“I miei poveri e tristi tefillìn erano pieni di una muffa malefica, bianca e puzzolente.”
Yair Agmon
Venti anni e due mesi fa, arrivato a 13 anni, ricevetti da mia madre il mio primo paio di tefillìn. Nella casa dove sono cresciuto non c’era un padre, e allora un caro amico di mia madre, si chiamava Yehoshafàt, mi insegnò come si mettono i tefillìn e come si benedice su di essi. Mi ricordo di questo giorno, la sua casa era bella, silenziosa, gerosolimitana e piena di libri, e quando entrai mi tremavano le gambe dall’emozione. Che follia i tefillìn, quanto è privo di senso legarsi delle strisce di pelle animale sulla testa e sul braccio e ciò nonostante questa follia commuove, qualcosa di questa fisicità viene sentita come giusta. È difficile spiegarlo, esprimerlo, non ci provo nemmeno.
Dopo il bar mitzvà iniziai a mettere i tefillìn ogni mattina. Nelle tefillòt di Shachrìt della scuola religiosa dove studiavo, andavamo uno dall’altro e ci aiutavamo a sistemare i tefillìn esattamente in linea in mezzo agli occhi. È qualcosa che si fa a questa età, mi sembra. Ricordo come una mattina, un ragazzo ripugnante della mia classe mi venne incontro, guardò i miei tefillìn e iniziò a ridere. Hai i tefillìn fatti con pelle di bestiame minuto, che sfigato, disse proprio così. Ma che cos’è la pelle di bestiame minuto, domandai, e il ragazzo rise e disse, sono i tefillìn peggiori e quelli che costano meno di tutti. Non dimenticherò mai per tutta la vita questo momento, le orecchie mi diventarono rosse per la vergogna. Nella casa dove sono cresciuto non giravano molti soldi. Mia madre lavorava in posti diversi per arrivare alla fine del mese. Tutti i miei amici avevano dei tefillìn di lusso fatti con pelle di bestiame grosso e solo i miei costavano poco ed erano da sfigati. Oggi mi fa sorridere ma allora mi vergognavo, mi vergognavo un sacco. Ci sono vergogne che quando ti ritornano in mente, senti subito qualcosa di aspro in gola.
Durante i miei primi giorni all’esercito ancora mettevo i tefillìn ogni tanto, ma alla fine dell’addestramento, quanto smisi di portare la kippà, smisi di pregare e smisi anche di metterli. Ancora per alcuni mesi me li portavo dietro nella borsa militare, così solo per abitudine, ma presto anche questo finì e i tefillìn rimasero a casa, tristi, silenziosi e orfani.
Nel 2015 morì mio padre. Fu amara la vita allora, non ho nemmeno la forza di ricordare quanto, ma nella settimana di lutto ripresi a mettere i tefillìn. È quello che di solito si fa durante la settimana, si prega, si mangia, si fuma, si rimane da soli e si piange. Finita la settimana, decisi di pregare tre volte al giorno per poter dire il Kaddìsh per mio padre. Allora abitavano a Kèrem Hatemanìm a Tel Aviv, vicini vicini al mare e non lontano da casa c’era un tempio piccolo e simpatico, ma quando arrivai là a pregare con i tefillìn e tutto, non riuscii a dire il Kaddìsh per la vergogna e la nostalgia. In un momento di disperazione e di tristezza rinunciai a tutto, ai tefillìn, al Kaddìsh e al mio cuore stanco già di tutto.
E così, da quel giorno fino all’inizio del Covid-19 non ho più messo mano ai miei tefillìn. Ma qualche settimana fa, quando è iniziato il lockdown, stavo mettendo a posto a casa e improvvisamente li ho rivisti, buttati in fondo all’armadio nel loro triste sacchetto di stoffa. Senza pensarci troppo li ho presi in mano e ho aperto il sacchetto. Ahimè, povero me, che cosa ho trovato quando l’ho aperto. I miei poveri e tristi tefillìn erano pieni di una muffa malefica, bianca e puzzolente. Mi sono immediatamente fatto piccolo, mi faceva veramente male tutto il corpo, mi faceva male il cuore, mi faceva male la mano, mi faceva male la fronte, terribile. Muffa sui tefillìn, così nel bel mezzo di una pandemia, in un mare nero di incertezza, a che serve tutto questo, mi sono chiesto, a che cosa serve. Lo stomaco mi si è attorcigliato dalla tristezza e dall’odore. Avevo le lacrime agli occhi.
Dopo qualche freddo minuto di tristezza ho aperto le cinghie e ho fatto caso che i contenitori erano rimasti intatti e neri. Senza pensarci troppo ho tolto le cinghie marcite e le ho seppellite. Quando finirà il Covid-19 e la sfiga si darà una calmata, mi sono detto, comprerò delle cinghie nuove, chissà, magari tornerò addirittura a mettere i tefillìn ogni tanto, che potrà mai succedere.
Negli ultimi due mesi lavoro alle riprese di un progetto documentario complesso e pazzo nell’ospedale Ichilov, che racconterà un giorno, spero, l’epidemia Covid-19 da un punto di vista interessante e pieno d’emozione. Il caso ha voluto che una settimana fa stavo riprendendo due pazienti in ventilazione che erano usciti dai reparti isolati all’aria aperta per incontrare i familiari. Uno dei pazienti si chiamava Shimon, un charedì di Benè Beràk, che ha chiesto al personale dell’ospedale di essere aiutato a mettere i tefillìn, ma non c’era nessuno che sapesse veramente come si faceva. E così mi sono trovato, io che sono un datlàsh (sigla di “ex-osservante” NdT) confuso, a mettere i tefillìn a un paziente in ventilazione dagli occhi vispi.
Shimon mi ha chiesto di dire al posto suo le benedizioni a voce alta ed è quello che ho fatto. Quanto tempo era che non dicevo le benedizioni dei tefillìn a voce alta. Ho prima accostato i tefillìn sul braccio, in direzione del cuore e poi ho avvolto le cinghie intorno al suo braccio, sopra i tubicini e gli aghi. Poi ho detto una seconda benedizione e gli ho messo i tefillìn sulla testa, esattamente in mezzo, tra gli occhi, e infine ho incrociato delicatamente le cinghie sulla mano, senza far confusione. Certe cose non si dimenticano mai.
Mi sono veramente commosso, non proverò nemmeno qui a scrivere quanto. Mi è difficile pensare a una cosa più importante e più emozionante mai fatta in tutta la vita. Il rabbino Shimon che piangeva lacrimando e diceva lo Shemà Israèl, io che lo guardavo e scoppiavo a piangere. Piangevo per questa epidemia opprimente che strangola ogni cosa, piangevo per il dolce Shimon che stava guarendo, piangevo per i miei tefillìn che costano poco, stanchi e soli, che si erano ammuffiti, erano passati così tanti anni, avevo ricevuto così tanti avvertimenti, mi erano stati inviati così tanti segnali, è arrivato il momento dei tefillìn, è arrivato il momento dei tefillìn, e ancora non ero stato capace di metterli ed ecco, di botto, nel mezzo di una brutta epidemia, li sto mettendo di nuovo, sto dicendo di nuovo le benedizioni, e la vita è così folle, concentrata, piena, bella. Incredibile.
Traduzione D. Piazza
Makòr Rishòn 15.5.2020 – Titolo originale: “Devarìm shelò shokhachìm”
Yair Agmon (9.7.1987) è scrittore, cineasta e pubblicista.