Pubblicati ampi passaggi della sentenza di primo grado.
In primo grado la giudice del tribunale di Tel Aviv aveva dato ragione alla zia paterna Aya, ordinando il rientro a Pavia dell’unico sopravvissuto della strage del Mottarone. Dalla lettura della sentenza – di cui sono stati pubblicati ampi passaggi, nonostante il processo si svolga a porte chiuse – emerge la strategia difensiva della famiglia Peleg che punta su “vizi di forma” del procedimento giudiziario in corso in Italia.
Sharon Nizza
TEL AVIV – Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan, ha presentato ricorso alla Corte distrettuale di Tel Aviv, impugnando la sentenza del tribunale della famiglia che una settimana fa aveva dato ragione alla zia paterna Aya Biran. In primo grado, la giudice Iris Ilotovich-Segal ha stabilito che “Eitan è stato allontanato illegittimamente dal suo luogo di residenza abituale” e ha ordinato il rientro in Italia del piccolo, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, secondo i termini della Convenzione dell’Aja sulla sottrazione dei minori. “Sfortunatamente, il tribunale della famiglia ha scelto di non tenere conto delle circostanze eccezionali che si sono presentate e ha ignorato le azioni unilaterali intraprese apparentemente con astuzia dalla zia per ottenere la tutela, alle spalle della famiglia Peleg mentre era in lutto”, si legge in una nota diffusa dalla famiglia materna.
“Ci auguriamo che il Tribunale distrettuale di Tel Aviv respinga il ricorso”, hanno risposto i Biran tramite gli avvocati Shmuel Moran, Avi Himi e Alon Amiran. “La sentenza del tribunale della famiglia parla da sé: è completa, ben fondata e approfondita”, hanno sottolineato i legali, augurandosi che Eitan possa tornare “il più rapidamente possibile alla sua famiglia, alla sua scuola, alle strutture terapeutiche da cui era stato rapito”.
Rientro bloccato fino a diverso ordine della corte
Nell’emettere la sentenza, la giudice ne aveva tuttavia sospeso l’esecutività immediata, per consentire la presentazione dell’appello. Saranno ora i giudici della Corte distrettuale di Tel Aviv, che si riunirà a stretto giro, a stabilire se mantenere questa decisione in piedi o ordinare l’immediato rientro del piccolo anche durante il dibattimento di secondo grado, che si stima durerà circa un mese, secondo le tempistiche serrate stabilite dalla Convenzione.
Tensione tra le famiglie
Nel frattempo, la tensione tra i due rami della famiglia continua a essere alta. Dopo la sentenza lunedì scorso, Aya Biran non ha consegnato Eitan al ramo materno, facendo saltare l’accordo stabilito precedentemente dalla stessa giudice che garantiva la custodia congiunta del piccolo fino al termine delle procedure legali in Israele. Nei giorni successivi, la giudice ha accolto la richiesta dei legali dei Biran che il bambino rimanesse sotto la loro custodia esclusiva (Aya si è trasferita in Israele da oltre a un mese con marito e le due figlie per seguire il processo), con possibilità di incontrare i Peleg solo alla presenza dei servizi sociali. Opzione che proverebbe “che per Aya il suo bene viene prima di quello di Eitan”, accusa la famiglia materna, che ha presentato ricorso anche contro questa decisione. “Non vediamo Eitan da una settimana”, dice a Repubblica Etty Cohen, la nonna materna. “Aya ha deciso che la famiglia della mamma di Eitan deve essere esclusa dalla sua vita e come ha cercato di impedirci di vederlo in Italia, ora sta facendo la stessa cosa qui”.
“Non c’è motivo per cui si svolga in Italia il dibattimento sul futuro della vita di Eitan, cittadino israeliano la cui maggior parte dei familiari (da entrambe le parti) si trova in Israele e parla ebraico”, prosegue il comunicato della famiglia Peleg.
La sentenza e i “vizi di forma” sul procedimento in corso in Italia
Va specificato che il processo in corso in Israele non affronta la questione del futuro di Eitan, bensì quale sia la sede giudiziaria dove si debba svolgere questo dibattimento, determinata, secondo la Convenzione dell’Aja, da alcuni criteri specifici. Tra questi, quale sia il “luogo di residenza abituale” del minore. La giudice Ilotovich-Segal ha per l’appunto stabilito che si tratti dell’Italia ed è “in quella sede che devono continuare i procedimenti già avviati sul futuro del bambino” ha scritto.
Un altro criterio fondamentale della Convenzione stabilisce che chi ne richieda l’attivazione sia l’ente o la persona che esercita il “diritto di affidamento” del minore e “in particolare il diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza”. Dalla sentenza di primo grado – di cui sono stati resi pubblici ampi stralci, nonostante il processo si svolga a porte chiuse – è possibile dedurre che il ricorso della famiglia Peleg verterà in particolare su questo punto, contestando che la zia Aya avesse la facoltà di “decidere riguardo al luogo di residenza di Eitan”.
Per avallare la propria tesi, i legali dei Peleg hanno portato di fronte alla giudice i pareri di due esperti di diritto italiano, l’avvocato Luca Passanante, professore ordinario di diritto processuale civile dell’Università degli Studi di Brescia e il professor Mauro Paladini, ex magistrato del Tribunale di Piacenza. Negli estratti delle loro deposizioni resi pubblici, essi rilevano quelli che potrebbero essere dei vizi di forma nelle procedure legali che hanno conferito ad Aya la tutela del piccolo, avvenute a Torino due giorni dopo la tragedia e a Pavia il 9 agosto (ricorso). Nel primo caso, si tratta della mancata richiesta di applicazione dell’articolo 371 del codice civile che conferisce al tutore la facoltà di decidere il luogo dove il bambino deve vivere (il prerequisito della Convenzione). In sostanza – è la strategia legale dei Peleg – Aya in quanto “tutrice” aveva un ruolo puramente amministrativo e non di “affidatario” (termini peraltro scritti in italiano e lungamente dissertati nelle 79 pagine della sentenza, per appurarne le differenze rispetto agli equivalenti nel diritto israeliano). Nel secondo caso, viene invece contestata dai legali dei Peleg la mancata attivazione dell’articolo 741 del codice civile, che dispone che un decreto abbia efficacia immediata, nonostante l’impugnazione. Se la decisione del giudice tutelare di Pavia di agosto non è definitiva – si vuole sostenere – non si tratta di sottrazione illegale.
La giudice israeliana – che ha sentito anche il parere della dottoressa Maria Cristina Canziani, ex giudice del Tribunale dei minori di Milano, portato dai legali dei Biran – ha respinto queste argomentazioni sostenendo che “non si possa negare in nessun modo che lo Stato di Israele abbia l’obbligo di rispettare i procedimenti nei Paesi che hanno aderito alla Convenzione” e “il solo fatto che una sentenza sia stata impugnata non significa che il procedimento in corso sia inesistente e deve essere consentito i tribunali competenti, nel Paese di origine, di portare a termine il loro lavoro fino alla pronuncia di una sentenza definitiva”.
I presunti vizi di forma reclamati dagli avvocati dei Peleg che emergono dalla sentenza di primo grado sembrano essere l’appiglio legale su cui si basa la ripetuta posizione della famiglia materna per cui hanno “perso fiducia nella giustizia italiana”. Secondo diversi esperti israeliani di diritto, le probabilità che la corte distrettuale di Tel Aviv ribalti la sentenza di primo grado sono basse. Ma quanto emerge ora dagli atti del processo in corso in Israele sono alcuni dei nodi che a breve passeranno al vaglio del tribunale dei minori di Milano, che ai primi di dicembre si riunirà nuovamente per discutere il ricorso dei Peleg sulla tutela conferita ad Aya. Se la corte distrettuale di Tel Aviv confermerà la decisione di primo grado (e salvo ulteriore appello alla Corte Suprema), è in quella sede che si deciderà il futuro di Eitan.