Giorgio Sacerdoti
Lasciano perplessi, anzi preoccupati, le due sentenze della Corte di giustizia europea di Lussemburgo del 15 luglio che, come riferito anche dal Corriere del giorno successivo sotto il titolo “si può vietare il velo al lavoro,” ha sancito che “il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose può essere giustificato dall’esigenza del datore di lavoro di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali”.
Le due cause (/C-804/18 e 341/19) rimesse alla Corte da tribunali tedeschi riguardavano l’una il caso di una educatrice, l’altra quello di una cassiera di un esercizio commerciale minacciate di licenziamento per essersi rifiutate di togliersi il velo sul luogo di lavoro. I giudici tedeschi chiedevano alla Corte di indicare se questi comportamenti dei datori di lavoro erano compatibili con le norme della direttiva europea 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro che vieta in quanto discriminatorie, direttamente o indirettamente, differenze di trattamento sul luogo di lavoro, a meno che rappresentino un requisito essenziale per lo svolgimento dell’attività lavorativa (si pensi a tute, camici o divise). Qui si trattava di giudicare politiche aziendali che i datori di lavoro difendevano in un caso con l’esigenza di praticare una politica di imparzialità filosofica e politica nell’educazione dei bambini, nell’altro di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei propri clienti. La Corte ha riconosciuto che l’indossare segni o indumenti quale espressione della propria religione o le convinzioni personali rientra nella libertà di pensiero, coscienza e religione garantita dalla Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea. Ha però concluso che un divieto di segni religiosi manifesti sul luogo di lavoro, se applicato uniformemente, non costituisce discriminazione neppure nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in applicazione a precetti religiosi. Potrebbe essere indirettamente discriminatorio solo un divieto limitato a segni vistosi, in particolare copricapi (islamici o anche la kippà chiaramente) perché colpirebbe più gravemente i lavoratori di tali religioni.
In generale però, ritiene la Corte, un divieto applicato in modo effettivo e generale rientra nell’ambito della libertà d’impresa e costituisce una finalità legittima se risponde ad una reale esigenza dell’azienda come la prevenzione dei conflitti sociali o la sua presentazione in modo neutrale nei confronti dei clienti.
Le due sentenze lasciano fortemente perplessi perché una cosa sono le aspettative dei genitori dei bambini in una istituzione scolastica di far educare i loro figli in un ambiente dove gli insegnanti non manifestino la loro religione o altre convinzioni personali a contatto dei bambini. Anche a questo proposito una domanda sorge però spontanea: ma i giovani non beneficiano a trovarsi anche a scuola una varietà di educatori che rifletta la nostra società, ferma restando la neutralità dei principi educativi impartiti? Altra cosa è comunque l’ambito aziendale: su che base è legittima la pretesa dei clienti di un negozio o di un supermercato di non essere serviti da una venditrice o cassiera col velo? L’esperienza quotidiana anche in Italia ne conferma la presenza, così come l’alto numero di autisti sikh col turbante negli autobus di Londra e altre città. I passeggeri ne sono forse turbati? O è questo solo un pretesto da parte di un imprenditore razzista?
Non a caso a proposito di due precedenti decisioni della Corte di giustizia nello stesso senso nel 2017, il NY Timescommentò che la Corte stava legalizzando indirettamente le discriminazioni in Europa. Molto critico anche il commento dell’Economist del 24 luglio alle due ultime sentenze: sono questi i valori europei che la Corte difende? Preoccupa questa cecità della Corte suprema dell’Unione europea verso la complessità delle nostre società e l’esigenza di tutelare le diversità che caratterizzano l’Europa soprattutto oggi e ne costituiscono una ricchezza, non solo sul piano della manifestazione della libertà religiosa (tutelata a livello costituzionale), ma anche a livello sociale e nei costumi.
Tanto più che non si tratta di decisioni isolate. Pochi mesi fa, nel dicembre 2020 la Corte, nella stessa autorevole composizione allargata di “Grande camera,” ha ritenuto legittimo il divieto introdotto dalla regione belga delle Fiandre della macellazione rituale, cioè senza previo stordimento, secondo i riti musulmano ed ebraico, nonostante che questa pratica sia fatta salva dalle direttive europee in materia. La Corte ha anteposto alla pratica della libertà religiosa da parte di queste due religioni il benessere degli animali, considerati “esseri senzienti” anche essi tutelati a livello europeo, che deriverebbe dal previo stordimento, spingendosi addirittura a pronunciarsi su quello che sarebbe conforme o no a questi riti su cui essa non ha chiaramente competenza a pronunciarsi.
Per fortuna la Corte ha fatto salve le normative degli Stati membri che tutelino in modo più rigoroso la libertà di religione sia sui luoghi di lavoro che in materia di macellazione. E’ questo il caso dell’Italia, dove la libertà religiosa è tutelata, anzitutto dalla nostra Costituzione, in secondo luogo dal rigoroso divieto di discriminazioni in materia di lavoro (ribadito dai nostri tribunali anche rispetto al porto del velo) e dagli accordi dello Stato con le varie religioni ai sensi degli art. 7 e 8 della nostra Carta fondamentale, specificatamente dall’intesa con l’Unione delle Comunità del 1987.26.7.2021