in proposito era scettico, ma il suo maestro R. Eliezer dichiarava: “come il giorno nasce dalla notte, così il buio delle dieci tribù in futuro diverrà per loro luce” (Sanh. 110). Secondo Mar Zutrà gli Assiri avrebbero portato le dieci tribù in Africa (Sanh. 94).
Tra i maestri vi era comunque una diffusa convinzione che il luogo dell’esilio delle 10 tribù fosse ben focalizzato e diverso da quello che il destino aveva riservato alle altre due tribù, che erano invece sparse per tutta la terra. Un’ulteriore evoluzione di questa convinzione era che il territorio p articolare fosse delimitato da un mitico fiume, il Sambation; di questo si parla anche in altri brani (e ne parlano anche autori non ebrei come Plinio), citando la sua caratteristica più importante, da cui deriva il nome e che è quella che ferma il suo corso durante il Sabato.
Nel nono secolo queste fonti leggendarie furono ulteriormente elaborate da un testo, il racconto di Eldad Danita, che avrebbe avuto un enorme influsso sull’ebraismo medioevale. Eldad distinse diversi nuclei: un primo gruppo che raccoglieva una parte delle dieci tribù, collocato in Asia, un secondo gruppo collocato in Etiopia; in prossimità di quest’ultimo, ma separato dal fiume Sambation, un altro nucleo, costituito da discendenti della tribù di Levi.
Il nucleo etiopico, dal quale Eldad, il narratore, dichiara di aver iniziato il suo lungo viaggio (secondo alcuni critici Eldad era appunto un ebreo etiope), è costituito da quattro tribù: Dan, Gad, Ashèr e Naftalì. Eldad ne descrive le attività agricole e il benessere economico; si sofferma in particolare sulla condizione di indipendenza del gruppo, governato da un proprio re, con giudici e tribunali che applicano la pena capitale. Illustra poi le attitudini militari del gruppo, che organizza frequenti campagne in cui semina il terrore dei territori vicini.
Sull’origine dell’insediamento della tribù di Dan in quella regione, Eldad riferisce una nuova leggenda: ai tempi della biblica scissione dei due regni d’Israele Geroboamo chiese alla tribù di Dan, la più potente del suo regno dal punto di vista militare, di armarsi e muovere guerra al regno di Giuda. Ma la tribù rifiutò di impegnarsi in una guerra fratricida e non potendo vincere l’opposizione del re fu costretta ad emigrare in massa. Dapprima pensò di fermarsi in Egitto, ma fu il ricordo di un verso biblico (Esodo 14: 13) a bloccare il progetto. Si diressero quindi più a Sud, finché arrivarono in Etiopia e la trovarono adatta per l’insediamento, con l’accordo della popolazione locale. Successivamente a loro si aggiunsero le altre tre tribù e i rapporti con i non ebrei si guastarono e vi furono guerre che durano fino a quest’oggi.
È ben difficile distinguere il nucleo di verità storica dalle sovrapposizioni, verosimilmente più abbondanti, di natura leggendaria. È comunque un fatto che ai tempi in cui il racconto cominciò a diffondersi nel mondo ebraico gli ebrei etiopi erano forti militarmente e indipendenti.
Queste notizie ebbero grande risonanza tra gli ebrei perché contenevano un messaggio di speranza, di forza e indipendenza mai sopita. Fu probabilmente per soffocare questi sentimenti che tre secoli dopo, quando si diffuse presso i cristiani la leggenda del Prete Gianni, il discorso fu ripreso in termini polemici.Il Prete Gianni era re e sacerdote cristiano di un paese orientale lontano che fu identificato di volta in volta con una regione differente, e finalmente, nella seconda metà del XIV secolo, fu assimilato all’Etiopia. Già nella famosa lettera che il Prete avrebbe spedito all’imperatore d’Oriente – o al papa, o all’imperatore Federico – (a quanto pare un falso preparato da Cristiano, arcivescovo di Magonza, morto nel 1183), e nella quale descriveva la sua potenza e grandezza, si parlava di dieci tribù ebraiche, descritte con gli stessi termini di Eldad, ma con una sola significativa differenza: le tribù, anche se ancora autonome e con loro re, erano asservite al Prete e gli pagavano tasse e tributi. Un modo per dire agli ebrei di quel tempo di non illudersi troppo, in attesa di salvezze lontane, perché anche le tribù lontane erano state asservite.
Anche qui non si può fare a meno di notare, con tutte le cautele per la natura leggendaria del materiale e le sue manipolazioni politiche più o meno evidenti, la concordanza con il dato storico della diminuita potenza militare e politica degli ebrei d’Etiopia, che si verifica proprio nell’arco di secoli in cui la leggenda cristiana si diffonde e viene riferita all’Etiopia.
Le tesi degli storici: da Elefantina, dalla costa dello Yemen
Il problema delle origini rimane dunque ancora aperto. Nell’analisi del problema dominano due dati importanti: 1) l’aspetto fisico degli ebrei etiopi, che razzialmente è simile a quello della popolazione indigena e non ha confronti con il resto del mondo ebraico; 2) la pratica religiosa, basata essenzialmente sulla normativa biblica e che non conosce la tradizione dell’ebraismo rabbinico; basti pensare, per quanto riguarda le feste, che non si conoscono né Channukkà né Purìm. Sono dati che da un lato fanno pensare a un’inevitabile mescolanza etnica con ceppi di popolazione locale e dall’altro impongono di considerare come molto antiche, precedenti all’ebraismo rabbinico, le origini del gruppo e il suo distacco netto dal resto del mondo ebraico.
Una delle tesi più accreditate per spiegare le prime origini si basa su un’importante scoperta archeologica avvenuta agli inizi di questo secolo nell’isola di Elefantina (Jeb), sul Nilo, all’altezza della prima cataratta, davanti ad Assuan. Nell’isola furono rinvenuti dei preziosi papiri in lingua aramaica, che fecero luce su un episodio di cui qualche traccia storica era stata conservata solo nella lettera di Aristea. Nella zona, che rappresentava il confine meridionale dell’Egitto, era esistita da prima del VI secolo av. e. v. una guarnigione di soldati ebrei mercenari al servizio dei Faraoni, che aveva il compito di proteggere il punto più delicato del confine. Nell’isola era stato costruito anche un importante edificio religioso ebraico, un santuario, ad imitazione di quello più importante di Gerusalemme, dove si offrivano sacrifici.
Dopo i Faraoni, il territorio passò sotto il dominio persiano; i re persiani furono tolleranti e protessero la vita della comunità ebraica, mentre da parte egiziana crebbe nei suoi confronti un forte sentimento di ostilità. Quando nel 404 l’Egitto si rivoltò dalla dominazione Achemenide, la guarnigione ebbe certamente a soffrirne; sta il fatto che dal 400 av. e. v. non ne abbiamo più notizie.
A questo punto sono in molti a sostenere che dopo la distruzione della guarnigione il gruppo di superstiti fu costretto a riparare verso Sud, arrivando quindi in Etiopia e costituendo il primo nucleo ebraico, forte di proprie intense tradizioni religiose (non rabbiniche) e di ricca esperienza militare. Si ammette anche che la maggioranza essendo costituita da militari, quindi uomini, fu giocoforza per la sopravvivenza del gruppo sposare donne locali che furono fatte ebree (ma vi era un illustre precedente: anche Mosè, esule perseguitato dall’Egitto, aveva sposato una donna “kushìth”: cfr. Es; 2: 21 e Nu 12, 1). Di qui la mescolanza etnica e la particolare forma di religione.
Potrebbero esservi stati successivamente altri afflussi di ebrei dall’Egitto: la lettera di Aristea parla di centomila ebrei che furono portati come prigionieri di guerra da Tolomeo I Sotèr, nel 320 av. e. v., in Egitto, e che furono successivamente liberati dal suo successore, Tolomeo II Filadelfo.
Un’altra tesi ritiene che il gruppo abbia avuto origine da insediamenti sulla cosa del mar Rosso, che dopo la cristianizzazione dell’Etiopia furono progressivamente respinti all’interno.
Un’ultima tesi si richiama ad un episodio storico reale, la conquista dello Yemen da parte della dinastia etiopica aksumita. In seguito a persecuzioni di cristiani avvenute in Yemen, dove esiste a una forte popolazione ebraica influente anche sul potere reale, nel 525 il re Kaleb fece guerra allo Yemen e riunì ad assoggettarlo, riportando in patria un gran numero di prigionieri ebrei, che furono concentrati in regioni interne impervie e ai quali – così dice un preciso documento – fu proibito di sposarsi tra di loro o con altri ebrei del paese. Se la notizia è vera avremmo un altro documento sulla preesistenza ebraica e un’altra ragione per spiegare la mescolanza etnica e la sensibile consistenza numerica del gruppo, che nei secoli successivi avrebbe costituito un regno indipendente.
Le varie tesi non sono necessariamente in contrasto; è verosimile che il gruppo si sia formato in ondate migratorie successive.
La storia degli ebrei d’Etiopia: secoli di guerre per salvare la propria identità
Dalle cronache etiopiche cristiane ricaviamo dei dati dai quali è possibile ricostruire secoli di storia della comunità ebraica, che si caratterizza per una l unga serie di eventi militari. Gli ebrei etiopici godevano, almeno nei primi secoli, di grande autonomia se non proprio di indipendenza, e avevano propri sovrani. I re si facevano perlopiù chiamare con il nome biblico di Gedeone, e le regine Judit. Le notizie più antiche trasmesse dalle cronache parlano di una campagna condotta nel 1960 o 970 dagli ebrei, alleati a tribù Agau, contro la dinastia Aksumita. La vittoria fu degli ebrei, guidati dalla regina Judit (in altre fonti il nome è Ester) e il potere centrale rimase nelle loro mani per almeno quarant’anni; poi passò a una dinastia cristiana Agau, che probabilmente era legata a vincoli di sangue con elementi regali ebraici, convertitisi per motivi di opportunità politica.
Dal 1268 il potere tornò in mano alla dinastia dei Salomonidi, che nei riguardi degli ebrei iniziò una nuova politica, tendente alla progressiva limitazione della loro indipendenza. Il Negus Amda Zion (1314-1344), che si proclamava difensore della fede cristiana, facendosi chiamare “uomo della croce”, intraprese una campagna contro i regni musulmani ai confini dell’Etiopia. Gli ebrei non si fecero sfuggire l’occasione per ribellarsi; seguì una campagna di repressione che li vide sconfitti, ma non senza perdite per il vincitore. Il generale che condusse la campagna contro di loro si limitò a respingerli nei loro territori originari.
Il Negus Isac (1414-1429) riuscì ad eliminare gli insediamenti ebraici nelle regioni di Uogara e Dembie, costruendo chiese sulle rovine delle sinagoghe.
Si racconta che fu costretto a rimuovere dai loro incarichi 24 giudici etiopici che avevano avuto il coraggio di protestare contro le ingiustizie fatte agli ebrei, e questo rende l’idea del clima esistente nei loro confronti.
Poco dopo, il Negus Zara Jaqov (1434-1468) si volle fregiare del titolo di “sterminatore degli ebrei”, in un momento in cui la tensione tra i due gruppi cresceva. Risale proprio a quel periodo la leggenda raccontata dagli ebrei della conversione all’ebraismo e alla vita monacale di uno dei figli del re.
Episodi sanguinosi furono registrati sotto il successore di Zara Jaqov, Baeda Mariam (1468-1478), che dopo una guerra durata sette anni sconfisse gli ebrei, ne seminò strage e ne costrinse molti alla conversione. La cosa provocò, in strana coincidenza con gli avvenimenti della penisola iberica, un ampio fenomeno di “marranesimo”, che il Negus Naod (1494-1508) represse sanguinariamente dietro sollecitazione della chiesa.
I decenni successivi sono quelli dell’invasione musulmana e della guerra di liberazione che i cristiani di Etiopia riuscirono a vincere con l’aiuto dei Portoghesi. Anche se non è molto chiara la dinamica degli avvenimenti, sembra che all’inizio gli ebrei furono dalla parte cristiana, ma sotto l’imperatore Claudius (1540-1559) i rapporti si deteriorarono al punto che il re Joram fu messo a morte dall’imperatore.
A Joram successe Redai, che combatté con successo contro l’imperatore Mines (1559-1563), ma fu poi sconfitto da Sciaraza Dangal (1563-1597). Su questa guerra abbondano i particolari; gli ebrei adottarono la tattica della “terra bruciata”, mentre i cristiani, per la prima volta, usavano contro di loro armi da fuoco. A Redai sconfitto fu concessa la libertà sua e della sua famiglia. Le cronache raccontano l’eroismo dei prigionieri, come quello di una donna fatta prigioniera, che preferì alla schiavitù il suicidio, gettandosi in un corso d’acqua e uccidendo insieme il carceriere che la teneva legata a sé.
Neppure questo bastò a sopire gli ebrei. Subito dopo si ribellarono, condotti da Gosciàn; l’ennesima sconfitta, dopo iniziali vittorie, fu segnata dal suicidio di Gosciàn e della sua famiglia, che si gettarono dall’alto di un monte: un episodio che suscitò l’ammirazione del cronachista cristiano.
L’ultimo grande episodio militare avvenne ai tempi del Negus Susenius (1607-1632), quando gli ebrei appoggiarono una rivolta contro l’imperatore. La cosa non fu perdonata e iniziò l’ennesima sanguinosa campagna, alla fine della quale la resistenza degli ebrei, guidati dal mitico Ghedeuon, fu definitivamente spezzata. Iniziò per gli ebrei un periodo di sottomissione, dispersione, prostrazione: fu loro tolta la proprietà delle terre, per cui continuarono a dedicarsi all’agricoltura, ma solo come salariati. Inoltre si concentrarono su attività artigianali, in particolare nella lavorazione dei metalli, attività che nella cultura di quelle regioni africane sono tabuizzate e considerate spregevoli.
Dopo la rovina politica e lo stato di prostrazione economica un’ultima causa di avvilimento e disgregazione fu il massiccio intervento delle missioni cristiane: dopo un insuccesso dei Gesuiti, arrivarono alla metà del XIX secolo delle missioni protestanti che riuscirono a convertire molti ebrei.
Accanto a questi episodi di rinuncia, si registrano anche fatti di segno opposto. Ad esempio nel 1860 un sacerdote ebreo si convinse che era arrivata l’ora della redenzione e animò un movimento di ritorno a Gerusalemme.
Si mosse quindi alla guida di un gruppo, che arrivò alle rive del fiume Tacazzè, in quel momento in piena; dopo aver attesto qualche giorno, pensò di poter passare come aveva fatto Mosè, stendendo il suo bastone sull’acqua. Sceso nel fiume vi trovò la morte assieme ad altri che era riuscito a convincere a bagnarsi. I sopravvissuti decisero allora di fermarsi e istituirono i capostipiti del gruppo che vive ancora nel Tigré.
(adattamento di u articolo di M. Wormbrand, da Ghesher, 6: 4; altre notizie da M. Bar Juda, Machanaim, 93-94).
RDS
Ebrei italiani ed etiopi
Per una singolare serie di coincidenze nel corso della storia vi sono stati ripetuti contatti tra gli ebrei di Etiopia e gli ebrei italiani; sono dati di epoca e natura diversa, che hanno comunque come denominatore comune il ruolo dell’ebraismo italiano.
Le lettere di rabbini italiani dalla Palestina
Mentre il mondo ebraico non sapeva praticamente nulla di loro, se non delle leggende imprecise, furono dei rabbini italiani trasferiti in Palestina a fornire, nelle lettere che spedivano alle loro famiglie, qualche prima indicazione.
Rabbì Eliahu di Ferrara, a Gerusalemme nel 1425,così raccontava dieci anni dopo ai suoi figli rimasti in Italia quanto aveva appreso da un ebreo venuto dall’Etiopia:
“Questi ebrei sono indipendenti, e sono circondati da un grande popolo, gli abissini, che portano un segno della croce sul loro volto e combattono sempre contro di loro. Questi ebrei hanno una loro lingua, che non è né ebraico né arabo, e hanno la Torà e un relativo commento orale, ma non hanno né il Talmud né i nostri Posqìm (codificatori della legge). Ho interrogato attentamente (quest’ebreo) su alcune regole, e in alcune tendono ad accogliere le nostre opinioni (quelle dei Rabbaniti) e in altre le opinioni dei Caraiti; hanno il rotolo di Ester ma non Chanukkà. Sono lontani da noi un cammino di sei mesi, e nella loro terra scorre il fiume Gozàn”.
Notevole l’analisi precisa die dati, accompagnata dalla perplessità critica sulla natura particolare del culto ebraico: l’assenza di una tradizione rabbinica poneva come primo problema l’eventuale identificazione con i Caraiti, che l’avevano rifiutata, ma Eliahu notava che anche con loro l’identificazione non era possibile.
Quasi mezzo secolo dopo, nel 1488, R. Ovadià di Bertinoro scriveva da Gerusalemme a suo padre in Italia:
“Ho saputo senza dubbio che in uno dei territori del regno del Prete Gianni… sicuramente abitano dei figli d’Israele e hanno cinque principi o re, e si dice che è più di cento anni che combattono contro il Prete Gianni, guerre grandi e poderose; ma negli ultimi tempi, purtroppo, il Prete Gianni è riuscito a prevalere, e ha loro inflitto una grave sconfitta, è entrato nelle loro terre e ha distrutto fino a quasi far scomparire il ricordo d’Israele da quel luogo. Ai sopravvissuti ha imposto leggi per costringerli all’abiura, come quelle dei greci ai tempi degli Asmonei. Alla fine Dio ha avuto pietà di loro, e sono sorti in India dei re non altrettanto duri quanto il primo, tanto che ora, si dice, quasi si è tornati all’antico splendore e si sono moltiplicati. Ancora sono tributari del Prete Gianni, ma non sono piegati come prima. E ora, da quattro anni i figli d’Israele hanno fatto guerra ai loro vicini… ma alcuni di loro sono stati fatti prigionieri e venduti come schiavi a popoli lontani; alcuni di loro sono stati portati in Egitto e riscattati dagli ebrei del luogo. E io ne ho visti due di loro in Egitto, e sono un poco neri, ma non come gli Etiopi, e non si poteva distinguere se fossero osservanti della Torà dei Rabbaniti o di quella dei Caraiti, perché in alcune cose sembravano osservare regole caraite, quando dicevano che in casa loro di Sabato non vi era fuoco acceso, e in altre cose sembrano rispettare le leggi rabbanite. Ed essi dicono di discendere dalla tribù di Dan. E dicono che la maggior parte del pepe e delle spezie che vendono gli Etiopi proviene dalla loro terra”.
David Reuvenì
Tra il 1517 e il 1523, un altro rabbino proveniente dall’Italia, Israel Ashkenazi da Perugia, così raccontava:
“Nell’ultima settimana c’è stato quell’ebreo che era stato prigioniero e venduto varie volte fino ad arrivare ad Alessandria d’Egitto dove gli ebrei avevano pagato una forte somma per riscattarlo; ed è quasi negro. Ci ha raccontato che nella sua terra vi sono migliaia e decine di migliaia di ebrei e hanno un grande re che ha fatto continuamente guerra ai cristiani a lui vicini, e sta al lato del Nilo, il fiume Nilo d’Egitto, ed è diverso da un altro re che sta in Singlan, lontano quaranta giorni dall’Eden, e che assoggetta musulmani e cristiani.
Immediatamente successiva a queste ultime notizie è la straordinaria avventura messianica di Davìd Reuvenì, che nel 1524 si presentò a Roma alla corte del Papa, sostenendo di rappresentare una parte del popolo ebraico che viveva in un paese lontano, forte, indipendente ed armato, e proponendo al pontefice un’alleanza ebraico-cristiana, contro i Musulmani. I punti oscuri di questa vicenda sono ancora oggi numerosi. Tra le varie ipotesi che gli storici hanno formulato per spiegare l’origine di Davìd, si segnala quella di Umberto Cassuto, che in base a questa lettera di Israel Ashkenazi, e altre ancora, sostenne che Davìd Reuvenì era lo stesso personaggio che a Gerusalemme aveva incontrato il rabbino perugino; Reuvenì, conclude Cassuto, proveniva dunque da un gruppo ebraico etiope; e questo, a parte ogni altra impostura, lo autorizzava a parlare di un esercito di ebrei.
Filosseno Luzzatto
Dopo questo risveglio di interesse rinascimentale per il problema passarono più di tre secoli prima che la questione fosse risollevata. Fu il figlio di Samuel David Luzzatto, Filosseno (Ohèv Gher) che ripresentò la questione in termini scientifici dal 1843. Luzzatto raccolse dei dati nuovi sugli ebrei d’Etiopia per mezzo dell’etnologo Antoine D’Abbadie, che partiva per l’Etiopia; le informazioni ricevute furono poi acutamente analizzate in una serie di pubblicazioni, dal 1851 al 1853, negli Archives Israelites de France, il primo studio serio moderno sull’argomento.
Margulies e il Comitato Pro-Falasha
La Francia fu la sede dei primi nuclei di attivismo tendente a portare il saluto e l’aiuto degli ebrei del resto del mondo al gruppo etiopico, che verosimilmente a quei tempi riteneva essere rimasto l’unica popolazione ebraica sulla terra.
L’attivismo di Josèph Halevy, e quello del suo discepolo Jacob Faitlovitch (il grande protagonista dell’incontro tra i due mondi ebraici) incontrò ripetute e ostinate resistenze nell’ambiente francese dove pure era nato; ciò spinse alla ricerca di appoggi e consensi in altri Stati. Fu a Firenze che Faitlovitch incontrò il rabbino Margulies, che si fece subito promotore di iniziative, creando nel 1906 il Comitato Italiano Pro-Falasha. Presto il comitato divenne internazionale e Margulies ne fu il presidente onorario.
L’attenzione degli ebrei italiani per i loro fratelli etiopici poteva in qualche modo dipendere dal particolare rapporto politico esistente in quegli anni tra Italia ed Etiopia. Da Trieste, ancora austriaca, il Corriere Israelitico rilevava la stranezza della creazione del Comitato, in un ambito ebraico molto provinciale che mai si era aperto tanto a rapporti con ebrei di altri paesi; con una certa ironia concludeva che: “Prima di sollevar essi la condizione dei Falasha, i Falasha avran contribuito a rinnovare quella degli ebrei italiani”.
In ogni modo il gruppo fiorentino si dette da fare tangibilmente; tra l’altro ospitò nel locale Collegio Rabbinico dei giovani ebrei etiopici per prepararli come maestri di ebraismo da inviare nelle comunità di origine. Fu l’inizio di una tradizione che è proseguita fino a pochissimi anni fa, mantenuta dalla Scuola Margulies-Disegni di Torino. Tra i primi ad uscire con il titolo di Maskìl, a Firenze, fu Emanuel Taamrat, che sarebbe diventato uno dei leader della rinascita culturale e organizzativa degli etiopici in Israele è un diplomato della scuola rabbinica torinese.
La missione di Carlo Alberto Viterbo
Uno studio recente di Francesco Del Canuto ha messo in evidenza le premesse politiche della famosa missione.
Faitlovitch continuò a più riprese a visitare gli ebrei etiopici. Nel 1935, nell’imminenza dell’invasione italiana, chiese alle autorità italiane l’autorizzazione di recarsi in Eritrea, per mantenere di là i contatti.
A Roma Faitlovitch aveva avuto dei contatti con Afework, l’incaricato d’Affari d’Etiopia, e questi gli aveva espresso la gratitudine per la simpatia dimostrata dall’ebraismo mondiale nei confronti dell’Etiopia minacciata, arrivando a dichiarare, per iscritto, naturale questa simpatia “perché gli Etiopi, popolo e dinastia, si vantano di essere discendenti d’Israele”.
Le autorità italiane videro nel documento, che conobbero attraverso una spia, un pericoloso strumento di propaganda contro il regime e fecero di tutto per bloccarne la diffusione, cercando poi di impedire a Faitlovitch ogni progetto di viaggio nella regione.
Si pose però il problema di rispondere al rischio di una propaganda contraria, e da qui nacque probabilmente una iniziativa ministeriale di una missione ebraica italiana in Etiopia. Questa tesi, sostenuta con documenti probanti da Del Canuto, contrasta con la tesi più o meno ufficiale degli ambienti dell’Unione delle Comunità Israelitiche, che ne hanno sempre genericamente parlato come di una loro iniziativa.
È probabile comunque che l’operazione sia nata dalla convergenza di differenti interessi; da una parte quello politico die Ministri delle Colonie, degli Esteri, e della Stampa e propaganda, dall’altro quello di solidarietà e di assistenza nell’ebraismo italiano, nel momento in cui si presentava un’occasione eccezionale e forse irripetibile. I protagonisti ebrei italiani della vicenda sono insospettabili, per la loro formazione e i loro noti sentimenti ebraici e sionisti. Carlo Alberto Viterbo, che si recò in Etiopia e visitò le locali comunità, era stato allievo di Margulies e ne aveva accettato in pieno l’insegnamento. La missione di Viterbo si svolse nel secondo semestre del 1936 e fu coronata dal successo desiderato. Fu una effimera soddisfazione, alla vigilia della tempesta che avrebbe sconvolto anche l’ebraismo italiano.
RDS
“Operazione Mosè”
Le reazioni della stampa italiana all'”operazione Mosè”, che ha portato più di 10.000 ebrei etiopici in Israele, sono state abbastanza unanimi nel sottolinearne l’importanza e la necessità, insieme alla speranza che tale operazione si possa presto felicemente concludere fino al rimpatrio dell’ultimo ebreo rimasto in Etiopia. Tutti i maggiori giornali hanno dato notevole risalto all’evento, e le pagine culturali e di politica estera si sono riempite ripetutamente di articoli e servizi, con tanto di cartine geografiche e di cifre, non solo riguardo all'”operazione Mosè”, ma anche a simili operazioni svolte nel passato per altre comunità ebraiche.
Pur non lesinando critiche, talvolta, all’operato del governo d’Israele e dell’Agenzia ebraica, sia riguardo alla fuga di notizie che ha causato l’interruzione dell’operazione di salvataggio, sia per quanto concerne le trascorse ambiguità nel comportamento e nelle affermazioni dei massimi dirigenti israeliani sul problema degli ebrei etiopi, queste critiche, tuttavia, non hanno mai assunto i toni aspri e duri più volte usati in un passato assai prossimo, né si è visto l’astio a cui eravamo ultimamente abituati.
Tutti hanno riconosciuto l’umanitarietà dell’operazione di salvataggio, e le eventuali critiche sono state rivolte semmai al non aver fatto abbastanza, in passato e adesso, per gli ebrei etiopi: non ci risulta che alcun giornale, di nessuna parte politica, abbia sposato le tesi della Siria e dell’OLP, e di vari altri paesi arabi (per quanto siano state riportate), che l’emigrazione di ebrei verso Israele vada a danno della nazione araba.
Un fatto interessante può essere, in un certo senso, la parziale riabilitazione, almeno limitatamente a questa circostanza, della figura di Menachem Begin. Vari giornali (p. es., Il Manifesto, Il Messaggero, L’Europeo) hanno abbondantemente sottolineato le responsabilità dei governi a direzione laburista precedenti al ’77 (quando Begin diventò primo ministro) e la resistenza opposta dall’establishment ashchenazita all’arrivo degli ebrei etiopi in Israele, facendo invece risalire a Begin la svolta nella politica del governo israeliano a favore delle operazioni di salvataggio. Così Il Messaggero del 6 gennaio ’85 riporta le parole dei presenti alla riunione del gabinetto dei ministri presieduto da Begin: “Lo Stato ebraico tradirebbe la sua stessa ragione d’essere se non facesse tutto il possibile per salvare da una terribile sorte una comunità le cui radici affondano in un passato biblico, di 2500 anni fa”. All’opposto di questo, viene riportata l’indifferenza spesso ostentata dai massimi dirigenti dello Stato, come Golda Meir, Moshè Dayan ed Ezer Weizman. La Stampa (6 gennaio ’85) e Il Manifesto (8 gennaio ’85) riferiscono la poca felice frase detta nel 1960 da Yisrael Yeshayahu, ex presidente della Kenesseth, che consigliò agli ebrei etiopi di “risolvere i propri problemi convertendosi al cristianesimo”. Anche L’Europeo (31 gennaio ’85) riporta questa frase ma curiosamente commette un errore e scrive “ebraismo” invece di “cristianesimo”.
Un problema che ha attratto in particolare l’attenzione della stampa è stato il comportamento del rabbinato e dell’ebraismo ortodosso. Se in molti hanno riportato la decisione dell’allora Rabbino Capo sefardita d’Israele, Ovadia Yosef, che nel 1972 riconobbe i falasha come ebrei a tutti gli effetti, in quanto lontani discendenti della tribù di Dan, viene riferita con notevole rilievo la richiesta da parte del Rabbinato israeliano (che, secondo L’Europeo del 31 gennaio ’85, è “una specie di Vaticano dell’ebraismo”) che gli ebrei etiopi facciano il bagno rituale per confermare la loro appartenenza all’ebraismo, dopo tanti secoli di separazione. L’Europeo del 31 gennaio ’85 titola: “Falasha, chi lo dice che sei ebreo?”, e Il Tempo dell’1 febbraio ’85: “E se volessi farmi ebreo?”. Il corrispondente della Repubblica (11 gennaio ’85), Avigdor Livni, scrive: “… se i falasha non si sottomettono al decreto del Gran Rabbino saranno condannati a vivere segregati. Una bella prospettiva!”, e afferma che fu proprio a causa delle pressioni dei Rabbini capo e dei partiti religiosi che gli ebrei etiopi non vennero in passato rimpatriati, per il dubbio che ancora sussisteva sulla loro ebraicità. Secondo Livni, solo per il fatto che oggi questo popolo muore di fame “i religiosi non hanno avuto il coraggio di opporsi all’operazione di salvataggio dei falasha”. Il Manifesto (10 gennaio ’85) scrive su questi ebrei “sballottati tra le varie ortodossie rabbiniche”: “Per secoli questi affamati hanno creduto di essere rimasti l’unica comunità ebraica sopravvissuta al mondo, l’hanno conservata gelosamente, a prezzo di pogrom, e ora, che infine sanno di non essere più soli (pensate al sollievo), trovano dei rabbini che vogliono farli ribattezzare di nuovo perché non sono abbastanza talmudici_”. D’altra parte, anche i giornali israeliani hanno ampiamente contestato le decisioni degli attuali Rabbini capo. Il Maariv, riportato dalla Repubblica dell’11 gennaio ’85, scrive: “È possibile che dei rabbini vogliano oggi verificare la “ebraicità” dei nostri fratelli salvati dalla fame? Possibile che si voglia ancora sapere se sono convertiti con tutte le regole e se sono ebrei proprio come chiedono le leggi rabbiniche? Non hanno provato a sufficienza il loro attaccamento all’ebraismo lottando – e sovente pagandolo con la vita – e tutto questo per lunghi secoli e solo per salvaguardare la loro identità ebraica?”.
Un altro problema affrontato dai giornali è la reazione della gente israeliana all’arrivo degli ebrei “neri”. C’è razzismo in Israele? Giancarlo Del Re, nel Messaggero dell’8 febbraio ’85 (titolo “Diversi ma uguali”) afferma che tutti gli ebrei della strada incontrati in Israele gli hanno detto che “nessuno potrà mai dire che Israele è un paese razzista”. Alla domanda-chiave se ci saranno matrimoni tra ebrei etiopi ed ebrei di altre comunità israeliane, c’è chi non ha esitazioni a rispondere affermativamente. Un altro risponde: “Perché no? Sono ebrei, sono anche belli… certo che possono sposarsi con chi vogliono. Basta che mia figlia non mi porti mai in casa un negro, altrimenti vede quello che succede. Ma questo è un problema mio, non è un problema religioso”. Il Manifesto (8 gennaio ’85) riporta le parole di qualche giovane ebreo etiope che “si è accorto per la prima volta in Israele di essere nero”, e di una bambina che ha detto a un funzionario “sono felice di sapere che esistono degli ebrei bianchi, ma non so se loro sono contenti di sapere che esistono ebrei neri”. Ma aggiunge J. Halper, antropologo di origine americana, dell’Università di Gerusalemme: “C’è un pregiudizio sul colore, ma non è ideologico. È più che altro un senso di estraneità. Non credo che avremo problemi ad integrarli”. L’avvocato Michael Corinaldi, nell’Europeo del 31 gennaio ’85, afferma che “la loro integrazione sarà aiutata dal fatto che sono molto belli. Presto saranno mescolati agli altri”.
Il Messaggero dell’8 gennaio ’85, a proposito dell'”operazione Mosè” che “costituisce per Israele una bella pagina”, riporta le parole dell’attuale primo ministro israeliano Shimon Peres: “Israele non si concederà nemmeno un attimo di respiro fino a quando tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle in Etiopia non saranno giunti al sicuro tra noi”.
GDS
L’usanza di spargere semi per gli uccelli
“Presero dei chicchi e li sparsero sui tetti delle loro case e sul terreno intorno affinché se ne potessero cibare gli uccelli. Essi vedono in questa usanza un’espressione dell’obbligo che ha l’uomo di preoccuparsi degli alimenti necessari per gli uccelli più deboli dell’uomo, in particolare quando egli mangia ed essi soffrono per la fame. Allora si rivolgono l’un l’altro domandandosi: “Come state figli d’Israel?”. E tutti rispondono “Shalom””.
J. Faitlovitch, Viaggio in Etiopia
Presentiamo due racconti tratti dalla tradizione storica e narrativa dei Falasha. In questi, come in altri racconti, viene descritta la difficile situazione e le persecuzioni cui furono sottoposti i Falasha.
Nel primo, che riprende un motivo ricorrente nella narrativa etiopica (Lo starnuto), si riferisce al periodo in cui regnò Joash I (detto anche Adiam Seghed III: 1755-1769). Questo re, salito al trono ancora giovane, fu sottoposto all’influenza della regina madre. Il primo rifiuto di Joash a eseguire l’ordine della regina madre può essere attribuito o a un voto o impegno assunto nei confronti dei Falasha, oppure alla paura di affrontare i Falasha, che erano considerati valorosi guerrieri.
Il grido Adam Para è probabilmente in lingua Agao (antica lingua dei falasha) e forse significa “Noi siamo servi del Signore”. Il racconto tenderebbe quindi a mettere in evidenza l’attaccamento dei Falasha all’ebraismo e il loro spirito di libertà, di fronte a quello servile degli Etiopi, nonostante il pericolo di annientamento cui andavano incontro.
Nel secondo racconto si narra della setta dei Nazierei (specie di “monaci”) che vivevano completamente isolati in monasteri.
Secondo la leggenda Falasha, tale setta fu fondata ai tempi del re Zera Jakov (1434-1468) da Abba Zebra. Si pensa tuttavia che l’istituzione del “monachesimo” sia molto più antica e che Abba Zebra abbia soltanto rinnovato e modificato tale istituto in quel momento di risveglio religioso che contraddistinse il regno di Zera Jakov sia tra gli Etiopi che tra i Falasha. I Falasha attribuiscono a Abba Zebra non solo l’istituzione del “monachesimo”, ma anche la maggior parte delle loro preghiere. Nella prima metà dell’ottocento si poteva ancora trovare un libro dal titolo “La vita di Abba Zebra” che riferiva delle sue gesta e dei suoi miracoli. Il libro è andato perduto e probabilmente il racconto che presentiamo doveva farne parte.
Il Re Zebra Jakov perseguitò duramente gli ebrei. Fu molto interessato ai problemi religiosi; ma nel suo regno si diffusero varie forme di eresia e, secondo le fonti cristiane, di ritorno all’idolatria. È probabile che anche i Falasha abbiano avuto qualcosa a che fare con le rivolte di carattere religioso. Con ogni probabilità, il nucleo centrale di questo racconto è storicamente vero. La fine del racconto allude probabilmente alla credenza che Abba Zebra e Abba Zega sono tuttora in vita da qualche parte, similmente a quanto narrato a proposito del profeta Elia. L’usanza del “pasto del ricordo”è ancora in uso presso gli ebrei d’Etiopia. Degno di nota anche il fatto che il mendicante cristiano va a chiedere l’elemosina in un monastero di Falasha, che probabilmente erano noti per la loro carità. Forse nel racconto si intende anche biasimare l’etiope che ha contraccambiato il bene ricevuto col male.
Per uno starnuto
Una volta il re Joash tornò dopo aver dato la caccia agli elefanti nel deserto. Era molto contento, preparò nella sua capitale cibo in abbondanza e invitò tutto il popolo, grandi e piccini, principi e scudieri, ministri e semplici impiegati. Durante il ballo a palazzo reale, mentre mangiavano e bevevano, la regina madre per errore starnutì. Si vergognò ed ebbe un momento di esitazione. Dopo di ciò, mandò a chiamare tutto il pubblico, lì riunito: “Se voi tutti qui presenti mi volete veramente bene, fate tutti insieme uno starnuto”. Tutti i presenti in sala, esclusi i Falasha, obbedirono. I Falasha dissero: “Non basta che noi serviamo il re con la nostra prodezza nei suoi assalti e nelle sue guerre, si esige da noi anche l’arte dello starnuto!” Al grido “Adom Para“, abbandonarono la sala.
Quando la regina madre vide che i Falasha non obbedivano alla sua volontà, tornò a dire al re: “Obbliga i Falasha a starnutire, altrimenti distruggili”. Il re si dispiacque di queste sue parole e rispose: “Come posso io uccidere questi miei fedeli soldati, che dedicano la loro vita a me e al mio regno, perché non hanno starnutito? Se li ucciderò distruggerò il mio trono e il mio regno. Cinque Falasha, che hanno l’aiuto del Signore, sono meglio di cento Amari. Non li ucciderò”.
Dato che la regina madre continuò a insistere con forza, il re acconsentì. Ma egli disse: “Non voglio ucciderli e non li ucciderò a fil di spada. Dato che ci hanno offeso, proponi tu come potremo distruggerli comportandoci astutamente”. La Signora rispose: “Mandali in un distretto paludoso dove imperversi la malaria e dai da mangiare carne di capra avariata.
Il re dette ascolto alle parole della madre e li esiliò nel distretto di Armachchò e dette loro da mangiare carne di capra avariata, finché non morirono per la malaria”.
Il Figlio del Re e il Nazireo
Abba Zebra, l’onorato uomo di Dio, era un nazireo (monaco) ebreo e viveva in un monastero. Zega, il figlio di sua maestà reale, Zera Jakov, il Re dei Re d’Etiopia, aveva sentito parlare della sua grandezza e della sua ispirazione divina e, senza che fosse visto da nessuno, andò di nascosto al monastero dove si trovava Abba Zebra, con l’intenzione di convertirsi. Studiò presso di lui, accettò il nazireato e si fermò con lui. Nessuno l’aveva visto e quindi il re, suo padre, pensò che fosse morto. Fece lutto per lui e fece il pasto del ricordo così come è loro uso. Egli lo fece così come si conviene a un re.
Molto tempo dopo, quando il re aveva ormai perso ogni speranza, un povero che andava mendicando di casa in casa, andò a chiedere l’elemosina nel monastero in cui vivevano Abba Zebra e Abba Zega. Egli arrivò al monastero all’improvviso, quando Abba Zega si trovava vicino alla porta, lo riconobbe e andò proclamando per il paese: “Ho trovato Zega, il figlio del re, e fa il monaco in un monastero in cui ero andato a chiedere l’elemosina”.
La notizia arrivò alle orecchie del re. Mandò dei messaggeri e ordinò loro di portargli il figlio, ma Zega si rifiutò di seguirli. Il Re continuò a mandare dei messaggeri, ma lui rimase fermo nel suo rifiuto. Allora il Re inviò molti cavalieri e molti fanti perché lo portassero. Essi andarono, così come era stato loro comandato, accerchiarono il monastero e lo presero d’assedio. Quando Abba Zebra e Abba Zega videro quanto accadeva ebbero un gran terrore, volsero il loro sguardo verso Dio e pregarono dicendo: “O Signore, Dio tremendo, fa’ secondo la tua saggezza e salva con la tua forza i tuoi servi da questa grande ira che si sta avvicinando contro di noi”.
Il signore, longanime e misericordioso, che ascolta la preghiera degli oppressi, poiché è un Dio di grande pietà, li liberò dalla grave situazione in cui si trovavano con la sua forza, una forza che nessuna lingua può rappresentare, e li portò in un luogo che nessuno conosce. Nessun uomo conosce a tutt’oggi il luogo ove essi si trovano…
S.B.
La richiesta di “conversione per maggior rigore”
I due Rabbini Capi d’Israele – Shapira ed Eliahu – hanno respinto decisamente le critiche loro rivolte circa la questione del “Ghiur le-chumrà” (conversione per maggior rigore) richiesto agli ebrei di Etiopia.
I Rabbini hanno precisato che non viene messa in dubbio l’ebraicità dei falasha sia sulla base della decisione del RiDBaz (Rabbi David Ben Zimrà, rabbino capo d’Egitto del XIV secolo) che stabilisce che gli ebrei etiopi sono discendenti della Tribù di Dansia sulla base di tutte le opinioni espresse anche in questi ultimi cinquanta anni dai vari rabbini capi di Israele (Kook, Herzog, Josef ecc.).
In particolare Shapira ha chiarito che la richiesta del Rabbinato di una “conversione per maggior rigore” è dovuta al fatto che è possibile che in passato possano essersi verificati dei casi di conversione eseguiti non secondo la legge ebraica, fatto che potrebbe creare dei problemi in futuro. In passato la procedura richiesta dai Falasha consisteva, oltre che nel Bagno rituale (Tevillà) anche nella Hatafat dam berit (versamento di una goccia di sangue come segno del patto). In questi ultimi anni si è potuto constatare che tutti i Falasha sono circoncisi e quindi è stato deciso di eliminare questa parte della cerimonia e di richiedere la sola Tevillà.
Anche se non sfumature diverse, sulla necessità di una “conversione per maggior rigore” si sono espressi diversi rabbini tra cui Rabbi Moshè Feinstein, riconosciuta autorità nel campo della Halachà in tutto l’Ebraismo mondiale.
* * *
A chi è completamente digiuno di Halachà può sfuggire il significato di questa presa di posizione del Rabbinato e può ritenere che la decisione sia ingiustificata e offensiva nei confronti dei Falasha che hanno resistito per secoli alle lusinghe dell’assimilazione. Il problema è che proprio un atteggiamento che dal punto di vista della Halachà è in sostanza una facilitazione, può essere interpretato come un'”offesa alla dignità ebraica dei Falasha”.
I motivi per assumere un atteggiamento più rigoroso nei confronti dei Falasha sono sostanzialmente due: il primo è il fatto che essi non applicano la legge orale che non conoscono (similmente ai Caraiti, ma con la differenza che i Caraiti misconoscono per principio la legge orale talmudica, in quanto in pratica ne hanno una propria); il secondo e più grave motivo è la mancanza presso i Falasha di un contratto di divorzio, secondo quanto scritto nella Torà scritta (si veda nella sezione dedicata al matrimonio e al divorzio). In tal caso la situazione è ancora più problematica in quanto non lo sia per i Caraiti, presso i quali esiste il contratto di divorzio (secondo alcuni è addirittura più rigoroso di quello rabbinico).
Diversa è invece la situazione per il matrimonio che viene fatto in sostanza secondo la tradizione ebraica (esiste un contratto e un “acquisto”, convalidati poi dall’atto sessuale a scopo matrimoniale).
Accettando quindi per buono tutto quanto fatto dai Falasha sino ad oggi si corre il rischio di farne una Comunità completamente divisa all’interno della Comunità nazionale ebraica, mentre la tendenza oggi è quella di rimuovere tutte quelle barriere che possano limitare e rallentare il processo di integrazione fusione dei Falasha. Una decisione simile a quella presa per i Falasha potrebbe essere presa anche per i Caraiti, e atteggiamenti in questo senso sono stati presi dai rabbini Ovaidia Josef e Goren in passato: tuttavia, mentre i Falasha hanno tutta l’intenzione di affrettare i tempi dell’integrazione, i Caraiti hanno espresso opinione contraria.
Questo confronto tra le due Comunità (caraita e falasha) non è pretestuoso: J. Feitlowitch (pag. 156 del suo libro sui Falasha) racconta che i Caraiti di Pietroburgo si erano rivolti ai Falasha per prendere contatto con loro e rompere l’isolamento in cui si trovavano da secoli.
Non sappiamo se la lettera di cui parla Feitlowitch sia mai stata veramente inviata e sia arrivata a destinazione.
Anche se è probabile che elementi sociali e demografici finiranno per procurare una lenta “assimilazione” dei caraiti in Israele, tuttavia non si può non apprezzare l’attaccamento dimostrato dai Caraiti verso la propria identità. Chi, meglio degli ebrei “rabbaniti” può capire questa loro scelta, anche se la speranza di vedere nuovamente riuniti i dispersi è molto forte.
S.B.
Halachà e usi presso gli ebrei di Etiopia
Shechità
1. La shechità, anche quando viene fatta per scopo di alimentazione, deve essere eseguita da un sacerdote semplice e da un levita.
2. L’animale viene scannato nel cortile del Santuario (Tempio).
3. La testa dell’animale viene rivolta verso Gerusalemme. Lo shochet si pone alla destra dell’animale e scanna da sinistra verso destra.
Chi sostiene l’ipotesi che il Santuario di Onio – come quello di Elefantina – non era altro che un “piccolo santuario” che non sostituiva quello maggiore di Gerusalemme, ritiene che questi sacrifici sono simbolici e hanno il compito di conservare la parte essenziale del culto che si faceva nel Santuario. Il fatto che la testa venga rivolta verso Gerusalemme avvalora questa ipotesi.
4. La carogna dell’animale è proibita e spregevole.
5. Prima di scannare l’animale, lo shochet dice: “Benedetto e lodato sia il Dio d’Israel, Dio di ogni essere e di ogni spirito, Dio nostro, Dio degli dei che scese sul monte Sinai in mezzo alla nube e al fuoco e dette i dieci comandamenti; credete solo nel Signore, il Creatore. Il profeta Mosè scese verso il popolo e il Signore disse al profeta Mosè tutti i suoi comandamenti: Io sono il Signore patrone dei padroni che ti fece uscire dall’Egitto, dalla casa degli schiavi; non avrete altri dei al mio cospetto; non fatevi altre divinità che siano in cielo in alto o nella terra in basso, nell’acqua e nella terra, non serviteli e non credete loro, poiché Egli soltanto è padrone dei padroni e non vi è Dio al di fuori di lui”.
Queste regole dimostrano che la shechità, viene considerata come un atto religioso, sacrificale, anche quando ha uno scopo profano (Hullin nel linguaggio del Talmud). Anche nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto era proibito l’uso di carne senza averla prima presentata al Santuario e solo in seguito fu permesso di mangiare carne senza averla sottoposta a sacrificio (Deut. XII, 20-21). Se si esclude l’opinione di Rabbi Jehudà, la shechità fatta a scopo alimentare (hullin) e quella fatta a scopo sacrificale (kodashim) dovevano essere eseguite in maniera diversa: non si poteva fare la shechità e versare il sangue in un bacile o in una buca quando la si faceva fuori di casa. In casa era permesso raccogliere il sangue in una buca ma non in un bacile.
È scritto nella Mishnà “Non si fa la shechità (versando il sangue dell’animale) in un recipiente. Non si fa la shechità in una buca, ma si può fare una buca in casa perché il sangue vi si raccolga. Fuori di casa non lo si fa perché altrimenti si imiterebbero i Sadducei” (Hullin 41a). Come è noto, il sangue veniva raccolto in un recipiente prima di essere versato sull’altare dei sacrifici.
I Falasha stanno ben attenti che tutto il sangue dell’animale sia completamente uscito prima di poterlo mangiare. Anche altrove si notano alcune usanze simili a quelle dei falasha.
– Hanno un coltello speciale per la shechità (ma che è a punta e non corrisponde a quello rabbinico che è rettangolare).
– Non fanno la bedikat–ha–sakin (controllo del coltello) anche se deve essere affilato.
– Durante la shechità fanno attenzione a non ricorrere in interruzioni (shehiyà) e a non pigiare (derasà) con il coltello sul collo dell’animale. La shechità va eseguita al massimo in due-tre movimenti avanti e indietro con il coltello.
– Non è proibito mangiare carne e latte.
– Non mangiano il nervo ischiatico e, dato che non sanno eliminarlo dal coscio, si astengono dal mangiare tutta quella parte dell’animale.
Shabbath
1. Per quanto concerne l’astensione dal lavoro la santità del sabato ha inizio il venerdì a mezzogiorno, sia d’estate che d’inverno; per il resto il sabato inizia al tramonto.
2. È proibito fare qualsiasi lavoro che rientri i quello casalinghi o agricoli.
3. È proibito combattere di sabato, perfino per difendersi.
4. È proibito accendere il fuoco e le candele alla vigilia del sabato perché ardano di sabato.
5. Non si profana il sabato perfino per un malato.
6. Sono proibiti i rapporti sessuali.
7. Non si fanno viaggi per mare o per fiume.
8. Non si trasportano oggetti da una proprietà all’altra.
9. Si deve fare attenzione a non camminare molto di sabato, perfino se si rimane nei limiti del Tehum (l’ambito di 2.000 passi dall’ultima casa della città consentito dalla legge rabbinica).
10. Non si profana il sabato neanche per fare una mizvà a tempo debito (Milà, Kippur…).
11. Una santità particolare viene attribuita al settimo sabato dopo Pesach (Lenghta-Sanbat). Si ritiene che le preghiere fatte nel settimo sabato verranno di certo esaudite.
12. I sacerdoti si alzano al canto del gallo e pregano. Il pubblico prega successivamente assieme al Sacerdote. Il sabato viene trascorso al Tempio, nello studio della Torà e in preghiera.
13. Finite le preghiere, il pubblico consuma nel Tempio il proprio pasto, già pronto dal Venerdì. Il sacerdote dice la benedizione (simile a quella per la Shechità) e poi i presenti mangiano tutti insieme. Questo pasto viene considerato come un sacrificio. Finito il pasto, si dice la benedizione e ognuno può tornare a casa.
Cibi e bevande
1. È proibito cibarsi di ogni animale impuro domestico o selvatico così come viene menzionato in Levitico XI.
2. La shechità (macellazione rituale) di un non-ebreo non è valida.
3. Il pane fatto da non-ebrei non può essere mangiato.
4. Chi ha mangiato cibi cucinati da non ebrei deve mangiare per sette giorni solo fave fresche, bere al settimo giorno una bevanda che provoca la diarrea e, alla sera seguente, bere del brodo di pollo.
5. Chi ha mangiato involontariamente cibi fatti da un non-ebreo deve fare la Tevillà (bagno rituale).
6. I liquori fatti da non-ebrei sono proibiti.
7. È proibito l’uso del tabacco (usanza comune anche ai cristiani).
Il Calendario Falasha
L’anno dei falasha è luno-solare come quello ebraico tradizionale, con la differenza che viene aggiunto solo un mese di trenta giorni ogni quattro anni, e non un mese ogni due-tre anni. Questo fatto comporta che il calendario falasha rispetto a quello solare presenti un ritardo di quattordici giorni ogni quattro anni. Infatti l’anno lunare è in media 354 giorni, con un ritardo medio di undici giorni rispetto a quello solare. In quattro anni si “perdono” 44 giorni e l’aggiunta di un solo mese non risistema le cose.
I nomi dei mesi sono simili e a volte uguali a quelli ebraici tradizionali, “importati” dagli ebrei dopo l’esilio babilonese. Questa è considerata da alcuni ricercatori come una prova al fatto che la comunità falasha si sia separata da quella di Erez Israel dopo il ritorno dalla Babilonia.
Nel timore di non festeggiare a tempo debito le feste che cadono il 15° del primo e del settimo mese (Pesach e Succot), i Falasha festeggiano il 15° di ogni mese. In un certo senso, questi giorni di festa aggiunta possono essere paragonati al nostro “jom tov shenì shel galuiot” (secondo giorno di festa in uso presso le Comunità della Diaspora, vedi Alef 23).
La stessa origine hanno probabilmente le feste stabilite per il 10° giorno di ogni mese e per ogni settimo sabato che chiude i cicli di sette settimane in cui viene diviso l’anno ‘in ricordo di Jom Kippur e di Shavuot).
Capo mese
Si digiuna alla vigilia e si dà un particolare risalto al capo mese.
Pesach
Nei giorni 11, 12 e 13 di Nissan mangiano solo un pane fatto di legumi detto Sehimbera. Digiunano dalla sera del 13 a quella del 14: il digiuno sostituisce l’erba amara che i Falasha non mangiano, perché non sanno con quale verdura identificarla.
Al tramonto del 14 di Nissan scannano l’agnello pasquale nel Tempio esistente in ogni villaggio ebraico, mangiano mazot (kita), fatte di grano e sehimbera. Si leggono i capo 12 e 13 di Esodo e 9° di Numeri.
La diversa “santità” dei giorni festivi
La santità dei giorni festivi non è in tutto eguale a quella in uso presso le Comunità ebraiche occidentali e orientali: esistono tre categorie di “giorno festivo”.
La prima comprende il Sabato, Kippur e il settimo giorno di Pesach; in questi giorni non può essere svolta alcuna attività lavorativa (“Non farai alcuna opera” – secondo la regola biblica per il Sabato e Kippur; per il settimo giorno di Pesach cfr. Deut. 16°, 8).
La seconda comprende il primo giorno di Pesach, nel quale è permesso solo cucinare l’essenziale per il giorno stesso (sulla base di Esodo 12°, 16: “Non sarà fatto alcun lavoro in essi, ma ciò che sarà necessario per essere mangiato, esso soltanto sarà fatto per voi“).
L’ultima categoria comprende le altre feste in cui è permesso fare lavori leggeri (così essi interpretano l’ebraico “melechet avodà”), ma non quelli pesanti.
È noto invece che secondo la norma ebraica tradizionale, se si escludono Sabato e Kippur, non v’è alcuna differenza tra Pesach e le altre feste.
L’Omer
Cominciano a contare i giorni tra Pesach e Shavuot dal 22 di Nissan. Essi interpretano l’espressione controversa “All’indomani del sabato conterai…” (Levit. 23°,…) “All’indomani dell’ultimo giorno festivo di Pesach”. È noto che l’interpretazione Sadducea era “all’indomani del sabato che cade durante Pesach”, mentre i Maestri interpretavano all’indomani del giorno festivo” (cioè il primo giorno di Pesach).
Ogni settimana tra Pesach e Shavuot ha un nome particolare.
Il settimo sabato
È un sabato speciale dedicato alla misericordia e al perdono. Tutto l’anno falasha viene diviso in periodi di sette settimane e viene festeggiato il settimo sabato di ogni ciclo.
Shavuot
Viene chiamato Marer, cioè mietitura. Ricorda ,anche presso i Falasha il dono della Torà (come nel libro dei Giubilei). Si legge Levitico 23°, 48°, 50°.
Rosh ha–shanà
È chiamato Baal Matka, la festa dei corni. Non vi è alcuna menzione al fatto che si tratti di Capo d’anno.
Kippur
Viene chiamato Astasrai, cioè perdono e espiazione. Secondo i Falasha ricorda l’apparizione del Signore a Giacobbe, avvenuta proprio di Kippur. Nel libro dei Giubilei è scritto che ricorda anche la vendita di Giuseppe. Si legge tutto il libro di Mezhof Aistasrait. Nonostante il digiuno, è considerato grande giorno di festa. Si suonano i tamburi e si fanno balli.
Succot
È chiamato Baal Mezlet. Non si costruiscono capanne, perché non vi sono nel loro paese le specie di alberi descritti nella Torà. Usano prender rami e foglie di una specie di cedro (zinb) e di un albero chiamato qaha, che cresce sulle rive dei fiumi.
A differenza dei samaritani e dei Caraiti i falashà ritengono che la Succà non debba essere fatta necessariamente con rami di mirto, palma, cedro e salice.
Sau amata
L’ultimo giorno del nono mese è la festa del raccolto “Sau amata“. I Falasha salgono sui monti, pregano, presentano sacrifici; fanno doni ai nazarei e spargono semi per gli uccelli.
Leggono Deut. 5, 6, 28, 30-32.
Il 12° giorno del 10° mese è la festa della mietitura: in questa occasione danno anche la decima ai sacerdoti.
Il 18° giorno dell’undicesimo mese dell’anno solare si festeggia Tezkar, in ricordo della morte dei tre patriarchi che ricorrerebbero nello stesso giorno.
Non festeggiano né Hanukkà né Purim.
Digiuni
Digiunano ogni lunedì e ogni giovedì, la vigilia del capo mese, la vigilia di Pesach, dal 1° al 9° giorno di Tamuz in ricordo della distruzione del primo Tempio di Gerusalemme. Il digiuno viene chiamato Tamet (Tamuz?). Digiunano anche dal 1° al 20 di Av (esclusi però i sabati e il giorno di Arfe Asarat). Questo digiuno fu stabilito secondo la tradizione falasha da Isaia per espirare le colpe del re Manasse figlio di Ezechia.
Digiunano anche i primi dieci giorni di Elul (secondo la tradizione Falasha, il digiuno fu stabilito da Geremia); i primi nove giorni di Tishrì, oltre al Kippur che cade il dieci (il digiuno fu stabilito da Ezrà o da Giuseppe).
Presso i Falasha non vi è alcun digiuno in ricordo della distruzione del secondo Tempio.
I libri sacri dei Falasha
I libri utilizzati per fissare le leggi falasha sono la Torà, in lingua Ghez Orit, il libro dei Giubilei Kuppala, il libro del sabato Teezaza Sanbata. Esiste anche una traduzione-commento al Pentateuco in lingua falasha, ma per lo più orale e il suo valore dal punto di vista normativo non è chiaro. A parte questi libri esiste una tradizione orale che è molto importante.
In effetti tutti i libri che hanno i Falasha si trovano in genere anche presso i cristiani etiopi. Solo il Teezaza Sanbata è esclusivamente Falasha. Tutta questa letteratura è di carattere religioso, fatto questo che ha contribuito a creare due tradizioni testuali diverse per ciascun libro.
Questi sono i libri falasha: la torà, i profeti e gli agiografi compresi anche gli apocrifi, secondo la traduzione greca dei Settanta; Enoch; Giubilei; Teezaz-Sanbata; il profeta Gregorius; Baruch (apocalisse); Ezhrà (apocalisse); Libro di Ardeet e delle opere di Mosè; Gadla Adamo; Gadla Abramo; Gadla Isacco; Gadla Giacobbe; Gadla Mosè; Gadla Aronne; Nagara Mosè, Morte di Mosè; Midrash Abba Eliahu; Asterai (libro di preghiere e testi sacri per Jom Kippur).
La letteratura tradizionale falasha non è comune ad altre diaspore ebraiche. La maggior parte dei libri in uso presso i Falasha si trovano anche presso i cristiani. Questa letteratura contiene idee ed espressioni ebraiche: come sono arrivate ai cristiani di Etiopia? Il problema investe sia i cristiani di Etiopia che i falasha. Non è chiaro se siano stati i Falasha ad attingere alla tradizione cristiana o viceversa.
Il sacerdozio e le leggi di purità
I sacerdoti rappresentano la massima autorità religiosa e culturale presso i Falasha. Il sacerdozio non è ereditato e quindi la figura del sacerdote può essere in parte assimilata a quella del rabbino. Essi hanno il compito di eseguire la shechità, circoncidere, insegnare e convertire. Benedicono il popolo e lo giudicano. Possono sposare solo donne vergini e non possono divorziare. Un sacerdote che divorzia dalla propria moglie perde la sua qualità di sacerdote.
Vi sono sacerdoti semplici e grandi sacerdoti. In passato esistevano anche i Nazirei, che conducevano una vita separata in Monasteri.
Le leggi di purità sono alquanto rigide. Appena fuori dal villaggio vi è una casupola, una specie di tukul, in cui si isola la donna per tutto il periodo delle mestruazioni. Anche la partoriente vi rimane per un periodo di 40 giorni (per la nascita di un maschio) e di 80 per la nascita di una femmina.
La legge dei Falasha stabilisce che se si viene toccati da un non ebreo ci si deve purificare in acqua di fonte.
Matrimonio e divorzio
Il matrimonio viene celebrato dal sacerdote. Si usano fare i sette giorni di banchetto. Lo sposo viene paragonato a un Re, tanto che perfino il Re doveva scendere dal cavallo se lo incontrava. La donna viene portata in spalle da un uomo.
Non conoscono la Ketubà (contratto matrimoniale). Tuttavia scrivono un contratto in doppia copia, uno firmato dall’uomo che viene consegnato alla donna e un altro dalla sposa che viene consegnato allo sposo. La donna, che viene anche “acquistata” dall’uomo, diviene socia dell’uomo in tutti i guadagni che il marito potrà avere da quel momento in poi, ma non in tutti i beni che il marito possiede, fin tanto che non partorirà il primo figlio. In caso di divorzio, la donna prende la parte che le spetta; le figlie rimangono con il padre e i figli con la madre; il padre ha l’obbligo di alimentare e mantenere i figli fino a tre anni.
I Falasha cercano di evitare in tutti i modi il divorzio, che non è visto di buon occhio. Quando tutti i tentativi di riappacificare i coniugi sono falliti, la coppia compare di fronte ai sacerdoti e agli anziani del villaggio, il marito consegna al Tribunale il contratto che ha in mano e la moglie fa altrettanto. Il Tribunale strappa i due contratti e il divorzio diviene operante. I Falasha sposano una sola donna (come del resto anche i cristiani etiopi). Solo nel caso in cui una donna sia sterile è loro permesso di sposare una seconda donna, ma solo con il consenso della prima.
Un’altra spiegazione per il nome falasha
Secondo Abba Izhak, il capo della Comunità Falasha del nord dell’Etiopia, il nome Falasha significherebbe “coloro che passano” (il mare), mentre il loro vero nome al nord sarebbe Kaila, cioè coloro che non passano. Il nome Falasha quindi è un segno negativo in quanto vorrebbe dire coloro che passano il fiume o il mare di shabbat.
Per saperne di più
Su Eldad haDani, J. Dan, The Hebrew Story in the Middle Ages (in ebr.), Keter, Jerusalem 1974, cap. 4. Su Elefantina, G. Ricciotti, Storia d’Israele, Sei, Torino 1960, pp. 185-201. Le lettere dalla Palestina sono pubblicate nella raccolta di A. Yaari, Iggheròth Erez, Israel, Tel Aviv 1943. Sull’ipotesi di un’origine etiopica di Reuvenì, cfr. la traduzione italiana dell’articolo di U. Cassuto, “Chi era David Reubenì” in Rassegna Mensile d’Israel, 35, 1969, pp. 59-84. Sulle vicende moderne dei rapporti con gli ebrei italiani cfr. F. Del Canuto, “Come si giunse alla missione in Etiopia presso i Falascia”, in Israel – Un decennio“, Roma 1984, pp. 23-46; nel stesso volume la relazione ufficiale, sinora inedita, della missione di C. A. Viterbo, pp. 47-114. Una sintesi degli aspetti storici, religiosi, folkloristici e di attualità è nel n. 30 di Miqraè Jahadùth. Kislew 1984. In italiano una sintesi con ampia bibliografia è nell’articolo “Falascia” in Enciclopedia delle Religioni.
Nel paragrafo “Saperne di più” nell’inserto “Torà e medicina” pubblicato nel n. 22, si è cercato di indicare i pochi scritti in italiano sull’argomento.
M. Emanuel Artom ci segnala l’elenco degli scritti sul tema apparsi sul periodico “Torath Chaim” di cui è direttore.
Riccardo Di Segni, Problemi Halakhici dell’aborto, n. 74, Tammuz 5735;
Riccardo Di Segni, Trapianti e cessioni di organi – Problemi di Halakhà, n. 77, Sivan 5736;
M.E. Artom, Il problema delle autopsie nella Halakhà, n. 88, Vigilia di Rosh Ha-Shanà 5740;
Come comportarsi in relazione con necrotomie?, Relazione del gruppo di studio di problemi attuali alla luce della Torà, n. 94, Adar Shenì 5741;
Riccardo Di Segni, Il problema delle necrotomia in Italia, n. 97, Chanukkà 5742.
Rassegna delle riviste/1
Segnalazioni di riviste estere che si occupano dell’ebraismo italiano
In questo numero di Moriyà; rivista dedicata ai problemi inerenti lo studio della Torà e della ritualistica abbiamo articoli, a cura di valenti Rabbini di Erez Israel e di America, che trattano argomenti e temi, che riguardano l’ebraismo italiano.
Nella seconda sezione della rivista, dedicata al ricordo degli antichi autori vi sono: un “quesito ed un responso rituale di R. Azaryà Fano e di R. Moshè Provenzali (pp. 18-20) ed una “omelia” del R. Haym Josef David Azulai, il celebre Chidà (pp. 30-51), e nella terza sezione un “responso rituale” riguardante la medicina, a firma del R. Finstein, capo dell’Accademia Rabbinica “Tiferet Jeruscialaim” di New York (pp; 52-61).
Il primo articolo, a firma del R. Avraham Josef di New York (pp. 18-19), riguarda il “Quesito rituale” di R. Menachem Azaryà Fano, autore, fra l’altro, delle opere “Asarà Maamarim” (I dieci detti) ed “Alfassi Zutà” (Il piccolo Alfassi), sulle norme da adottare nel caso di uno Shofar che si trovi spaccato trasversalmente, rivolto al celebre R. Moshè Provenzali di Mantova.
Il quesito ed il responso fanno parte di un grosso lavoro, del quale va occupandosi il R. Janni, per conto del “Makhon Jeruscialaim”, nella preparazione per la stampa della raccolta dei “Responsa” di R. Moshè Provenzali, con il confronto di alcuni manoscritti. Il quesito di R. Menachem Azaryà da Fano ed il responso di R. Moshè Provenzali sono tratti appunto dalla sopracitata “Raccolta”, paragrafo 62.
Il secondo articolo, a firma del R. Avraham Mardekhai Dozlowsky di New York, riporta la lunga “omelia” del Chidé per lo “Shabbath Shùva“, pronunziata nella Yeshivà di R. A. Recanati. Gli ultimi anni della sua vita il Chidà li trascorse nella città di Livorno, allora centro cabalistico molto importante. Nei “quattro sabati segnalati” – scrive l’articolista – il Chidà era solito pronunziare un discorso ed un’omelia nell’accademia del Recanati. Queste omelie furono pronunciate tra il 1781 ed il 1806, anno in cui lo colse la morte. Le omelie dal 1781 al 1788 furono stampate dal Chidà nel suo libro “Devarim Achadim” (alcuni discorsi), quelle dal 1788 al 1795 nell’opera “Kissè David” (il trono di Davide), e quelle dal 1795 al 1799 nel libro “Ahavat David” (L’amore di Davide), mentre quelle dal 1799 al 1804 sono manoscritte e furono chiamate “Ruach Chaim” (Lo spirito della vita). Otto di queste omelie sono state pubblicate dal nipote R. Moshè Azulai, nel libro “Lechem Min Ha–Shamaim” (Pane del cielo), mentre le altre sono ancora allo stato inedito.
L’Omelia per lo Shabbat Shuva, che il R. Dozlowsky pubblica, in questo numero della Rivista, è tratta, appunto,dal manoscritto sopradetto, che si trova attualmente nella Biblioteca del British Museum, nn. 9168-69.
Un particolare interesse desta l’articolo del R. M. Fenistein su questioni rituali attuali di medicina, rivolte da Rabbini americani: R. Naftalì Zeev Rienzel e R. Joel Jaaqowitz, ambedue dottori. Le risposte riguardano: 1) l’occuparsi di un malato, per il quale non vi sono medicine, per alleviarne i dolori; 2) nell’occuparsi dei malati, chi ha la precedenza delle cure; 3) l’occuparsi di un malato, in fin di vita e din stato di agonia, da parte di Dottori ebrei; 4) i casi in cui ci si debba occupare di un malato in stato di agonia e di un animale non ritenuto idoneo; 5) un malato che rifiuta di essere curato; 6) intorno all’autopsia; 7) la sterilità di una donna, a causa di malattia; 8) la pratica dell’aborto di donne ebree e non ebree; 9) l’intervento chirurgico in caso di malati di cancro; 10) l’obbligo della qeri’a (strappo dell’abito) nel momento del trapasso, nei riguardi di due decessi, avvenuti quasi contemporaneamente. A tutti questi quesiti il R. Feinstein trova una risposta, attingendola alle fonti tradizionali ebraiche, in particolar modo al Talmud ed ai testi degli antichi Poseqim o Decisori.
La Rivista contiene altri “Quesiti rituali” di carattere attuale, chiudendo con una notizia, degna di rilievo, la pubblicazione cioè dei “Responsa e nuove Decisioni rabbiniche” di R. Josef Colon, unitamente a “Novellae e spiegazioni del Colon sul Pentateuco, sull’opera di Maimonide e di R. Moshè da Couçy, attinta ad antichi manoscritti, corredata da note, da Indici e soprattutto da una prefazione, nella quale il R. Pines, curatore dell’opera, fornisce ampie notizie sulla vita e sull’opera di R. Josef Colon, una delle maggiori autorità rabbiniche in Italia, nel periodo del Rinascimento, della quale ci occuperemo in seguito.
Jehudà Nello Pavoncello