Aspetti problematici nell’opera maimonidea e l’approccio di Nahmanide
Ariel Di Porto*
Spesso, semplicisticamente, si è portati a contrapporre Rambam e Ramban come i rappresentanti maggiormente significativi di due mondi contrapposti, la filosofia e la qabalah. Forse, sostiene Septimus, può esserci anche la tentazione di una paranomasia contrarium: trasformando una mem in una nun, ci troviamo catapultati in un universo completamente diverso! L’indagine dell’atteggiamento di Ramban nei confronti di Rambam mostrerà che la contrapposizione è molto meno acuta di quanto si possa immaginare. Piuttosto, in via preliminare, è possibile affermare che Ramban sintetizzi nelle proprie opere le tre principali visioni del mondo che sino ad allora erano rimaste separate nell’esposizione talmudica, in quella filosofica e in quella mistica. Negli ultimi decenni gli studiosi hanno investigato a fondo il pensiero nahmanideo, presentando un quadro estremamente composito. Si rimanda in merito alla bibliografia curata da E. Kanarfogel, che sebbene risalga ormai a venticinque anni fa, mostra gli indirizzi degli studiosi sull’opera di Ramban nei diversi ambiti.
Rambam era il figlio dell’età dell’oro del pensiero andaluso, Ramban invece fiorisce nel clima culturale dell’Europa cristiana. Sebbene abbia sviluppato una serie di dottrine significative, non sarebbe corretto rapportarsi a Nahmanide come a un filosofo, dal momento che non si è mai cimentato nella scrittura di un’opera filosofica sistematica. Il genere letterario in cui ha eccelso è infatti il commento, e dai suoi commenti è possibile ricostruire il suo pensiero, senza tuttavia pretenderne di ricavarne delle teorie globali. Probabilmente questa apparente difficoltà è parte integrante del modo di procedere di Ramban, che affronta un problema alla volta, senza dare mai l’impressione di voler costruire un quadro completo e coerente. Considerare il suo pensiero come una reazione al pensiero di Rambam, con la conseguente costruzione di un modello alternativo sarebbe un approccio semplicistico, che non renderebbe giustizia al valore di Nahmanide, e non terrebbe conto dell’eclettismo costitutivo che caratterizza la sua opera. Con il lavoro di Ramban sotto molti punti di vista viene aperta la strada alla modernità e vengono fissate le categorie che avrebbero fatto da sfondo allo sviluppo del pensiero ebraico nei cinque secoli successivi.
Il contesto storico in cui vive Ramban
Il giudaismo spagnolo aveva affrontato un periodo molto difficile, dopo avere raggiunto il massimo splendore nel contesto culturale arabo, per via della Reconquista cristiana e dell’invasione delle tribù berbere provenienti dall’Africa settentrionale. Verso la metà del XII sec. gli Almohadi avevano invaso tutta la Spagna musulmana. Le comunità giudaiche furono costrette, per far fronte a questa nuova situazione, a emigrare verso oriente o tentare di ricostituirsi nella Spagna cristiana, tornando a fiorire all’inizio del XIII sec. La principali comunità della Catalogna, Barcellona e Girona, svilupparono una relazione molto stretta e feconda con la Provenza. E’ probabile che il Raavad, il massimo rappresentante dell’ebraismo provenzale del XII sec., abbia visitato Barcellona. In un secondo momento gli spagnoli sarebbero entrati in contatto con la scuola della Francia del Nord e con la cultura derivante dall’opera di Rashì e dei tosafisti. In tal modo in Spagna gli studi religiosi fiorirono nuovamente, mentre in Francia molti accolsero favorevolmente il razionalismo filosofico maimonideo. Gerona rappresentò il vero e proprio crocevia delle più svariate tendenze. Nel confronto continuo fra cultura talmudica, filosofica e qabalistica emerse come leader indiscusso il Ramban.
La vita di Ramban
Rabbì Moshè Ben Nahman, noto anche con l’acronimo Ramban e il patronimico Nahmanide, o con il nome spagnolo Bonastruc da Porta, è uno dei principali rappresentanti del giudaismo spagnolo del Medioevo. Nacque a Gerona nel 1194. Sappiamo poco della sua famiglia. La mamma era la sorella di Avraham, padre di Yonah Gerondi. Ramban nacque in una famiglia aristocratica ed ebbe una moglie e dei figli. Ad uno di essi, Nahman, è indirizzata la famosissima Ighheret musar. In base alle informazioni che ci sono arrivate i due momenti fondamentali nella sua vita furono rappresentati dal coinvolgimento, all’inizio degli anni ‘30 del Duecento, nella disputa maimonidea che andava imperversando e dalla partecipazione, nel 1263, alla disputa di Barcellona, nella quale affrontò vittoriosamente Pablo Christiani di fronte al re Giacomo I. I temi affrontati furono principalmente due, il verificarsi della venuta del Messia e la natura divina o umana di esso. I Dominicani, impegnati in quegli anni in una fervente opera conversionistica, reagirono cercando di colpire personalmente Nahmanide facendolo condannare, quasi settantenne, al pagamento di una multa e all’esilio. Dopo un periodo in Europa, in Castiglia o nel sud della Francia, Nahmanide emigrò in terra di Israele, dove morì nel 1270, dopo aver concluso il suo capolavoro letterario, rappresentato dal suo commento alla Torà. A livello dottrinale la terra di Israele e la sua produzione letteraria hanno un ruolo molto importante nell’opera di Ramban. Basti pensare per esempio alla discussione con Maimonide sull’obbligo di stabilirsi in terra di Israele; Maimonide ritiene che non vi sia un precetto biblico in tal senso, mentre Nahmanide pensa che non sia solo un obbligo, ma che sia equiparabile a tutti gli altri precetti.
Il Ramban fu formato da numerosi importanti rabbini dell’epoca, Natan ben Meir di Provenza, che lo aveva introdotto all’erudizione della scuola provenzale, Yehudà ben Yaqar, allievo del grande tosafista Yitzchaq ben Avraham, e secondo alcuni Yitzchaq il Cieco, per Ghershom Scholem il grande diffusore della Qabalà in Catalogna e in Provenza, Ezrà e ‘Azriel di Gerona. Vari studiosi, primo fra tutti Moshè Idel, rilevano tuttavia delle differenze sostanziali fra la qabalà del Ramban e quella del circolo di Gerona. Ramban approfondì anche gli studi profani, in particolare la filosofia e la medicina, che gli garantì i mezzi di sussistenza.
L’opera di Ramban
Ramban fu un poligrafo che si è cimentato in numerosi generi letterari, dall’esegesi biblica al commento talmudico, dalla filosofia alla poesia, dalla polemica all’omiletica. Il campo per cui è maggiormente ricordato è quello della qabalà, per via del suo apporto innovativo, se confrontato con quanti lo hanno preceduto in tale settore. Questo suo approccio ha conferito alla qabalà legittimità e autorevolezza. Sia i cabbalisti che i ricercatori lo riconoscono in modo pressoché universale come il principale rappresentante della mistica del XIII sec.
In campo esegetico forma, assieme a Rashì e Ibn ‘Ezrà, una triade che Isadore Twersky ha definito, con una felice espressione, il perno, il punto e il contrappunto dell’esegesi scritturistica. Il rapporto di Ramban con Avraham ibn Ezrà è estremamente complesso. Nella sua introduzione al commento alla Torà Ramban lo caratterizzerà parlando di un “rimprovero manifesto e amore nascosto”. In campo talmudico è notevole il suo debito nei confronti di R. Yitzchaq Alfasi, il Rif, che lo porterà a maturare un approccio molto particolare nei confronti delle aggadot rabbiniche. In tal modo al conservatorismo in campo halakhico verrà affiancata un’estrema libertà in campo esegetico. In tal senso gli studiosi hanno variamente interpretato l’affermazione di Ramban nella disputa di Barcellona, secondo la quale viene riconosciuto alla aggadà un valore relativo, tale da non essere obbligati a crederle. Molti ritengono infatti che quella affermazione in bocca a Ramban rivesta solo una funzione apologetica, funzionale alla disputa in corso, dal momento che i suoi testi sono imbevuti di materiale aggadico. Più in generale anzi la aggadà cela grandi misteri, degni di essere investigati. Non è altresì credibile che una figura tanto centrale non riconosca la piena autorità di un testo canonico.
Altri ritengono invece che Ramban fosse serio: Abravanel per esempio polemizza con Ramban e i suoi seguaci per via della loro considerazione della aggadà. Anche studiosi moderni, come Saul Liberman, ritengono che Ramban non sia altro che il continuatore di una tendenza già presente nel giudaismo.
Altri, come Bernard Septimus, attribuiscono a Ramban un atteggiamento ambivalente: la aggadà presenta numerose differenti opinioni, e lo studioso deve operare una selezione fra di esse, considerandone quindi alcune come false.
Il commento alla Torà di Ramban si differenzia a livello macroscopico da quello di Rashì, che fa ampio uso di materiale aggadico, sia in ambito omiletico che legale. Ramban tende invece in maniera più decisa a concentrarsi sul peshat. Sotto certi aspetti è possibile considerare il commento del Ramban come il primo supercommentario al commento di Rashì, dal momento che gli studiosi hanno calcolato che il 38% delle sue interpretazioni bibliche si riferiscono alle spiegazioni di Rashì.
Il suo commento alla Torà ha goduto di una grandissima diffusione, principalmente negli ambienti colti. E’ stato stampato molte volte. L’editio princeps, stampata a Roma, è antecedente al 1480.
La diffusione del Mishnè Torà e del Morè Nevuchim
Maimonide completò il Mishnè Torà nel 1178. La discussione sull’opera iniziò con la sua diffusione in Europa, poco dopo il 1193. Le critiche principali giunsero dalla Provenza. I rabbini provenzali difatti avevano gli strumenti halakhici per sottoporre al vaglio l’opera maimonidea. L’accoglienza fu invece generalmente più benevola in Spagna, per via della minore familiarità con il testo talmudico. In breve tempo il Mishnè Torà divenne per le nuove generazioni l’unico punto di contatto con la normativa ebraica. Allo stesso modo il grande pubblico, spesso di formazione razionalistica, veniva introdotto per mezzo di esso nel mondo della halakhà. Il Morè Nevuchim, scritto in arabo, venne invece tradotto da Shemuel ibn Tibbon intorno al 1200, e in tal modo iniziò a diffondersi in Europa.
La disputa maimonidea
Con la morte di Rambam, avvenuta nel 1204, si aprì un aspro dibattito, che vivrà varie drammatiche fasi, intorno alla sua filosofia. In realtà la disputa rappresentò un momento di confronto serrato fra due diverse visioni del mondo. Alla disputa, a più riprese, prenderanno parte molti celebri maestri dell’epoca.
Gli studiosi individuano varie fasi nella controversia:
- Una prima fase della disputa, quando Maimonide era ancora in vita, si svolge in oriente, circa aspetti halakhici dell’opera di Maimonide e la sua critica al Gaonato e alla sua corruzione, mentre in occidente si sviluppa intorno al tema della resurrezione dei morti.
- La seconda fase si dirama dalla Provenza nei primi anni trenta del Duecento. I rabbini francesi e provenzali emisero un bando e un contro-bando nei confronti del Morè Nevuchim. Nel breve intervallo fra l’uno e l’altro Nachmanide tentò di comporre la controversia, come vedremo più diffusamente. Nel 1232, probabilmente a Montpellier, il Morè Nevuchim venne dato alle fiamme. Non è chiaro chi abbia formulato la denuncia alle autorità ecclesiastiche: la versione tradizionale vuole che la responsabilità fosse di Shelomò ben Avraham da Montpellier e i suoi due discepoli David ben Shaul e Yonà Gerondi, ma è più probabile che sia stato un ebreo convertito, al corrente di quanto stava avvenendo.
- La terza fase, che ci interessa meno in questo momento, si svolge nella Spagna cristiana fra il 1300 e il 1306.
Quando era ancora in vita, Rambam ricevette un violento attacco da parte del capo dell’accademia di Baghdad, Shemuel ben Alì, che trasmise la propria ostilità ad uno dei suoi discepoli, Daniel ben Sa’adià, il quale inviò un testo polemico ad Avraham, figlio del Rambam, giungendo persino a mettere in dubbio l’ortodossia di Rambam. In quelle circostanze Avraham diede prova di grande moderazione, e, sebbene Daniel non condividesse le idee del padre, preferì ritirarsi dalla disputa, lasciando cadere la richiesta di scomunica proposta dai sostenitori di Rambam.
Uno dei più accesi detrattori di Rambam fu il Raavad, Rabbì Avraham ben David di Posquieres (1125-1198), il quale considerava la filosofia un’occupazione da dilettanti.
Vari aspetti all’interno del pensiero maimonideo, così come è espresso nel Morè Nevuchim, solleveranno accese critiche. Queste sono le principali:
- nel Morè Nevuchim non viene affrontato il tema della resurrezione dei morti. la questione venne posta dalle accademie yemenite e siriane già quando Rambam era in vita. Sull’autenticità della risposta maimonidea (Maqala fi-Techiyyata ha-Metim), i commentatori medievali del Morè Nevuchim e i ricercatori moderni esitano a pronunciarsi.
- la ricerca di una motivazione storico-filosofica delle mitzwot, condotta nella terza parte del Morè Nevuchim, allontanava i fedeli dall’attuazione pratica delle mitzwot;
- l’uso intensivo di interpretazioni allegoriche sacrificava il senso letterale del testo biblico;
- la concezione dei miracoli del Rambam di fatto corrispondeva alla loro negazione;
Anche il Mishnè Torah venne sottoposto ad una severa critica. Fra gli aspetti maggiormente problematici:
- l’omissione delle fonti utilizzate; in merito, e alle considerazioni dello stesso Rambam sul tema, rimando alla traduzione della risposta al Dayyan di Alessandria, Pinechas ben Meshullam, in Hayoun 2003, 260-264.
- alcune idee filosofiche espresse nel primo libro del Mishnè Torà, il Sefer ha-maddà.
- La scarsa considerazione mostrata da Maimonide nei confronti delle usanze locali.
L’atteggiamento di Ramban nella controversia
Al contrario di quanto si possa pensare, nella fase dalla disputa che esplose all’inizio della terza decade del XIII sec., che culminò con il rogo degli scritti di Maimonide nel 1232, Ramban prese le difese di Rambam. Y. Baer, nella sua Storia degli ebrei nella Spagna cristiana, ritiene che in realtà Ramban propendesse, per via dei propri convincimentipersonali, per la posizione espressa dai rabbini di Montpellier, ma ragioni di ordine tattico lo spinsero a difendere Maimonide. Ramban riteneva infatti che il popolo dovesse essere sì ricondotto al patrimonio tradizionale, abbandonando pertanto la filosofia e le scienze, ma in modo graduale. Vari altri studiosi, anche fra coloro che sottolineano le profonde differenze fra i due maestri, notano un atteggiamento incoerente da parte di Nahmanide in questa circostanza.
La lettera di Ramban si inserisce fra il bando e il contro-bando. La sua proposta prevedeva che i rabbini francesi e provenzali si presentassero di fronte a un tribunale di rabbini spagnoli. Quando scrive Ramban è perfettamente conscio di non chiedere una cosa da poco, riconoscendo esplicitamente l’autorità dei rabbini francesi. La proposta di Nahmanide ebbe l’effetto di calmare brevemente le acque, ma di lì a poco la disputa tornò ad imperversare. Di lì a poco Ramban scriverà una seconda lettera, indirizzata questa volta ai rabbini francesi. In questo testo Nahmanide riconosce l’utilità dell’opera di Maimonide, che ha sottratto molti alle vanità degli Yevanim, avvicinandoli alla Torà. A suo avviso il giudizio dei rabbini francesi nei confronti di Maimonide è eccessivamente severo, e soprattutto formulato senza avere la dovuta conoscenza dei suoi testi. Peraltro Maimonide con il suo insegnamento ha contrastato la minaccia Caraita. Il rischio collegato al bando è quello di infervorare ulteriormente i seguaci di Maimonide, tanto da ridurre la Torà a due Torot. Dopo avere affrontato i due temi più scottanti nella dottrina maimonidea, la resurrezione dei morti e gli antropomorfismi divini, Nahmanide richiede di annullare il bando.
Alcuni accenni al rapporto con il pensiero di Rambam
In generale è possibile affermare che Nahmanide tenesse nella massima considerazione il pensiero di Maimonide. Il problema non era rappresentato dalla filosofia di Maimonide, ma dalla filosofia in sé. Molte dottrine di Maimonide potevano sembrargli corrette, per quanto possa essere corretta la filosofia. C’era tuttavia un livello ulteriore, che era quello che veramente gli premeva. Non sarebbe quindi corretto affermare che Nahmanide è sistematicamente in contrasto con Maimonide; piuttosto instaura un dialogo, in cui emergono delle divergenze su determinate questioni cruciali. Le opere del Rambam rappresentano per Ramban una fonte privilegiata, così come i commenti di Rashì e Avraham ibn Ezrà. Ciò che lo differenzia da Maimonide è che quest’ultimo riconosce il suo debito nei confronti di Aristotele e vuole spiegare il giudaismo rendendolo compatibile con la sua filosofia, mentre Ramban si basa solo sulle fonti tradizionali. Nella sua visione la Torà è considerata la fonte suprema di conoscenza, e lo strumento principale per comprendere è rappresentato pertanto dall’interpretazione tradizionale della Torà. Nelle sue parole la Torà comprende “ogni cosa preziosa e ogni meraviglia, ogni mistero (sod) e ogni sapienza gloriosa in essa si trova nascosta, suggellata nel suo tesoro, in un’allusione (remez), in un’espressione (dibbur), nella scrittura (ketivà) e nel discorso (amirà). E’ importante sottolineare come Ramban considerasse la qabalà parte integrante di questa tradizione interpretativa, e rigettava quindi quegli insegnamenti che non facessero parte di quanto trasmessogli dai suoi insegnanti, tanto che Chayim Vital nell’introduzione all’Etz ha-Chayim, considera Nahmanide l’ultimo vero cabalista proprio per via di questa sua attitudine. Da questo orizzonte, almeno dichiaratamente, l’argomento logico e il raziocinio vengono esclusi, ed anzi sono portatori di danno e precludono il profitto. Al tema della perfezione della Torà, che comprende tutte le scienze umane, Ramban dedica la derashà Torat H. temimà, che è stata tradotta e commentata in italiano dal prof. Mauro Perani (Perani 1989). Questo testo, scritto nel 1263, lo stesso anno della disputa di Barcellona, rappresenta un’ottima introduzione al pensiero e allo stile di Ramban. Vari passi della derashà (circa una ventina) verranno poi ripresi nel commento di Ramban alla Torà.
Cercando di riassumere senza pretesa di completezza, le principali differenze fra Maimonide e Nahmanide sono le seguenti:
- A livello teologico, Maimonide si distingue per una concezione della divinità come totalmente priva di attributi, che linguisticamente può essere descritta solo in termini negativi; Nahmanide invece, abbracciando la dottrina qabalistica delle sefirot, ritiene che la divinità sia conoscibile e sia possibile formulare su di essa delle asserzioni positive. Più in generale la divinità di Maimonide appare come maggiormente trascendente, mentre quella di Nahmanide interagisce maggiormente con il mondo.
- Questo diverso approccio dà luogo a una diversa considerazione dei miracoli, i quali, secondo Maimonide, rispondono alle leggi di natura. Ramban invece considera i miracoli uno dei principali fondamenti della fede. I grandi miracoli manifesti, come le dieci piaghe e l’apertura del Mar Rosso, portano l’uomo a riconoscere i miracoli nascosti. A livello metafisico non c’è alcuna differenza fra le due categorie di miracoli. La differenza è piuttosto a livello psicologico: mentre la prima di categoria di miracoli colpisce immancabilmente l’osservatore, l’altra può essere interpretata erroneamente. E’ importante sottolineare che Ramban non intenda negare in questo modo completamente la fisica maimonidea. Ramban ritiene che vi sia un legame molto più profondo di quanto si possa pensare fra il credente e D., e che questa convinzione sia alla base di tutta la Torà. Fra tutti i grandi pensatori ebrei, Ramban probabilmente è quello che dedica lo spazio maggiore alla categoria dei miracoli. Il tema viene approfondito a attenuato nel commento al libro di Yiov (36,7): la sua concezione sui miracoli si riferisce principalmente ai giusti; la maggior parte delle persone sono sottoposte in tutto e per tutto alle leggi naturali. Qui Ramban adombra un principio che caratterizzerà profondamente il suo pensiero: per mezzo delle proprie azioni gli uomini hanno la facoltà di influenzare il funzionamento delle sefirot. I miracoli manifesti discendono dalla terza delle sefirot, tiferet, mentre quelli nascosti dalla decima e ultima, malkhut.
- Commentando Gn. 18,1 Ramban entra in polemica con Ramban sull’episodio di Avraham e i tre angeli. Maimonide infatti ritiene che tutto l’episodio non possa essere reale, dal momento che gli angeli sono assolutamente intangibili, e che sia pertanto frutto di una visione profetica di Avraham. Categoricamente Ramban ritiene che l’interpretazione maimonidea sia in contraddizione con il senso letterale del testo, e che sia vietato ascoltarla e credere in essa. Per vedere gli angeli e interagire con essi non è necessario essere dei profeti. Rambam elabora una visione sostanzialmente intellettualistica della profezia; Ramban insiste sull’elemento esperienziale, parlando spesso di devequt. L’esempio risolutivo in questo senso è Daniel, il quale, pur avendo avuto visioni grandiose, non è considerato un profeta. L’elemento intellettuale è posto in secondo piano rispetto alla vicinanza e al legame che vengono costruiti. La profezia per Nahmanide prevede la cessazione delle normali funzioni corporee. Le esperienze da sveglio, come quelle di Daniel, non sono da considerarsi profezie. Nuovamente Nahmanide presenta una visione del mondo in cui naturale e sovrannaturale sono intrecciati, dal momento che per lui le leggi di natura non ricoprono il ruolo fondamentale che avevano per Maimonide.
- Uno dei temi che sia Rambam che Ramban hanno affrontato, al pari di numerosi altri pensatori ebrei, è quello della ricerca del motivo delle mitzwot. Maimonide mostra in tale ambito un approccio sistematico, sviluppando la sua trattazione a partire dal capitolo 35 del terzo libro del Morè Nevuchim. Nachmanide invece presenta un approccio più frammentario. Rambam ammette poi un unico motivo per ciascuna mitzwà, mentre Ramban ne descrive spesso più di uno, sia che si tratti di motivi basati sul peshat, sia che essi contemplino motivazioni di ordine mistico (‘al derekh ha-emet).
- La discussione sul motivo delle mitzwot trova una sua declinazione nella considerazione dell’astrologia. Secondo Maimonide infatti vari chuqqim, quei precetti che non hanno una motivazione conosciuta, sono indirizzati a mostrare la falsità dell’astrologia mentre Nahmanide utilizza proprio quelle nozioni per fornire una spiegazione di quegli stessi precetti.
- Commentando Lv. 1,9 Nachmanide sferra un vigoroso attacco contro Maimonide circa la ragione dei sacrifici. Secondo Maimonide infatti i rituali sacrificali avevano lo scopo di dimostrare la falsità delle credenze degli altri popoli, come i Caldei e gli egiziani, attraverso l’offerta al Creatore degli animali che consideravano sacri per espiare le proprie colpe. Nahmanide presenta una visione completamente differente delle cose: contesta l’uso da parte di Maimonide di materiale extra-scritturale; non condivide il suo punto di vista, dal momento che il testo indica il motivo dei sacrifici. I difensori di Maimonide, fra cui il Ritvà, noteranno che Nahmanide sembra in questo caso fraintendere quanto Maimonide scrive, dal momento che il motivo dei sacrifici non è quello di convincere le altre popolazioni della falsità delle loro credenze, quanto piuttosto indirizzare il popolo ebraico al culto del vero D.
- Più in generale è possibile notare come Maimonide riferisca molti precetti alla negazione più assoluta dell’idolatria, considerata totalmente falsa e inutile. In molti ambiti Nahmanide riconosce invece a varie entità dei poteri. L’idolatria e la magia per esempio sono vietate agli ebrei, ma questo non significa che siano necessariamente inefficaci.
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*Rabbino capo a Torino