Una storia di ebrei del lontano Sudan saltata fuori per uno scherzo del destino
Davide Silvera
Lo ammetto, notai Mary dal primo momento. Quando entrò per la prima volta in sala professori del liceo femminile religioso di Herzliya, e garbatamente si rivolse a me, chiedendomi di compilare l’autodichiarazione di buona salute del Covid-19. Una piccola e magra signora, sguardo vispo e voce piacevole, con il copricapo delle ebree ortodosse e gonna lunga. Tra i settanta e gli ottant’anni, avrei detto.
Ma cominciamo la storia dall’inizio. Facendo di lavoro la guida turistica, non appena Israele ha chiuso a marzo le frontiere ai turisti di tutto il mondo, mi sono ritrovato ad essere di nuovo disoccupato. Dico di nuovo perché in oltre 30 anni di lavoro ho conosciuto almeno due lunghi periodi di pausa forzata, che corrispondono alle due Intifade palestinesi, la prima nel 1987, la seconda nel 2000, di cui ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario. Nei suddetti periodi fui costretto, come molti miei colleghi, a reinventarmi, facendo di tutto per sbarcare il lunario: dalla distibuzione di giornali agli abbonati (all’alba) all’inviato di quotidiani e settimanali italiani.
E così anche a questo giro mi sono adattato a fare quello che offriva il mercato. O meglio mia moglie, preoccupata per il nostro futuro, mi ha trovato diversi lavoretti per non oziare e portare a casa qualche lira.
Uno dei lavoretti era il sorvegliante agli esami di maturità. Un’occupazione tipica dei pensionati, che non richiede sforzi particolari, e che è per questo molto ambita tra i rappresentanti della terza età (categoria di cui, per il momento, non faccio ancora parte). L’idea di stare seduto ore e ore in un’aula a controllare che le maturande non copiassero una dall’altra non era particolarmente allettante, ma di nuovo, questa era l’offerta.
Un paio di giorni prima dell’inizio degli esami c’è però un colpo di scena… Mi chiamano da Manpower (l’agenzia internazionale di collocamento) e mi chiedono: “Ma lei invece di fare il sorvegliante nelle aule sarebbe disposto a fare il garante delle casseforti?”. Confesso che non avevo la minima idea di cosa si trattasse, ma l’intuito mi disse di accettare al volo. Il titolo era altisonante, e sicuramente, pensai tra me e me, più qualificato di quello di sorvegliante. Chiesi alla signorina al telefono di cosa si trattava e mi spiegò che gli esami di maturità vengono custoditi, prima di ogni esame, in una delle casseforti di cui ogni liceo è dotato. Solo un quarto d’ora prima dell’inizio ufficiale di ogni esame, la segretaria del liceo può aprire la cassaforte, nel senso che dalla centrale degli esami “sbloccano” le casseforti da lontano e ne permettono l’apertura con una combinazione inviata per tempo ai licei. Ad ogni apertura di cassaforte, quindi prima di ogni esame, ci deve essere un garante esterno al liceo che deve controllare che non ci siano interventi poco “casher” per favorire gli esaminandi. Un lavoro che richiede poco sforzo, anche perché aperta la cassaforte potevo fare quello che volevo fino alla fine dell’esame. Finito il tutto mi consegnano gli esami e li porto in un centro di smistamento per poi farli arrivare a chi li deve contollare. Ma torniamo a Mary…
Nei primi giorni il nostro rapporto si limitò alla compilazione quotidiana dell’autocertificazione di cui sopra, ma pian piano la curiosità mi portò a cercare di capire che storia avesse Mary. Il mio intuito levantino – sono di origini aleppine – mi diceva che la signora aveva origini mediorientali, e quindi arabe. Cominciai col dirle ogni giorno qualche espressione in arabo, del tipo: Illalika (arrivederci) o Shlonek (come stai? Letteralmente: di che colore sei?, bellissima espressione dell’arabo siriano-libanese). Mary ogni volta rideva un po’ timidamente, facendomi capire che capiva, ma senza però rispondere in arabo, e quindi il dubbio rimaneva.
Decisi che fosse, come molti che conosco, di origini egiziane. E così continuai a credere per alcune settimane. Poi un giorno glielo chiesi direttamente e lei mi rispose, sorridendo: “Non lo indovinerai mai” Cominciai ad elencare tutti i paesi del Medio Oriente dove gli ebrei avevano abitato, almeno fino al 1948, e lei, divertita, continuava a fare no con la testa.
Finché, dopo essermi arreso, le chiedo di dirmi da dove era arrivata in Israele. E qui lei, sapendo di sorprendermi, disse: ” Dal Sudan”.
Della gloriosa e numerosissima comunità ebraica dell’Egitto pre-1948 si sa tutto e di più, grazie anche a numerosi libri di memorie pubblicati negli ultimi anni. Ma confesso che non sapevo nulla dell’esistenza di una comunità nel confinante Sudan.
Inizialmente Mary non sembrava troppo disposta a entrare nei particolari, e quindi non insistetti con le domande. Ma poi decisi che la minuta signora meritava un’intervista, che avrebbe potuto anche dare lo spunto per il presente articolo. Ma qui Mary cominciò a schermirsi, dicendo che non c’era niente di così interessante da raccontare e che perché intervistare proprio lei ecc. ecc. La mia insistenza quotidiana non ebbe successo, finché la segretaria del liceo, Hagit, che conosce Mary da anni, la convinse dicendole che era un’occasione unica di raccontare la sua vita e di rispolverare le vecchie memorie.
Fu così che Mary ed io ci trovammo, in un afoso pomeriggio di fine agosto, in una classe del liceo a parlare della sua infanzia in Sudan, di suo nonno rabbino capo del Sudan e di suo padre direttore di un lussuoso hotel a Khartum.
Inutile dire che Mary, una volta tolte le barriere, cominciò a parlare a valanga, intercalando a volte parole ed espressioni inglesi, raccontandomi per filo e per segno tutto quello che si ricordava.
Del nonno, inviato in Sudan dalla Palestina nel 1906, che faceva sogni premonitori e riconvertiva ebrei che si erano fatti musulmani.
Del padre che, dopo aver diretto grandi hotel in Egitto, era stato trasferito a Khartum, dove poi sarebbe nata Mary con i suoi cinque fratelli e sorelle.
Della scuola delle suore dove aveva studiato, assieme a “compagne di classe sudanesi istruite”, il francese e l’arabo classico.
Delle sue amiche musulmane e greche che venivano spesso a passare i pomeriggi nella sua enorme e lussuosa casa, che pullulava di servitù.
Dei problemi sorti dopo la fondazione dello stato di Israele nel 1948, la partenza degli inglesi dal Sudan nel 1951, e la precipitosa fuga della famiglia nel 1952, lasciandosi dietro tutto.
Restammo a parlare per più di un’ora, con Mary che mentre mi raccontava un episodio si ricordava di un altro, e che, come spesso succede, non avrebbe mai voluto terminare l'”intervista”, di cui, inizialmente, non aveva voluto saperne.
Al termine della chiaccherata le chiesi se aveva fotografie di famiglia (e non) degli anni trascorsi in Sudan, e dopo aver cercato a casa sua mi disse, con un po’ di rammarico, che non ne aveva nemmeno una.
Continuammo poi a incontrarci ad ogni esame, finché, dopo quello finale, le ho detto, per l’ultima volta, Illalika.
P.S. Dietro suggerimento di Anna Segre, la direttrice di Ha Kehillah, cerco e trovo su Internet una bellissima foto del nonno di Mary, Shlomo Malka e parte della sua numerosa famiglia. La ragazzina in piedi vestita di bianco, sulla sinistra, è Sarina (Sara), la mamma di Mary.
Mary, a cui ho fatto avere la foto, non l’aveva mai vista.