Lo scrittore Yossi Klein Halevi, cresciuto a Brooklyn e immigrato a Gerusalemme nel 1982: «Gli ultraortodossi, nella loro stretta osservanza, cercano di preservare l’era rabbinica, quella dell’esilio, ricca di saggezza. Adesso rischiano però di bloccare l’innovazione religiosa e intellettuale»
È cresciuto in una famiglia ortodossa, senza l’ultra. Scuola religiosa e amici in un quartiere di Brooklyn «che mio padre, sopravvissuto all’Olocausto, aveva scelto perché ci abitavano già dei conoscenti. Eravamo “ortodossi moderni”: profondamente immersi nella tradizione e allo stesso tempo nella vita corrente. In questo senso la mia educazione è stata unica: ho avuto la possibilità di scoprire gli haredim dall’interno restando un osservatore esterno». Yossi Klein Halevi è immigrato in Israele nel 1982, dove ha continuato a meditare su come l’ebraismo possa integrarsi con la modernità, aprirsi al pluralismo religioso. Sono i temi che affronta con gli altri ricercatori e gli studenti dell’Istituto Shalom Hartman. Gli anni negli Stati Uniti gli hanno fatto conoscere «un ambiente ortodosso diverso, la gente non si era ancora ripresa dall’Olocausto, non era particolarmente devota, c’era molta rabbia rivolta verso Dio. Ma voleva rivitalizzare le comunità distrutte, per onorare la memoria dei genitori e per il bene dei figli. Anche se vivo a Gerusalemme, da allora ho avuto pochi contatti con il mondo ultraortodosso: più gli haredim hanno avuto successo nel loro progetto di rinascita, più ho percepito che innalzavano muri. Ho sempre sentito comunque il bisogno di proteggerli: in un periodo di attacchi crescenti fuori da Israele contro gli ebrei, sono i più visibilmente ebrei e quindi vulnerabili. Studio lo hassidismo e amo la musica hassidica. Da una certa distanza». Da una certa distanza e con diffidenza (reciproca). Così il resto degli israeliani convive con gli haredim, che in ebraico significa «coloro che tremano davanti alla parola di Dio». Una separazione in casa che si è evidenziata durante la crisi sanitaria causata dal Covid-19: il virus è dilagato nelle città e nelle aree a maggioranza ultraortodossa, sotto accusa sono finiti i rabbini che non volevano fermare gli studi nelle yeshiva.
Dice il Talmud: «Colui che studia la Torah protegge l’universo intero». Non chiudere le scuole significava forse per i rabbini contribuire a lottare contro il virus?
«La religione non è una polizza di assicurazione, è una modalità per affrontare le terribili incertezze della vita. Non conosco un sistema più potente e interessante della fede per confrontarsi con l’esistenza: con il fatto che il mondo non visibile risulta più reale di quello materiale sperimentato dai nostri cinque limitati sensi; che la frammentazione degli esseri umani è un’illusione perché tutti noi esistiamo all’interno di una singola “mente” divina. La religione comincia a non funzionare quando fa promesse che non può mantenere».
Mettere al mondo figli è una mitzvah, un precetto da adempiere. Le donne ultraortodosse faticano tra gravidanze e la famiglia da seguire. «La condizione femminile nel mondo ultraortodosso è insostenibile. Madri che crescono numerosi figli e allo stesso tempo mantengono tutti, perché gli uomini devono poter studiare la Torah a tempo pieno. Alcuni cambiamenti sono provocati proprio dalle donne che hanno conosciuto il mondo più dei loro mariti. Può sembrare paradossale in una società patriarcale ma è un risultato naturale quando le mogli escono di casa e fanno parte della forza lavoro, mentre i maschi restano chiusi nelle aule».
I rabbini del passato ammonivano contro il restare disoccupati.
«L’idea di una comunità composta da centinaia di migliaia di persone tutta costruita attorno allo studio della Torah è interamente nuova nei quattromila anni di Storia ebraica. È una risposta diretta all’Olocausto, che devastò il mondo ultraortodosso».
Lei ha scritto: sarò sempre grato agli haredim per aver preservato senza compromessi l’identità ebraica.
«Nel 1945 la vita ebraica era in frantumi. La più numerosa comunità sopravvissuta, quella americana, era già per metà assimilata. Gli ebrei dell’Unione Sovietica venivano eliminati o assorbiti con la forza nella cultura sovietica. Gli ebrei che vivevano nel mondo arabo stavano per diventare rifugiati. Nella piccola comunità della terra d’Israele, i pionieri sionisti laici cercavano di costruire donne e uomini nuovi scollati dalla tradizione. Gli ultraortodossi sono stati fondamentali nel conservare una cultura millenaria che rischiava di scomparire. C’è qualcosa di profondamente emozionante in un’intera comunità che sceglie la povertà per studiare la Torah. Ma in Israele non possiamo più permettercelo, abbiamo bisogno di un nuovo rapporto».
Come può evolvere questa relazione?
«Nella società israeliana sta avvenendo una guerra culturale tra la seconda e la terza era dell’ebraismo. La prima è stata quella biblica, durata circa duemila anni. La seconda quella rabbinica, dell’esilio, altri duemila anni. Stiamo vivendo l’epoca che non ha ancora un nome: è definita dalla distruzione delle comunità ebraiche in Europa, dal ritorno del popolo ebraico alla sovranità, dall’emergere di comunità della Diaspora che sono per la maggior parte accettate dalla popolazione non-ebrea. Gli ultraortodossi, in quanto stretti osservanti della legge rabbinica, stanno cercando di preservare la seconda era e trasportarla nella terza. La seconda era possiede grande saggezza da offrire, non può però bloccare l’innovazione religiosa e intellettuale».
Il film e le serie televisive scelgono di raccontare soprattutto le esperienze di chi ha lottato per andarsene dalla comunità.
«Usare le storie di chi è fuggito per aprire una finestra giornalistica o artistica è comprensibile. Fino a un certo punto. Alcuni gruppi oltranzisti – la setta Satmar, per esempio – meritano il biasimo di film come Unorthodox . Abbiamo anche bisogno del tocco umanizzante alla Shtisel per ricordarci che quello ultraortodosso è davvero un mondo e merita molto più rispetto di quanto gli estranei siano disposti a offrire, ma non la deferenza acritica che i rabbini sembrano pretendere».
Corriere Della Sera 15 maggio 2020 © RIPRODUZIONE RISERVATA
Grazie a Alan Naccache
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