Come spiega Erich Auerbach in Mimesis, la Bibbia è parca nel descrivere stati d’animo dei personaggi e i dialoghi sono spesso ridotti al minimo. Il lettore deve cercare di capire cosa passa nella mente dei protagonisti e naturalmente non è facile capire quali sono le intenzioni del narratore. Giacobbe arriva dalla terra di Canaan a Haran dopo un lungo viaggio e al pozzo incontra dei pastori.
Scrive rav Moshe Haim Grilak (Parashà veliqchà pag. 81); Nel momento in cui si mette a fare una predica ai pastori che incontra alle porte della città, Giacobbe mette in pericolo la propria persona. La predica può danneggiare i rapporti sociali con le persone del luogo, delle quali egli avrà bisogno nella sua nuova residenza, Ma Giacobbe non può rimanere in silenzio: la visione di persone che perdono pigramente il tempo per il quale sono pagate, in attività futili, lo irrita: Giacobbe è una persona giusta e, in quanto è giusto, non può sopportare chi si comporta male, e questo perché lui stesso sta bene attento a non sottrarre perfino un solo centesimo al proprio datore di lavoro Lavan ( לבן che si scrive con le stesse lettere di נבל Naval, malvagio)
Leggiamo il dialogo tra Giacobbe e i pastori (Genesi 29, 4 – 7):
Disse loro Giacobbe: Fratelli di dove siete?
Dissero: Siamo di Haran
Disse loro: Conoscete Lavan figlio di Nahor
Dissero: (lo) Conosciamo
Disse: Sta bene?
Dissero: Sta bene– ed ecco Rahel sua figlia che viene con il gregge.
Disse: Invero la giornata è ancora lunga, non è il momento di adunare il gregge, abbeverate il gregge e andate a pascolare”
Il resoconto del dialogo non aggiunge molto all’incontro tra Rahel e Giacobbe. In effetti, dopo i messaggi che gli erano arrivati, dopo il sogno della Scala, Giacobbe era rifrancato e, come lascia intendere Rashi, le gambe camminavano da sole. Giacobbe cerca di intavolare un discorso con i pastori, ma si mette a criticare i pastori (il giorno è ancora lungo andate a pascolare…) e loro rispondono con poche parole, sembrano piuttosto disturbati da questo straniero e alla fine si liberano di lui dicendo “ecco sta arrivando la figlia …” parla pure con lei.
Alla notizia che Rahel stava arrivando e che riesce a vedere una soluzione ai suoi problemi, Giacobbe, colto da entusiasmo, solleva da solo la grande pietra che sta alla bocca del pozzo e che veniva sollevata solo quando erano arrivati tutti i pastori. Potremmo pensare che il motivo dell’attesa dipendesse dal fatto che fosse troppo pesante e che erano necessarie molte persone per sollevare la pietra; oppure si potrebbe pensare che si trattasse di un accordo tra i vari pastori, ma forse era tale perché nessuno la potesse sollevare da solo, dando da bere in misura eccessiva al proprio gregge. Insomma è probabile che i pastori temessero che qualcuno volesse approfittare e dare più acqua alle proprie pecore…
Rashi osserva che, vedendoli tranquillamente sdraiati per terra, Giacobbe pensava che i pastori volessero adunare gli armenti per riportarli a casa, e quindi non dovevano più pascolare i greggi. Dicendo loro la giornata è ancora lunga, Giacobbe intendeva dire loro: voi siete pagati per il vostro lavoro e c’è ancora molto tempo per la fine del giorno, e anche se gli animali fossero vostri, non siate pigri, non è questo il momento di radunare il gregge,
Da come reagirà Giacobbe quando verrà raggiunto da Labano dopo la fuga con Rahel e Lea, possiamo imparare qual era l’etica del lavoro secondo lui (Genesi 31: 36 – 41):
Allora Giacobbe si adirò e contese con Labano e riprese a dirgli: “Qual è il mio delitto è il mio peccato, perché tu mi abbia inseguito con tanto ardore? Tu hai frugato tutta la mia roba; che cosa hai trovato di tutta la roba di casa tua? …. Ecco, sono stato con te vent’anni; le tue pecore e le tue capre non hanno abortito, e io non ho mangiato i montoni del tuo gregge. Io non ti ho mai portato quello che le fiere avevano sbranato: ne ho subito il danno io; tu mi ridomandavi conto di quello che era stato rubato di giorno o rubato di notte. Di giorno, mi consumava il caldo; di notte, il gelo; e il sonno fuggiva dagli occhi miei. Ecco, sono stato vent’anni in casa tua; ti ho servito quattordici anni per le tue due figlie, e sei anni per le tue pecore, e tu hai mutato il mio salario dieci volte.
Scrive Grilak: Sono sufficienti questi pochi versi per presentarci l’immagine del “Primo operaio ebreo” nella Bibbia. I midrashim che penetrano in profondità il significato dei versi della Torà, hanno ampliato la rappresentazione della fedeltà di Giacobbe al suo lavoro, e hanno sottolineato la cautela eccezionale che egli poneva per non defraudare il suo datore di lavoro. Una parte di questo suo comportamento si è poi trasformata in norme della Halakhà: “Ha detto Rabbi Yehudà bar Simon: l’uso della gente è che un operaio faccia il suo lavoro fedelmente per il padrone due o tre ore, ma alla fine si impigrisce nel fare il proprio lavoro; qui invece – Giacobbe, imbrogliato per la sostituzione di Rahel con Lea, nei primi anni ha fatto il suo lavoro in maniera completa, e così pure gli ultimi anni erano completi (Bereshit Rabbà 70, 18). E ancora (Tankhumà Vayetzè 11): “Giacobbe parlando con le mogli disse) voi sapete che io ho lavorato per vostro padre con tutta la mia forza, per insegnarti che non si comportava pigramente, ma si affaticava con tutta la sua forza“
L’etica del lavoro secondo Giacobbe era molto elevata: nonostante che lui avesse a che fare con un datore di lavoro che lo aveva imbrogliato sfruttandone l’ingenuità e la disponibilità, Giacobbe non rinunciava alla sua etica. Se noi pensiamo a quanto succede oggi in molte campagne e allo sfruttamento del lavoratore, senza nessuna etica, ci rendiamo conto quanto siamo lontani dal livello morale che la Torà richiede nei rapporti tra datore di lavoro e operai.
E ancora Maimonide scrive (Hilkhot Sekhirut 13): “Così come il padrone è messo in guardia dal non rubare il salario del povero e di non procrastinare il pagamento dovuto, così anche il povero è richiamato a osservare la norma di non rubare del tempo dal lavoro che esegue per il padrone, perdendo un po’ qua e un po’ là un po’ del tempo destinato al lavoro: così finisce col trascorrere tutto il giorno imbrogliando.… E così l’operaio deve lavorare con tutta la sua forza, come Giacobbe il giusto che disse “Con tutta la mia forza ho lavorato per vostro padre”. Per questo Giacobbe ricevette il suo premio in questo mondo, come è detto “L’uomo si arricchì moltissimo”
Nello Shulkhan Arukh, il codice che raccoglie le basi delle leggi ebraiche, troviamo scritto (Yorè De’à, Hilkhot Talmud Torà, 245, 17)
Al Maestro che lascia i bambini e che esce e si occupa di un’altra cosa con loro, o che trascura il suo studio, si applica il principio “Maledetto chi non compie fedelmente l’opera del Signore” (Geremia 48, 10). L’insegnante non deve rimanere sveglio di notte in maniera eccessiva; non digiuni interrompendo di mangiare e di bere per troppo tempo; o non mangi e non beva in maniera eccessiva, perché a causa di tutte queste cose non potrà insegnare bene.
Questa regola in realtà vale per ogni tipo di lavoro e non solo per l’insegnamento. Alla luce di quanto sopra, possiamo dire che è proibito assumere altre ore di lavoro da fare durante la notte, cosa che potrebbe danneggiare il lavoro principale da fare durante il giorno.
Fare fedelmente il proprio lavoro, agli occhi della Halakhà, ha un valore superiore. Fare un lavoro attenendosi ai principi suddetti diventa una corona per chi lo fa e santifica il nome di Dio, e a lui può essere applicato il detto: Beato lui e beata la donna che l’ha partorito (Meam loez).
Il raggiungimento di questo obiettivo è possibile solo se saremo capaci di creare una stretta collaborazione tra tre diversi partner: il datore di lavoro, l’operaio e la società che deve creare le condizioni culturali e ambientali per fare del lavoro qualcosa di speciale, in cui ognuno possa sentirsi realizzato a sua volta come partner dell’opera della creazione.
Scialom Bahbout
Moshe Haim Grilak, Anversa 1936. Vive in Israele
Di famiglia hassidica, si rifugia in Francia con la famiglia alla scoppio della guerra. Nel 1942, sotto il governo Vichy riesce ad attraversare il confine assieme ad altri tre bambini e arriva in Svizzera, dove viene e adottato da una famiglia. Nel 1945 sale in Israele assieme ai genitori e studia nelle Yeshivot Kol Torà e Ponevitch. Arruolato nell’Esercito d’Israele (IDF Zahal)) presta il suo servizio nell’aviazione, partecipa alla guerra di Yom Kippur. E’ tra i fondatori e i relatori più importanti del gruppo Arachim. (valori). Vissuto per anni a Tel Aviv e vive oggi a Gerusalemme. La sua rubrica sulla parashà settimanale pubblicata ogni settimana sul giornale Maariv era tra le più lette e in seguito raccolte in quattro volumi. Ha anche scritto dei romanzi e ha rubriche settimanali in vari siti web. Direttore della rivista Mishpachà (Famiglia) e autore di romanzi.