Ieri, oggi e domani…
Nella Parashàt Shelach viene narrato uno degli episodi più drammatici accaduto al popolo ebraico appena uscito dall’Egitto: dodici esploratori vengono inviati da Mosè a visionare la terra di Canaan per vedere quali erano i problemi legati alla conquista della terra promessa e all’insediamento del popolo. Si trattava di prendere possesso di una terra destinata a Israele fin dalla creazione, così come scrive Rashi nel suo commento a primo versdo della Genesi: una vera sorpresa quando si pensa che non mancavano a Rashi argomenti e fonti ben più rilevanti con cui commentare la creazione narrata nella Torà.
Non deve sfuggire il fatto che Rashi scrive questo commento nell’Undicesimo secolo proprio durante il periodo delle crociate e le conquiste dell’Islam e afferma implicitamente che queste conquiste sono temporanee e che alla fine Israele tornerà alla sua terra.
Tutto questo accade in un periodo in cui il popolo ebraico era perseguitato e non c’erano speranze per un futuro migliore. Diversa è la situazione degli ebrei appena usciti dall’Egitto che stanno proprio sulla soglie dell’ingresso nella Terra Promessa in uno dei momenti più luminosi della sua storia. La libreazione dalla schiavitù, il raggiungimento della libertà e il dono della Torà e dei 10 comandamenti.
Mosè decide di inviare 12 persone, tutte capi tribù, persone importanti e in linea di principio credibili, per una spedizione che di fatto si presenta come di spionaggio. Dieci su dodici esploratori fanno una relazione impropria, tesa cioè a demotivare il popolo a entrare subito nella terra promessa per conquistarla. In effetti una volta ricevuti i 10 comandamenti e la legge, era chiaro che il passo successivo avrebbe dovuto essere quello di entrare e conquistare la terra di Canaan, e il percorso più naturale era di entrare direttamente da sud visto che venivano da sud.
Qual è il termine usato per esploratore: se l’azione era di spionaggio, il termine più corretto avrebbe dovuto essere meragghelim: la Torà usa invece tarim, perlustratori. Lo scopo dell’operazione richiesta è indicata dal verbo Lachpòr, scavare, che significa quindi molto più che perlustrare.
Mosè nei suoi discorsi prima dell’ingresso in Israele, quando parla dell’episodio degli esploratori, usa il termine “vairagghelù” fecero un’azione di spionaggio (Deuter. 1, 24).
Il verbo latur viene usato per indicare anche l’azione attribuita a Dio, cioè quella di indicare la strada che gli ebrei dovevano percorrere per arrivare alla Terra promessa. Lo stesso concetto si trova in Deuter. 24, 33 e poi anche nel profeta Ezechiele. Per capire cosa intende la Torà è necessario mettere insieme alcuni particolari scritti in questa parashà e altri dettagli che si trovano in parti diverse, in modo da tenere conto di tutte le fonti possibili. Considerando le varie fonti abbiamo le seguenti fasi dell’esplorazione:
Prima fase: il popolo chiede di mandare esploratori per fare una ricognizione e capire qual è la terra che andranno a conquistare (Deuter. 1, 19 – 21).
Seconda fase: Mosè indica la strada attraverso cui devono entrare in terra di Canaan. Mosè accetta la richiesta del popolo e afferma che la proposta gli piace.
Terza fase: Il Signore dice “Manda per te”, che viene interpretato nel senso che Io (il Signore) non te lo comando, ma manda tu se vuoi.
Lo scopo della risposta di Mosè è quella di lasciare, nel bene e nel male, la responsabilità della scelta al popolo, anche se lui sa bene che la terra da conquistare è buona e l’esplorazione sarebbe inutile. L’unica condizione richiesta da Mosè e dal Signore è che le persone scelte siano di ottimo livello, quindi dei capi e non delle persone qualsiasi, cui attribuire la responsabilità, se la relazione fosse stata insufficiente o lacunosa
Paura di affrontare il futuro
Cosa chiede Mosè agli esploratori di verificare: vedere se la terra è in grado di dare buoni frutti – e chiede anche di prenderne alcuni – valutare le caratteristiche del popolo che vi abita (se è forte o debole), se è numeroso, se le città sono fortificate o città aperte: città fortificate indicano che gli abitanti non sono forti e hanno paura degli invasori e costruiscono delle mura per difendersi.
Gli esploratori non negano che la terra sia buona, ma incutono una gran paura al popolo dicendo che ci sono persone gigantesche in quelle città e che quindi la conquista sarebbe stata veramente difficile e impossibile. Gli esploratori preparano il popolo all’idea che è meglio tornare indietro ed è quello che sembra accadere quando dicono “diamoci un nuovo capo e torniamo in Egitto”. Uno dei punti che mette inevidenza quanto le dichiarazioni degli esploratori siano faziose è quando dicono “noi sembravamo cavallette ai loro occhi”: come se gli esploratori potessero vedere con gli stessi occhi dei “giganti”,. Inoltre il pensiero era che se gli abitanti dei paesi confinanti ben più abituati alla guerra dei figli d’Israele non avevano conquistato quelle città, certamente non ci sarebbero riusciti loro. Il compito degli esploratori era solo quello di riferire, ma non di esprimere un giudizio su ciò che era o meno possibile fare.
Solo Calev e Giosè osano mettere in dubbio le parole della maggioranza e dicono “la terra che noi abbiamo attraversato e abbiamo esplorato è molto molto buona e, per quanto riguarda il popolo della terra, è “pane per i nostri denti”: il Signore ci vuole bene e ci guiderà a questa terra che stilla latte e miele”. Ma il loro invito a non ribellarsi non avrà esito felice. E’ interessante notare che qui il discorso su da terra torna varie volte e la parola terra si trova 14 volte nei loro discorsi. Il culmine della rivolta si ha quando gli ebrei dicono magari fossimo morti nella terra d’Egitto e quindi arrivano alla conclusione che sarebbe meglio tornare in Egitto.
Vi sono certamente colpe degli esploratori, ma anche colpe del popolo che avevano visto i miracoli accaduti in Egitto e continuano a mettere in dubbio la bontà della promessa e del progetto: meglio la schiavitù che la libertà, una vera e propria bestemmia. Le domande che sorgono dalla lettura dell’episodio sono molte: vediamone alcune.
Di chi è la colpa?
La prima è cercare di capire qual è stata la colpa degli esploratori e perché questa colpa è stata considerata più grave rispetto a quella del vitello d’oro, tanto che fu decretata come punizione la permanenza del popolo nel deserto per 40 anni, periodo in cui sarebbero morti tutti i membri del popolo aventi un’età superiore ai 20 anni: In questo deserto finiranno e moriranno (Numeri 14: 35).
Scrive rav Elchanan Spector (rabbino di Kovno) : per le colpe commesse verso il prossimo o verso Dio, se la persona chiede scusa e si rappacifica, è sufficiente la teshuvà; per le colpe commesse verso il popolo e la collettività il pentimento non è sufficiente, come è scritto (Amos 9: 10): “ per spada moriranno tutti i peccatori del mio popolo” che viene interpretato come i peccatori verso il mio popolo.
Molti commentatori sottolineano la maldicenza degli esploratori e appoggiano la loro interpretazione al fatto che la storia dei 12 esploratori viene narrata dopo l’episodio della maldicenza di Miriam che fu colpita da zara’at, una malattia che la colpì per parlato male di Mosè . “Perché la parashà degli esploratori è stata messa accanto a quella di Miriam? Perché Miriam fu colpita per la maldicenza nei confronti del fratello e questi malvagi avevano visto e non avevano capito l’insegnamento morale” (Tankhumà Shelach, 5). Un’altra spiegazione viene data in Avoth derabbi Natan (9: 2): “ Per dieci volte i nostri padri misero alla prova il Signore e non furono puniti se non per la maldicenza degli esploratori; … il Signore chiese giustizia per le parole dagli esploratori, … per la terra che non ha la lingua per parlare “
Rabbi Levi Izchak di Berdichev scrive che gli esploratori parlarono male sia della Terra d’Israele che del Signore: del Signore, perché dicono “quel popolo è più forte di lui”, parole pronunciate in pubblico (e quindi anche alla sua presenza) e comunque visto che era presente poteva perdonare; ma anche di verso Erez Israel, colpa che non viene perdonata. In effetti le parole degli esploratori sono molto gravi: mentre Kalev sostiene che è possibile conquistare la terra, gli esploratori dicono: Non potremo salire verso questo popolo poiché è più forte di noi mimmennu, parola che può significare anche più forte di lui, cioè Dio. I miracoli che avevano visto in Egitto non erano stati sufficienti e perciò il Signore disse a Mosè: “Ho perdonato secondo la tua parola: Ma come io sono vivo e la gloria del Signore riempie tutta la terra, non vedranno la terra che ho promesso con giuramento ai loro padri tutti gli uomini che hanno visto la mia gloria e i segni che ho fatto in Egitto e nel deserto, mi hanno messo alla prova dieci volte e non hanno ascoltato la mia voce; tutti i miei oltraggiatori non la vedranno (Numeri 14: 20 – 23).
Quali sono le parole che usano gli esploratori per convincere il popolo che la terra non può essere conquistata: Il popolo è più forte, la terra divora i suoi abitanti e il popolo è composto da giganti: ai nostri occhi sembravamo delle cavallette e così noi ai loro occhi (13: 33). Inoltre le città in cui abitano sono fortificate e non è possibile conquistarle: tutte affermazioni che dimostrano mancanza di fiducia nelle proprie forze e nell’aiuto del Signore e che hanno avuto l’effetto di spingere il popolo alla ribellione e a rinunciare a combattere per conquistare il paese.
Le parole di Kalev e Giosuè non riescono a convincere il popolo:
Giosuè figlio di Nun e Caleb figlio di Iefunnè, che erano fra coloro che avevano esplorato il paese, si stracciarono le vesti e parlarono così a tutta la comunità di Israele: «Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese molto buono. Se il Signore ci è favorevole, ci introdurrà in quel paese e ce lo darà: è un paese dove scorre latte e miele. Soltanto, non vi ribellate al Signore e non abbiate paura del popolo del paese; è pane per noi *e la loro difesa li ha abbandonati mentre il Signore è con noi; non ne abbiate paura». (Numeri 14: 6 – 9)
E questa fu la reazione del Signore (14: 11):
Il Signore disse a Mosè: «Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? E fino a quando non avranno fede in me, dopo tutti i miracoli che ho fatto in mezzo a loro?
La colpa degli esploratori e poi il comportamento del popolo d’Israele crea una separazione tra il popolo e la terra fino al punto in cui il popolo dice. “Diamoci un capo e torniamo in Egitto”.
Quale segno lasciò la storia degli esploratori?
Alla fine dei 40 anni di pellegrinaggio nel deserto le tribù di Gad e Reuven chiedono di non attraversare il Giordano e di rimanere nelle terre conquistate ai cananei che abitavano nella Transgiordania: Mosè ricorda loro l’effetto prodotto dalle parole degli esploratori:
Perché volete scoraggiare gli Israeliti dal passare nel paese che il Signore ha dato loro? Così fecero i vostri padri, quando li mandai da Kadesh-Barnea per esplorare il paese. Salirono fino alla valle di Eshcol e, dopo aver esplorato il paese, scoraggiarono gli Israeliti dall’entrare nel paese che il Signore aveva loro dato. Così l’ira del Signore si accese in quel giorno ed egli giurò: Gli uomini che sono usciti dall’Egitto, dall’età di vent’anni in su, non vedranno mai il paese che ho promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, perché non mi hanno seguito fedelmente,se non Caleb, figlio di Iefunnè, il Kenizzita, e Giosuè figlio di Nun, che hanno seguito il Signore fedelmente
Il vitello d’oro e la rivolta: qual è la colpa più grave?
Una fonte importante per valutare l’eco dell’esplorazione della Terra di Canaan troviamo nei salmi (95, 10): “Per quaranta anni ho avuto in disgusto quella generazione e conclusi: sono un popolo dal cuore sviato! Non intendono le mie vie. Per questo giurai nel mio sdegno: non giungeranno al mio riposo!”
A proposito del Salmo 95 rav Yeshaià Halevy Horowizt scrive: Non hanno conosciuto le mie strade – non hanno capito qual era l’idea del loro Maestro e non hanno avvertito tutti i miracoli che sono stati fatti a loro e hanno avuto paura di entrare in Erez Israel. Perciò ho giurato che non entrassero in quella terra che era prevista come loro possesso. Rifiutarono un paese delizioso, non credettero alla sua parola e la loro paura dimostra che non erano degni di entrare in Erez Israel e perciò sono stati puniti.
In un altro salmo (106: 24 – 25) viene sottolineata la mancanza di fiducia e il rifiuto della terra: Disprezzarono il paese desiderabile, non credettero alla sua parola; mormorarono sotto le loro tende e non ascoltarono la voce del Signore.
Sempre nei Salmi troviamo la descrizione dei percoli incontrati nel deserto, la ricerca delle strade indicate dal Signore – come ricordato nella Lamentazioni (3, 40) Esaminiamo la nostra strada e scrutiamola, ritorniamo al Signore – e finalmente l’arrivo a destinazione:
Vagavano nel deserto, nella steppa, non trovavano il cammino per una città dove abitare.
Erano affamati e assetati, veniva meno la loro vita. Nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro angustie. Li condusse sulla via retta, perché camminassero verso una città dove abitare (Salmo 107, 4 – 7)
Anche nei profeti troviamo un cenno indiretto a quanto avvenuto in seguito della rivolta degli esploratori. Per la generazione che tornerà dopo l’esilio Geremia annuncia (24, 6 – 7):
Io poserò lo sguardo sopra di loro per il loro bene; li ricondurrò in questo paese, li ristabilirò fermamente e non li demolirò; li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore. Parole che riecheggiano quanto aveva detto Mosè: “Il Signore non vi aveva dato un cuore per conoscere”
In definitiva l’aver fatto il vitello d’oro era un fatto temporaneo che sarebbe stato superato, mentre diverso fu l’atteggiamento verso l’idea di tornare in Egitto e rinunciare ad arrivare nella Terra promessa: il ritardo di Mosè a tornare nell’accampamento aveva indotto il popolo a fare un vitello d’oro che – nella visione distorta del popolo – doveva sostituire Mosè, ma il progetto di continuare il cammino verso la Terra Promessa rimaneva valido. Non c’è da parte del popolo nulla contro l’idea di raggiungere la Terra promessa: era solo necessaria una guida che sostituisse Mosè. Rinunciando a continuare il cammino e affermando “facciamoci un capo e torniamo in Egitto” gli ebrei rendevano del tutto inutile la stessa liberazione dall’Egitto: il progetto consisteva in tre fasi: liberazione, ricevimento della Torà, e ritorno alla Terra dei Padri, dove finalmente avrebbero potuto mettere in pratica tutta la Torà in libertà.
Scialom Bahbout
- E’ interessante quanto scrive Kli Yakar sulle parole sono il nostro pane; “come questa manna si scioglie quando finisce l’ombra e sorge il sole (Esodo: 16, 21, così quando si allontanerà da loro la protezione del Signore si scioglieranno come la cera davanti al fuoco …”
Rabbi Yeshaià Halevy Horowitz (Praga 1558 – Safed, Tiberiade 1630)
Ha studiato nella Yeshivà in cui aveva studiato il padre presso Rabbi Shlomo Luria (il Maharshal) e rabbi Meir di Lublino (Maharam Lulin). Rav e Dayan in molte città polacche, Lituania, Galizia, Austria e Germania. Dopo la morte della prima moglie, salì In Israele: dimorò per alcuni anni a Gerusalemme: viene imprigionato assieme ad altri 14 rabbini, ma la sua comunità non poté riscattarlo per mancanza di fondi. Fuggì dopo alcuni mesi e si trasferì a Zfat e poi a Tiberiade dove morì.
Il suo testo fondamentale è Shenè Luchot Haberit (le due tavole del patto) pubblicato dal figlio dopo la morte. Il testo contiene commenti nell’ambito della morale e parla dell’importanza di risiedere in Erez Israel per un ebreo. Rabbi Y. Halevy Horowitz è sempre ricordato come il של”ה (secondo le iniziali del libro: שני לוחות הברית). Grande è stata l’influenza del libro sul Hassidismo e sul Baal Shem tov.