Di solito non ci piace parlare di ebrei morti, ma per questa volta faremo un eccezione (Kolòt)
Dall’inizio di Via delle Vigne possiamo scorgere sulla linea dell’orizzonte, a chiudere la strada per la quale ci siamo incamminati, un imponente cancello di metallo incorniciato da pesanti pietre granitiche, poste lì quasi a voler incutere timore a chi si arrischi ad avvicinarsi: ci troviamo di fronte all’ingresso delcimitero ebraico di Ferrara. Se pure a prima vista possa dare l’impressione di trovarsi di fronte a un luogo inespugnabile, il cui ingresso sia riservato ai soli autorizzati, non ci si deve lasciare scoraggiare: dietro quel portale si celano, in realtà, prati fioriti, intrecci di rami, lapidi semplici e maestose che fanno di questo rettangolo di terra al lato delle mura estensi un piccolo scrigno pieno di meraviglie da scoprire.
Dimentichiamo, allora, la nostra prima impressione, l’ingresso maestoso e il timore riverenziale, volgiamo lo sguardo verso quella porta sulla destra, e iniziamo a sentirci in un luogo più famigliare. Sulla porta è appeso un cartello“Per visitare il cimitero ebraico suonare il campanello della custode”: come quando si deve fare visita ad un amico, ad un parente, per entrare nel cimitero ebraico suoniamo il campanello. Ad aprirci è un’anziana signora e, di nuovo, non ci si deve lasciare intimorire dalla sua apparente riservatezza, in realtà basta trattenersi un po’ con lei per scoprire i segreti di una vita, di trent’anni vissuti come custode di questo angolo di storia. E così abbiamo deciso di fare oggi, intrattenendoci ad ascoltare le parole di chi a vissuto il cimitero ebraico da dietro le quinte.
Questa signora, dagli occhi gentili truccati di azzurro chiaro, ci sorride, quasi come se fossimo i nipoti venuti a trovarla da lontano, e ci accoglie nella sua casa. Così conosciamo Mara Pazzi, un’anziana signora di 81 anni che da trent’anni fa la custode del cimitero ebraico. Non di origini ebree, ci racconta, alternando italiano a dialetto, di come sia arrivata in questo angolo di Ferrara: il marito conosceva la famiglia della custode precedente e così decise di trasferirsi qui con la moglie. Quando Mara e il marito arrivarono, la casa del custode era tutta sottosopra: c’erano topi, decine di bottiglie di vetro buttate alla rinfusa e muffa. Ma, come noi oggi, anche loro, all’epoca, non si sono lasciati ingannare dalla prima impressione e, dopo aver sistemato la casa, si sono trasferiti qui, di fianco al cimitero per custodirlo e aprirlo a chi desiderasse entrarvi a fare visita.
Così poi inizia a ricordare di chi ha conosciuto in questi anni: con parole di affetto nomina l’Avv. Paolo Ravenna e ce ne parla come di un uomo paziente, sempre composto, che non si arrabbiava mai, ma che se qualcosa non andava glielo potevi leggere negli occhi. Ci racconta del primo incontro con Giorgio Bassani, di come con timidezza gli abbia chiesto se conoscesse lo scrittore per poi con stupore scoprire che si trattava proprio di lui. Si ricorda degli occhi azzurri dello scrittore, della sua gentilezza e schiettezza. Alla fine Mara era riuscita anche a farsi raccontare chi fossero i Finzi Contini e a scattare una foto con lui. Mentre ascoltiamo le sue parole non percepiamo orgoglio, ma più che altro la felicità di chi ricorda vecchi amici, di chi ha vissuto bene. Lei stessa più volte ce lo ripete “Mi sono sempre trovata molto bene”, quasi come a volerci rassicurare.
E alla fine nomina anche quel gruppo di visitatori abituali, che non vengono per far visita ai parenti defunti, ma per trovare tranquillità. Il cimitero ebraico, da cui si sentono ovattati i suoni della città, ha un qualcosa di magico per loro. Questo incanto attira avventori solitari, che quasi quotidianamente, ritrovano pace, camminando tra l’erba alta e le lapidi, lasciandosi catturare dalla memoria di questo luogo. Così alla fine, trascinati forse anche noi da una sorta di richiamo, visitiamo il cimitero. Ci lasciamo interrogare dai nomi sulle lapidi, ci immaginiamo le loro storie. Facciamo visita alla tomba di Giorgio Bassani e per la prima volta non la guardiamo come la tomba di un celebre scrittore, ma richiamiamo alla mente il racconto di Mara. Entriamo nella camera mortuaria, un imponente edificio che ricorda un tempio orientale antico. La magnificenza esteriore qui entra in conflitto con le pareti spoglie, l’arredamento inesistente, ma proprio questo contrasto si colloca in perfetta armonia con il luogo che lo circonda.
Alla fine verso l’uscita, incrociamo una scolaresca che ascolta attenta le parole di una guida: ci rendiamo conto di non avere conosciuto molto di più della cultura ebraica, di uscire forse con più domande che risposte. Capiamo anche che probabilmente l’articolo non sarà molto utile a chi lo avesse iniziato a leggere sperando di conoscere chissà quali notizie sul cimitero, ma forse proprio qui sta il bello di questo posto: lo si può capire, si può entrare in comunicazione con esso anche senza avere una guida alla mano, se ne può percepire la memoria camminandoci semplicemente attraverso, lasciandosi catturare lo sguardo dai nomi incisi sulle tombe e dalla natura che custodisce attenta le loro storie.