Un chiarimento doveroso sul “modello charedì” nei confronti della pandemia
Deborah Cohenca
Vorrei approfittare delle pagine di Kolòt, sul quale è apparso recentemente un articolo di Rav Somekh, per fare un po’ di luce sul mondo ebraico ortodosso e sulla posizione degli ebrei definiti “charedìm” riguardo alla pandemia da Covid-19.Anzitutto, la definizione di ebreo “charedì” (o ortodosso, oppure ultra-ortodosso a seconda dei punti di vista), dipende, appunto, dal punto di vista. Per qualcuno, una donna sposata che si copre il capo quando va al Tempio è una manifestazione di ultra-ortodossia; per altri, una forma di rispetto o di adesione minima ai principi normativi ebraici del codice Shulchàn Arùkh, per altri, ancora meno. E la stessa cosa vale per l’aderenza ad altre norme sull’abbigliamento e sull’osservanza di molti precetti. Io sono osservante per scelta, considerata più o meno ortodossa a seconda di chi mi guarda.
Non ho la minima idea se io sia charedìt o no, e la cosa mi interessa poco. Però negli ultimi anni mi sono trovata a frequentare di più l’ambiente definito “charedì”, e ci terrei a sfatare alcuni stereotipi e pregiudizi. Potrei dire in tono scherzoso che gli ebrei “charedìm” sono persone assolutamente normali, alcuni anche particolarmente gentili e affabili, non hanno la coda, e nemmeno mordono! In tono più serio, devo precisare che, dalla mia esperienza personale, mi risulta che l’aderenza alle norme civili non dipende affatto dal livello di religiosità. Riguardo alla pandemia da Covid-19, da quello che vedo personalmente, che leggo e che sento, il mondo ebraico “ortodosso” si comporta esattamente come tutto il resto del mondo. C’è chi rispetta scrupolosamente le regole sulle mascherine e sul distanziamento sociale, altri che ci litigano di più; ma la cosa accade in tutti i Paesi, in tutti gli ambiti sociali.
In questi ultimi mesi ho viaggiato in aereo; in alcuni casi ero l’unica ebrea, in altri ero in buona compagnia, di ebrei che potrebbero essere definiti “charedìm”. C’erano (pochi) passeggeri che con la mascherina ci litigavano parecchio e che sono stati più volte ripresi dal personale di bordo, ma non erano quelli riconoscibili come ebrei ultra-ortodossi; con tutta probabilità non erano manco ebrei. C’erano (pochi) passeggeri parecchio restii a compilare l’auto-certificazione sullo stato di salute, ma non eravamo “noi”. Durante i voli sono state distribuite le salviette disinfettanti al posto di cibi e bevande; “noi” le abbiamo usate, gettando poi salvietta e bustina negli appositi contenitori portati dal personale di bordo; alcuni “altri” non le hanno usate, o peggio, le hanno usate e poi lasciate sui sedili dell’aereo. “Noi” abbiamo rispettato l’ordine di imbarco e sbarco per numero di fila di posti, alcuni “altri” no.
Potrei continuare con un elenco piuttosto noioso, ma il punto a cui voglio arrivare è questo. A prescindere dal gruppo ebraico al quale si ritiene che gli altri appartengano, nel caso della pandemia, come in tutti gli altri casi non si può generalizzare; è pericoloso e fuorviante. È stato più volte accertato che la percentuale di aderenza alle restrizioni in vigore nelle città israeliane più ortodosse come Benè Berak è esattamente la stessa del resto del mondo. Chi brucia le mascherine sono una minoranza, che non va generalizzata. Vivendo il mondo ortodosso dal suo interno, non mi sembra affatto che la pandemia lo stia “spaccando”, non più di quanto stia “spaccando” il resto della collettività. Tutto il mondo è “spaccato” sulla pandemia causata da un virus di cui ancora non si sa tutto. La comunità scientifica è spaccata sulle misure da adottare, le autorità governative ancora di più.
Nell’articolo su Kolòt è stato omesso il fatto che le principali autorità rabbiniche ortodosse (e anche “ultra-ortodosse”) riconosciute continuano a esortare al rispetto delle norme vigenti e delle indicazioni delle autorità sanitarie locali, anche con messaggi ufficiali di condanna e critica agli episodi come quello di chi brucia le mascherine. La differenza è che le immagini di chi brucia le mascherine finiscono sui media, i messaggi che insistono sulla necessità di proteggersi adeguatamente dai contagi, no. Mi rincresce trovarmi in disaccordo con Rav Somekh, per il quale nutro stima e rispetto, ma quello che Rav Somekh definisce “il modello charedì” sulla pandemia non è affatto il “modello charedì”. La posizione ufficiale e largamente maggioritaria del mondo ebraico ortodosso è quella dettata dalle norme in vigore, dal buon senso e dalla necessità di proteggere la salute propria e altrui.
La posizione ebraica “religiosa” sul Coronavirus è chiara e non dà spazio a equivoci. Se ci sono singoli a cui non piace, rientrano nella percentuale degli individui “disobbedienti” di tutto il mondo. Posso capire le generalizzazioni dei media non-ebraici, che per definizione rincorrono il sensazionalismo, devono “fare notizia”, identificano un singolo con la categoria a cui credono appartenga, cercano e individuano comodi capri espiatori. Al nostro interno però sarebbe auspicabile che fossimo più oggettivi, corretti. E soprattutto, più uniti, più reciprocamente comprensivi. Abbiamo assistito a un rigurgito di antisemitismo sui social media che, era quasi scontato, incolpa gli ebrei dello scoppio della pandemia, identifica gli ebrei come appestati, untori eccetera. Io credo che la prima arma contro l’antisemitismo, contro la pandemia e contro diversi altri mali del mondo sia l’unità. Il Covid-19, appunto, non guarda in faccia nessuno; non fa distinzioni di sorta, etniche o religiose che siano. Siamo tutti nella stessa situazione. Non è colpa degli ebrei, non è colpa degli ebrei ortodossi, non è colpa degli ebrei ultra-ortodossi.
Come facciamo a difenderci all’esterno (o dall’esterno) quando non ci capiamo al nostro interno, quando siamo noi stessi ad alimentare pregiudizi e stereotipi? Perché dare voce a notizie esterne parziali e in alcuni casi faziose? E questo mondo ebraico “ortodosso”, che si ritrova a difendersi più di quanto effettivamente attacchi, perché non provare a conoscerlo di più al suo interno? Se non impariamo a conoscerci e a capirci noi, fra di noi, non possiamo pretendere che ci conoscano, che ci capiscano e che ci rispettino gli “altri”.
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