Eli Cohen, l’eroe immortalato dalla serie Netflix The Spy, che ha consentito a Israele di anticipare le mosse del nemico siriano in un momento cruciale della storia, ha lasciato figli che non lo hanno conosciuto e una giovane moglie che, in cinquantacinque anni, non lo ha mai dimenticato. Un’intervista esclusiva
David Zebuloni – Bet Magazine Mosaico
A gettar luce su una storia a molti sconosciuta, è stata la serie tv The Spy, punta di diamante del colosso Netflix. Una storia che ha dell’incredibile: narra le vicende di Eli Cohen, una spia israeliana in Siria che è riuscita a stravolgere le sorti del Medioriente. Dopo essere stato scoperto e giustiziato, la moglie di Eli, Nadia Cohen, comincia la sua battaglia infinita contro le forze segrete israeliane e contro il nemico siriano, i primi accusati di negligenza e i secondi di crudeltà. Entrambi dunque ritenuti da lei responsabili di averle sottratto l’unico uomo che abbia mai amato.
La incontro nella sua casa ad Herzliya. Nadia mi aspetta seduta in salotto. La luce è spenta. Le domando se non desideri accenderla, lei mi risponde che preferisce il buio. Parla con una lucidità impressionante, ricordando eventi remoti che le provocano dolore come se li stesse vivendo per la prima volta. Quando racconta l’ultima missione di Eli in Siria, la voce si accende di rabbia. Una rabbia che non le dà pace, che la tormenta, così come la tormenta l’immagine di suo marito seduto su una panchina, gli occhi vuoti, pronto per essere impiccato. Ecco, la storia di Nadia è la storia di chi non ce l’ha fatta. Di chi non ha saputo superare il lutto e il dolore. Di chi ha preferito vivere tutta la sua vita nel buio.
Nadia Cohen non ha un messaggio di speranza da trasmettere all’umanità. Nulla di ottimista da insegnarci. In un’ora e mezza trascorsa con lei, non sono riuscito a strapparle nemmeno un messaggio di pace. Nadia non riesce a fingere di essere ciò che non è. Non simula mai un sorriso, non forza mai le parole, che pronunciate da lei risultano pesanti come macigni. Nadia si definisce una perdente e una donna malvagia, dice di odiare molte persone, di non saper perdonare, ma raccontando di Eli gli occhi le si illuminano. Forse non verrà ricordata come un simbolo di pace e tolleranza, ma credo che nessuno più di Nadia Cohen possa insegnare alle nuove generazioni cosa sia il vero amore. Quello che supera il tempo e la distanza. Quello che provoca e cura il dolore. Quello che dà vita anche dopo la morte.
Nadia, vorrei portarti indietro nel tempo, al giorno in cui Eli è stato catturato. Ricordi con precisione l’attimo in cui hai ricevuto la tragica notizia?
Non è solo un attimo. Non è solo la notizia. Sapevo ciò che stava succedendo. Non è che me lo sentivo, lo sapevo con certezza. E lo sapeva anche Eli. L’ho visto con i miei occhi, l’ultima volta che era tornato a casa. Sapeva che i siriani lo stavano aspettando, sapeva che in Siria lo attendeva la morte. Ed era a casa con me, vivo, ma era come se fosse già morto. Quando mi dissero che l’avevano catturato, non fui sorpresa. Ero pronta, già lo sapevo.
Eppure quell’attimo segna un punto di non ritorno. Un punto di rottura.
Il punto d’inizio di un lutto infinito. È il buio, è la rabbia. Lui era… Cosa devo dirti? Nessuno era come lui. Non c’è mai stato un uomo simile, con una personalità simile, con un’intelligenza simile.
E tu rimani sola.
Sola. Persa. Abbandonata. Quando l’hanno catturato ci hanno proibito di rilasciare interviste, di divulgare la notizia. Dovevamo stare in silenzio. Solo 101 giorni dopo la cattura, quando Eli era ormai già stato impiccato, ci diedero il permesso di parlare.
Come si affronta il dolore della perdita?
Si piange, si digiuna. È come se dell’acqua ti ribollisse nella pancia, nella testa. Volevo credere in qualcosa, cercavo un appiglio. Una briciola. Qualsiasi cosa.
E avevi dei neonati in casa da accudire.
Sì, dei figli che non hanno mai conosciuto il padre. Dei bimbi che non capivano perché la mamma era triste, perché la mamma piangeva. In quel periodo e per tutti gli anni successivi alla perdita, non ero una mamma. Ero un robot. Mi svegliavo la mattina, preparavo la colazione, cambiavo i pannolini, accompagnavo i piccoli all’asilo. Un robot, non una mamma. Un robot privo di emozioni, privo di luce.
Hai dei sensi di colpa? Credi che avresti potuto fare le cose diversamente? Se sì, cosa?
Certo. Mi sarei buttata dal quinto piano. Proprio così, mi sarei buttata giù dalla finestra. Forse se mi fossi suicidata, avrebbero lasciato mio marito in pace, a casa, a prendersi cura dei bambini.
Saresti stata capace di una cosa simile Nadia?
Oggi mi risulta facile dire di sì, ma non so darti una risposta concreta. So dirti soltanto che non riesco a convivere con la consapevolezza che avrei potuto fermarlo.
Una volta hai detto che gli avresti spezzato una gamba pur di non farlo tornare in Siria.
Vero, peccato che io non l’abbia fatto.
Provi ancora lo stesso dolore?
Ogni minuto, ogni istante. Non passa giorno senza che io pensi a lui, che io pianga per lui, senza che io veda i suoi occhi. Occhi tristi, occhi infossati, occhi tormentati. E io lo vedo lì, seduto sulla panchina, accanto alla corda, pronto per essere impiccato. Oggi andando dal dottore non ho smesso di piangere un attimo. Mi chiedevo perché. Perché è successo? Perché si è meritato una morte così crudele? Perché non è con me? Perché i nostri figli non l’hanno conosciuto? Perché?
Dicono che il tempo curi le ferite, non credi sia vero?
Il tempo intensifica il dolore.
Com’è cambiata Nadia nel tempo?
Nadia non è più una ragazza ingenua. Nadia odia le persone che hanno causato la morte di suo marito. Nadia è una donna malvagia.
C’è chi ti definisce invece una donna coraggiosa.
Non credo di essere coraggiosa. Credo di essere una perdente. Ho perso tanto, ho perso tutto nella mia vita. Ho perso un marito meraviglioso, un padre straordinario che aveva a cuore solo il bene dei suoi figli.
Che marito era Eli?
Non posso descrivertelo, non ci sono parole per farlo. Eli è un marito meraviglioso, un uomo che ama la propria patria, che farebbe qualsiasi cosa per tenerla al sicuro, che porta a termine ogni missione, sempre. Parlo al presente, perché è qui con me. Tu sei seduto lì e lui è seduto qui vicino a me.
Ho letto che hai scritto una lettera al Presidente siriano. Che cosa gli hai chiesto?
Che lo perdoni. Che abbia pietà di me. Che sono passati tanti anni ormai. Che mi permetta di seppellire Eli qui. Che io abbia una tomba su cui piangere. Che lui ha dei figli che lo chiamano “papà”, mentre i miei figli non hanno mai potuto pronunciare la parola “papà”.
Ti ha risposto?
Solo tre parole: “arriverà il giorno”. Da allora sono passati trent’anni.
Credi davvero che arriverà il giorno?
No. Perché quelle persone non sono capaci di perdonare. Guarda in che stato vive il popolo siriano. Scorrono fiumi di sangue. I padri se ne vanno e i figli crescono orfani. Non c’è più alcuna traccia di umanità.
Eppure hai deciso di scrivergli comunque.
Mi sono detta che forse valeva la pena provare. Che forse sarei riuscita a suscitare in lui un senso di pietà ancora sconosciuto.
Credi in Dio Nadia?
Quando siamo in difficoltà crediamo tutti in Dio.
E perché non credi che un giorno la salma di Eli tornerà a casa?
Perché sono stati raggiunti livelli di malvagità dai quali non esiste via di ritorno.
Ci sono momenti di luce in tutto questo buio?
Sì, certo che ci sono. I figli crescono e diventano genitori a loro volta. I nipoti vengono al mondo e portano luce, ma io penso sempre a Eli. Mi domando cosa avrebbe detto, cosa avrebbe pensato, come sarebbe stato felice di vedere tutto ciò.
Cosa pensi che avrebbe detto della serie tv che Netflix ha fatto su di lui?
So cosa ho da dire io a riguardo. Nessuno mi ha mai interpellato, nessuno mi ha mai chiesto come fosse il vero Eli. E l’immagine che ne è uscita è assolutamente distorta, sbagliata, non fedele alla realtà. Ci sono alcune scene assolutamente ridicole. Ci ho sofferto moltissimo.
Io credo invece che la serie tv abbia fatto un ottimo servizio al ricordo di Eli. Grazie ad essa ci sono giovani in tutto il mondo che conoscono la storia di tuo marito. Non credi che ne sia valsa la pena?
Sì, da questo punto di vista gli ha fatto un buon servizio. Ha dimostrato a tutti quelli che vogliono cancellare il suo ricordo, che Eli può smuovere le mura dell’oblio come un Sansone e dire: “Ecco, sono ancora qui. Vivo, respiro e vedo tutto”.
Com’è stato vederti sul piccolo schermo?
Mi ha fatto arrabbiare soltanto una scena di nudo, decisamente volgare, ma per il resto non ho grosse critiche da fare. Diciamo soltanto che la Nadia di Netflix ha ricevuto molto più aiuto e sostegno di quanto la vera Nadia ne abbia mai ricevuto.
Che testamento ha lasciato il tuo Eli alle generazioni future?
Di essere forti, di rimanere uniti.
Qual è la cosa che ti manca di più quando pensi a lui?
La sua voce. La sua stabilità. Mi manca vederlo invecchiare. Vederci invecchiare insieme. Mi manca appoggiare la mia testa sulla sua spalla.
Sono trascorsi cinquantacinque anni dal giorno in cui Eli ci ha lasciati. Hai mai amato un altro uomo?
Mai. Nessuno. Nemmeno uno sguardo.
Cinquantacinque anni privi di amore?
Perché privi di amore? Ho amato molto, solo Eli però. Oggi e sempre. Lui è con me, mi accompagna. Vedo il suo sorriso, la sua malinconia, la sua rabbia. Ma non mi ha mai lasciato. A volte mi siedo davanti alla finestra e controllo se passa per caso davanti a casa. Ogni volta che vedo una nuvola sorridermi, sono sicura che sia lui.