Sarah Kaminski
In questi giorni di riaperture e di ripartenze il settore culturale si interroga sul suo futuro: quando potranno riaprire i cinema, i teatri, le sale concerti, i musei? Al momento non sono in cima all’agenda del governo, ma non possiamo permetterci di dimenticarli, di lasciarli indietro. La produzione culturale è parte della nostra identità, racconta chi siamo stati, cosa siamo oggi e chi saremo domani. E per questo, nei giorni in cui festeggiamo il 72esimo compleanno d’Israele, vorrei dedicare un pensiero al cinema israeliano e alla sua storia, profondamente legata alla nascita del giovane Stato.
La genesi del cinema israeliano va ricercata negli anni precedenti alla fondazione dello Stato, in quanto tutte le istituzioni, dall’Accademia fino ai supermercati cooperativi furono creati sotto il Mandato Britannico (1920-1947). Tra le prime strutture dal carattere solidale e nazionale ricordiamo la Kuppat Holim (Cassa dei Malati), un servizio di assistenza medica e sanitaria ideato e realizzato nel 1911 da Berl Katznelson, uno dei padri fondatori del Sionismo. Nel 1920 fu fondata la società Solel Bone, azienda di costruzioni attiva nel settore pubblico e privato e nel 1923, Pinhas Rotenberg, militante tra le fila dei gruppi armati di Zeev Jabotinsky, istituì la prima centrale Elettrica in Eretz Israel, aiutato dalla famiglia Rothschild e appoggiato dal ministro inglese alle Colonie, Winston Churchill.
La città di Tel Aviv nacque nel 1909 e nella prima boulevard Herzl sorgeva ormai dal 1905 il bell’edificio del Ginnasio Herzliya, simbolo del sistema educativo e dell’importanza che i padri fondatori conferivano all’istruzione nel nuovo insediamento urbano collocato sulle dune lungo il Mediterraneo. La seconda fase istituzionale fu gestita dalle strutture pre-statali e l’Agenzia Ebraica, organizzazione appartenente al Congresso Mondiale Ebraico, fu riconosciuta ufficialmente nel 1929.
Lo sviluppo della demografia in Terra di Israele si divideva tra i centri agricoli – in particolare nei kibbutz e nelle cooperative agricole – e i centri urbani e borghesi di Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme. Le immigrazioni dall’Europa segnate dall’avvento del nazifascismo portarono nella Palestina mandataria una popolazione colta e pragmatica, capace di gestire le nuove industrie e organizzare centri accademici di altissimo livello. Nel 1925 nacque l’università di Gerusalemme e a Haifa, la città degli immigrati arrivati dalla Germania di Hitler, nello stesso anno fu inaugurato il Politecnico, il Tecnion, un centro di eccellenza tecnologica.
Quell’angolo di mondo, non ancora riconosciuto dalle nazioni, era un gran consumatore di cultura; nel 1931 giunse dall’Unione Sovietica la compagnia teatrale Habima che scelse come sede fissa la città di Tel Aviv, dove operavano già HaOhel (la Tenda), teatro dallo stampo socialista educativo e dedito al pubblico proletario e HaKumkum (Il bollitore), gruppo dal carattere satirico e politico, oltre a diversi cori per adulti e ragazzi e a svariate formazioni musicali, tra cui la rinomata Orchestra di Rishon Letzion fondata nel 1899. Nel 1933 aprì i battenti il Conservatorio di Gerusalemme e nel 1936 Arturo Toscanini, fuggito dall’Italia fascista, diresse a Tel Aviv la neonata Palestine Orchestra formata da Bronislaw Huberman.
È in questa atmosfera che cominciò a muovere i primi passi anche l’espressione cinematografica; nel dicembre 1932, nel cinema Eden, pronunciato in ebraico “sinema”, tutti i notabili della piccola Tel Aviv si radunarono per assistere alla proiezione del primo lungometraggio dal titoloOded Hanoded, ovvero Oded il vagabondo. Si tratta di un film muto in bianco e nero in cui il giovane Oded va in gita con i compagni di classe e, distratto dalla bellezza dei paesaggi, si perde tra le colline brulle. Nello smarrimento geografico incontra uno scienziato tedesco intontito dal sole cocente e un gruppo di beduini dall’aspetto esotico, che all’inizio si dimostrano minacciosi, ma alla fine della storia si rivelano amichevoli e leali, tanto da salvare il ragazzino e il nuovo immigrante tedesco.
Il film riscosse un gran successo a Haifa e a Gerusalemme e fu proiettato nelle grandi sale e in occasione di serate culturali nei villaggi e nei kibbutz. Il pubblico amava ammirare i paesaggi e gli animali della propria terra e si identificava con il piccolo eroe “sabra”, l’antagonista della figura diasporica e smarrita dell’emigrante tedesco.
Alla fine del film, Oded viene acclamato come eroe dai suoi coetanei e questo per gli spettatori costituiva l’immagine del “nuovo ebreo”, venerata dalla società di pionieri in Palestina in quanto simbolo del vero nativo israeliano, capace di affrontare l’avventura, generoso con gli indigeni beduini e ben inserito nel collettivo del kibbutz. Il budget era piuttosto scarso, ma il cameraman H. D. Halachmi e il produttore Natan Axelor, venuti dalla Russia, stavano fissando il primo tassello importante del cinema israeliano.
Negli anni ‘50 e ’60 l’establishment israeliano riconobbe, con un buon sostegno economico, l’importanza della “Settima arte” e nel 1955 uscì il classico israeliano, Collina 24 non risponde, girato dal famoso regista inglese Thorold Dickinson con la sceneggiatura del canadese Peter Frye, che in seguito sarebbe diventato un importante riferimento culturale in Israele. Si trattava di un film patriottico in inglese, con protagonisti cosmopoliti: un ufficiale irlandese, un avventuriere americano, un ex nazista, un sabre ruspante e una bella ragazza combattente nel movimento clandestino per la liberazione di Israele. Il film ebbe un successo notevole in Israele e all’estero, ma questo non fu sufficiente a segnare un cambiamento nella produzione locale piuttosto provinciale, con tocchi etnici e umoristici come nella pellicola Fortuna, di Menachem Golan (1964). I film erano costruiti su stereotipi: i portatori del messaggio patriottico e sionistico appartenevano all’élite ashkenazita, mentre i racconti degli ebrei di origine araba tendevano a ridicolizzare la loro cultura e la loro integrazione nella nuova e dinamica società locale.
Le cose cambiarono con Salah Shabati di Ephraim Kishon del 1964, ma il filone della cosiddetta produzione burekas, “film alla napoletana, con stile Bollywood”, resistette fino agli anni ’80, portando la critica moderna a riconoscere solo dopo decenni di produzione sia la qualità culturale sia la capacità di queste pellicole di creare un ponte, seppur in modo virtuale e conflittuale, tra la popolazione israeliana proveniente dal mondo arabo e le loro radici orientali.
Negli anni ’80 la letteratura israeliana divenne un porta bandiera della cultura locale e il mondo entrò in contatto con l’eccellenza letteraria di Israele, da Shai Agnon fino a David Grossman. Il cinema raggiunse la sua espressione più raffinata e universale solo dopo il 1990, con film sulla memoria della Shoah come Sotto l’albero Domim (1994) di Gila Almagor o storie sulla società ultra religiosa come Kadosh di Amos Gitai (1999), che segnò anche l’inizio della sua importante produzione cinematografica (seguiranno Kippur nel 2000 e Donna Grazia nel 2018).
Quando si festeggia la cultura di uno stato che ha appena 72 anni si tende forse a “riassumere” ed elencare i momenti buoni e quelli difficili. Oggi i film israeliani sono senza dubbio un’espressione di eccellenza perché sono interessanti, stimolanti e variegati nella scelta di genere e stile, e senz’altro validi dal punto di vista tecnico. La nuova generazione di cineasti uscita dalle accademie e dai college artistici propone film di animazione come Valzer con Bashir (la storia della guerra del Libano raccontata da Ari Folman nel 2008), Ushpizin (racconto ironico e toccante sulla festa di Sukkot a Mea Shearim, per la regia di Gidi Dar, 2004) e In between, in cui la regista Maysaloum Hamouduna racconta la vita quotidiana di tre ragazze israeliane arabe, una musulmana, una drusa e una cristiana (2016).
I film hanno ottenuto premi a Cannes, a Berlino e a Venezia e nomination all’Oscar. Alcuni si possono vedere liberamente su youtube, altri sono visibili sulle diverse piattaforme di streaming online e in questi giorni di Coronavirus allietano un po’ la chiusura forzata in casa.
A proposito di situazione sgradevole, nell’episodio biblico citato nel libro dei Giudici al capitolo 14, Sansone pone il famoso indovinello in cui chiede cosa significa: “Dal divoratore è uscito il cibo e dall’audace è uscito il dolce”.
La spiegazione dice che dalla ferocia del leone, Sansone attinge miele dolcissimo e lo porta ai suoi genitori. In sostanza, a volte una condizione difficile ci permette di trarre qualcosa di buono. Visto che siamo costretti a casa e abbiamo più tempo per dedicarci ai film, scegliamo qualche titolo nell’eccellente produzione israeliana, guardiamolo e non dimentichiamoci dell’importanza del cinema.
*Università di Torino
https://moked.it/blog/2020/05/01/cinema-disraele-un-racconto-identitario/