Roberto Della Rocca
A proposito della Shoah si registra sempre più spesso un tentativo di assimilare lo sterminio degli ebrei ad altre stragi dell’età contemporanea, così da diminuirne l’importanza e negarne l’unicità. La Storia narra di molti stermini apparentemente motivati da obiettivi mirati, quali conquiste territoriali, assalti al potere o ontologie totalitarie. Nella Shoah c’è qualcosa di diverso e di più specifico. L’obiettivo dei persecutori e la “colpa” delle vittime sono identificabili in un atto di nascita: essere ebrei.
La specificità della Shoah non sta nella somma algebrica di quante espulsioni, schiavizzazioni, violenze, abusi o assassinii sono stati compiuti rispetto a altre folli stragi della storia, ma piuttosto nella sua genesi.
La Shoah è stata concepita in una nazione avanzata culturalmente che è responsabile di aver usato la razionalità scientifica, il progresso industriale ed economico nella costruzione di una macchina della morte di massa, fomentando al contempo l’aspetto irrazionale del mito fantasmatico di un super potere ebraico. È questo l’archetipo antigiudaico di radice cristiana ripreso dall’antisemitismo moderno e che è sempre latente. La dottrina del razzismo che ha preceduto la Shoah e che purtroppo le sopravvive, invita a dimenticare e a guardare al futuro, mettendo sullo stesso piano perseguitati e persecutori. Ma quale futuro?
A volte quel tentativo un po’ ipocrita di superare le divisioni a favore di una presunta equivalenza etica, ci porta inevitabilmente a quel gelatinoso conformismo per il quale “siamo tutti vittime”, che altro non significa “nessuna vittima” uguale a “nessun carnefice”, ma una società veramente pluralista favorisce le diversità identitarie e non banalizza le memorie confondendole. La Shoah ha segnato coloro che l’hanno vissuta, alcuni nel corpo e tutti nell’ animo, lasciando uno strascico di angosce per un avvenire in cui tutto questo potrebbe ripetersi. Ma dove potrebbero essere oggi i nuovi aguzzini? Fra la gente attorno a noi quando camminiamo per strada o saliamo su un treno, quando andiamo al cinema o al caffè. Gli aguzzini dei campi di sterminio erano persone comuni, amorevoli in famiglia e spesso ipocriti cristiani.
Oggi quando spuntano nuovamente negli stadi bandiere con simboli nazisti e la parola ebreo è tornata ad essere un insulto, gli ultimi sopravvissuti subiscono affronti ben noti, mentre l’abuso di termini come “soluzione finale”, applicato con leggerezza a nuove orribili ingiustizie, ingenera confusione e qualunquismo.
Il “Giorno della Memoria” che si ripete ogni anno il 27 gennaio ed è legge dello Stato, dovrebbe incoraggiare momenti di riflessione e prese di posizione della società civile affianco agli ebrei che sono i diretti testimoni dei propri cari crudelmente macellati. Gli ebrei non vogliono implorare pietà, sollecitano piuttosto la vigilanza e si battono contro l’ oblio e l’indifferenza.
Tramandare la specificità della Shoah, non significa rifugiarsi nel passato né tantomeno chiudere gli occhi di fronte alle tragedie che si svolgono ogni giorno dinanzi a noi. Saper trarre lezione dal male per volgerlo in bene è uno dei più importanti imperativi ebraici. Il ricordo delle proprie sofferenze – se non si vuole sia sterile – deve aprire l’animo alle sofferenze altrui. Il diritto-dovere della specifica memoria ebraica può e deve convivere accanto al diritto di ogni altro gruppo umano che coltiva la propria storia per sopravvivere come collettività. Possono coesistere nella stessa società memorie distinte, ma è sempre sbagliato forzare simmetrie, condivisioni o intercambiabilità. La “par condicio” non può essere applicata alla memoria, come non ci è consentito promuovere una competizione tra diverse sofferenze. Le memorie infatti non si equivalgono, semmai si confrontano.
Oggi spesso l’informazione frettolosa tutto assimila e confonde, è invece importante riflettere sulla parola conoscere nel senso di distinguere e capire nel senso di separare. Nel dibattito in corso su “l’unicità della Shoah” viene addirittura imputato a molti ebrei di essere testimoni di una cultura nazionale, in contrapposizione ad altre culture “universali”. La contrapposizione tra universalismo e particolarismo è per molti versi una lettura della realtà estranea alla Tradizione ebraica per la quale non esiste una dicotomia tra universale e particolare. Dalla Torah in avanti i nostri testi presentano i protagonisti come archetipi di paradigmi identitari e culturali. Dobbiamo immaginare di guardare i personaggi e gli episodi come in un enorme caleidoscopio. Quando la Torah parla di un personaggio particolare è come se facesse uno zoom su una parte di uno scenario universale. Perciò quando si parla del popolo ebraico e di altre nazioni si designano due protagonisti a confronto; ciascuno assume un’identità ancorata a un percorso specifico, con diverse letture del mondo e interpretazioni della storia.
Avràm, Abramo, estende il suo nome diventando Avraham, “padre di numerose genti”, un autentico precursore dell’universalismo, ma lo fa solamente dopo avere indagato profondamente la propria dimensione individuale e particolare. La dimensione universale, per la tradizione ebraica, si raggiunge solo dopo aver riflettuto sull’ ipseità.
“…Il linguaggio è un rapporto tra termini separati…”, scrive E. Lévinas in Totalità e Infinito (Jaca Book 1983) dove l’ altro, quello facile da amare, è un indefinito mondo intero, mentre l’alterità con cui convivere, è una sfida quotidiana. Credo infine che il dibattito in corso su “l’unicità della Shoah”, al di là della sua lettura storica, possa essere compreso solo alla luce di una dimensione più ampia su “l’unicità della storia ebraica”. E se è vero che quando si fa riferimento a una regia trascendentale, la dialettica tra i diversi interlocutori rischia di arrestarsi, è altrettanto vero che il riconoscimento della miracolosa sopravvivenza del popolo ebraico e della sua resilienza culturale e religiosa rimane una condivisione comune.
Roberto Della Rocca è Rabbino e Direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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