Sukkòt
Abiterete nelle capanne (succòt) per sette giorni ,… poiché nelle capanne ho fatto abitare i figli d’Israele quando li ho fatti uscire dall’Egitto (Levitico 23: 43): Che tipo di capanne erano? Rabbi Eli’ezer dice: erano nubi di gloria, Rabbi Akivà dice: erano capanne vere e proprie (TB Sukkà 11b).
Rashi, sempre molto attento al significato letterale del testo, riporta solo l’opinione di Rabbi Eliezer, e quasi tutti i commenti, a partire dalla traduzione aramaica di Onqelos, concordano con Rashi. Ora il buon senso e la logica vorrebbero che quando la Torà parla di succòt, intende capanne in “carne e ossa” e non di nubi di gloria, ma Rashì sceglie proprio l’opinione di Rabbi Eli’ezer che viene poi sostenuta da molti Maestri. La decisione di Rashi è ancora più strana se si pensa che Rabbi Akivà nel Sifrà, il midrash halakhà al Levitico, sostiene che le capanne erano nubi di gloria e in genere la sua opinione prevale su quella degli altri Maestri.
Cosa ha spinto Rashì a sostenere che si trattava di nubi di gloria e non di capanne? Perché Rabbi Akivà, il Maestro uscito indenne dall’esperienza mistica legata all’interpretazione della Torà, privilegia proprio quella che sembra essere la più banale e materiale?
Cosa è che spinge Rabbi Eliezer a interpretare succà, come nube di gloria? Innanzi tutto, l’uso che fa Isaia della parola succà (4: 5 – 6: Una succà vi sarà quale protezione di giorno e dal caldo, e rifugio ed asilo dalla tempesta e dalla pioggia) come “nube di gloria” in grado di proteggere dal caldo di giorno e di notte; inoltre l’espressione “nelle capanne ho fatto dimorare”, anche se spesso le azioni umane vengono attribuite a Dio, in questo caso il testo afferma chiaramente che è il Signore l’attore e creatore delle capanne e non l’uomo, mentre avrebbe dovuto usare un termine più semplice e dire semplicemente che gli ebrei avevano dimorato…
Ma le capanne furono davvero costruite dopo l’uscita dall’Egitto? Sembra proprio di no. Nehemià (8, 17) narra che gli ebrei fecero della capanne sui tetti, cosa che non facevano dai tempi di Giosuè: si badi bene non dai tempi di Mosè, perché in tutti gli anni delle peregrinazioni nel deserto non facevano feste per Succot, in quanto erano perennemente protetti dalle nubi di gloria. .
Inoltre i Maestri si chiedono se c’erano le condizioni halakhiche per costruire una vera e propria succà. In effetti, se le nubi accompagnavano e proteggevano gli ebrei, era impossibile costruire una succà sotto la “capanna di nubi”! Essendo costantemente sotto le nubi di gloria non hanno potuto fare la capanna fino a quando sono entrati nella Terra d’Israele. Sono dovuti passare 14 anni (sette di guerra e di conquista e sette per la divisione della terra) prima che l’obbligo di fare la succà divenisse effettivo.
Abbiamo cercato di capire le motivazioni di rabbi Eli’ezer, ma perché Rabbi Akivà, il Maestro uscito indenne dall’esperienza legata all’interpretazione mistica della Torà, privilegia proprio quella che sembra essere la più banale e materiale?
Siamo abituati a pensare che lo scopo della Torà sia quello di allontanarsi dagli aspetti materiali della vita per raggiungere meglio lo scopo finale che è quello spirituale. Ciò che caratterizza la mizvà della succà è che tutto ciò che avviene dentro la sukkà (il dormire, il mangiare, l’avere rapporti coniugali o addirittura partorire come accadde ad Hillel) trascende l’atto stesso: ciò che sembra un fatto esclusivamente materiale assume aspetti altamente spirituali.
L’opinione di Rabbi Akivà non ha bisogno di essere giustificata: sembra del tutto normale, ma perché non si è lasciato trascinare dalle idee di rabbi Eli’ezer? Rabbi Akivà è il Maestro che non ha esitato a dichiarare che Il Cantico dei Cantici è il più sacro dei libri (kodesh kodashim): l’amore è la massima espressione della volontà divina, la vita materiale, che si esprime attraverso l’alimentazione e quindi il cibo non sono solo materia, ma un’opportunità per sviluppare la spiritualità: anche le frasche o i legni della succà partecipano e vengono innalzate a livello di una santità che le riempie di significati e valori.
Accanto alla contrapposizione tra mondo materiale e mondo spirituale, la cultura occidentale tende a separare ciò che è naturale da ciò che è miracoloso: anche secondo Rabbi Eli’ezer la materia partecipa e viene innalzata alla vita spirituale perchè le nubi di gloria, oltre a proteggere Israele, servivano a lavare i vestiti degli ebrei che camminavano nel deserto, con scarpe che non si consumavano ecc.
Per l’ebraismo esistono miracoli manifesti (la nube di gloria) e miracoli nascosti che l’uomo deve individuare. Lungo un percorso così impervio e pericoloso come sono stati i 40 anni nel deserto trovare la forza di fare e disfare le capanne giorno dopo giorno, mantenere salda la fede che un giorno sarebbero arrivati alla Terra Promessa comportava una grande resilienza. Trovare queste forze non una volta, ma per tuti i giorni in tutti viaggi che gli ebrei hanno fatto nel deserto delle nazioni, anno dopo anno, questo è il segno del miracolo. Un miracolo che nasce dal basso, dall’attività e dall’impegno dell’uomo.
Le opinioni dei due rabbini sembrano contrapposte e inconciliabili, ma in realtà si integrano e si incontrano attraverso l’applicazione della Torà: perché l’alto possa risvegliarsi (hit’arutà dele’ela), anche chi è in basso deve fare altrettanto (It’arutà diltatà): le nubi della protezione divina si sono manifestate non solo nelle peregrinazioni nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto, ma sempre in tutti i deserti delle Diaspore, in cui gli ebrei hanno manifestato la loro volontà di non cedere ai ricatti delle conversioni forzate..
L’idea della succà (capanna e gloria divina) ha sempre accompagnato i viaggi del popolo d’Israele in tutta la sua storia: affinché ciò continui ad avvenire è necessario che ognuno costruisca la sua succà e gioisca come è prescritto per questa festa.
Moìadim lesimchà