David Zebuloni
Come si inseriscono i partiti arabi nella compagine politica israeliana? Potranno mai entrare in un esecutivo? Domande e dubbi. Un acceso dibattito divide l’opinione pubblica e gli esperti
L’ anno a cavallo tra il 2019 e il 2020 verrà ricordato in Israele come l’anno delle elezioni. Non uno, non due, ma ben tre gironi parlamentari sono riusciti a segnare la storia dello Stato di Israele in modo irreversibile, creando una spaccatura, un solco profondo tra religiosi e laici, conservatori e liberali, ebrei e arabi. La società israeliana sembra arrivare ad un punto di non ritorno. A porre fine a questo circo politico, sono la crisi sanitaria e la crisi economica generate dal covid-19. Il partito di Gantz e Lapid, Kahol Lavan, che per più di un anno si è scontrato testa a testa con il Likud, il partito di Netanyahu, per la formazione di un governo di 61 mandati, si è sciolto. Gantz e Lapid si sono separati. Gantz si è unito al governo di Netanyahu e Lapid è diventato capo dell’opposizione. Esasperati dalla situazione, i media israeliani si sono concentrati sul conflitto Netanyahu-Gantz a tal punto da dimenticare la vera protagonista di quest’ultimo girone elettorale: la lista unitaria dei partiti arabi, nonché il terzo partito più grande del parlamento israeliano.
Parliamo di un partito nato nel 2015, frutto dell’incontro di quattro partiti arabi minori che, per evitare la dispersione di voti, hanno deciso di unire le forze e presentarsi agli elettori come partito unico e compatto. A capo della lista troviamo Ayman Odeh, seguito da Mtanes Shehadeh e Ahmad Tibi. Ed ecco il dramma politico: nessuno, apparentemente, vuole il partito arabo nel proprio blocco. Netanyahu accusa Gantz di voler formare un governo con il loro sostegno, comincia così la campagna “O Bibi, o Tibi” e il paese si riempie di manifesti che raffigurano Benny Gantz e Ahmad Tibi seduti allo stesso tavolo con la frase incriminatoria “Senza Tibi, Gantz non può formare un governo”. Gantz risponde alle accuse affermando che esclude di formare un governo con il sostegno della lista unitaria dei partiti arabi e che nel suo blocco accetterà solo partiti di natura sionista e di maggioranza ebraica. L’accusa viene dunque rigirata allo stesso Netanyahu, cui viene dato nuovamente del bugiardo e viene incolpato di incitamento all’odio. Superate le elezioni, l’immagine si schiarisce. Gantz ha effettivamente bisogno dei 15 mandati della lista dei partiti arabi per essere designato dal Capo di Stato, Reuven Rivlin, come primo capolista a provare a formare un governo. Ayman Odeh conferma il suo sostengo a Kahol Lavan e Gantz ottiene la fiducia di Rivlin. Accade così che in una prima conferenza stampa, Gantz allude alla formazione di un governo con la lista unitaria dei partiti arabi.
Netanyahu si presenta immediatamente allo studio di News 12 e chiede di rivolgersi direttamente alle telecamere, scavalcando così l’intervistatrice ed evitando abilmente parte delle sue domande. L’appello di Netanyahu è semplice. La richiesta che viene rivolta a Gantz è quella di riconoscere il periodo di grande crisi che il paese sta vivendo, di mettere da parte i conflitti e di formare insieme un governo di rotazione, in cui di fatto entrambi saranno Capi del Governo per la durata di un anno e mezzo ciascuno. Ciò che segue già si sa, Gantz accetta l’offerta di Netanyahu e l’idea di un governo con i partiti arabi muore sul nascere. Ora che tutto sembra essersi risolto, ci sono alcune domande che intrattengono l’elettore israeliano: qual è il problema dei partiti arabi in Israele? Come mai nessun blocco parlamentare, nemmeno quello di sinistra, vuole annetterlo al proprio governo? E ancora, un partito arabo ha forse motivo di esistere se non può effettivamente influire sulla politica israeliana? Il dibattito è acceso e divide opinione pubblica ed esperti. D’altronde, dalla fondazione dello Stato di Israele ad oggi, non c’è mai stata una coalizione che comprendesse i partiti arabi. Questi ultimi hanno sempre fatto parte dell’opposizione o hanno sostenuto il governo dall’esterno e mai dal suo interno. Diverse figure arabe israeliane di spicco si sono rivolte contro Netanyahu e Gantz nell’ultimo mese.
La giornalista Lucy Aharish e l’attivista politico Muhammad Zoabi spiegano la discriminazione nei confronti dei partiti arabi come risultato di una discriminazione molto più profonda, che tocca l’intera fetta di popolazione araba in Israele. Persino il programma satirico Eretz Neederet deride Netanyahu su questo punto, affermando che egli non ha alcun problema con il fatto che i cittadini arabi votino, purché questi non influiscano poi sul risultato finale delle elezioni.
È lo stesso Netanyahu a spiegare la repulsione nei confronti del partito arabo di fronte alle telecamere di News 12, poco dopo aver lanciato l’appello di alleanza a Gantz. «Io non ho alcun problema con i nostri cittadini arabi. Al contrario, nessun Capo del Governo prima di me aveva investito in loro le stesse cifre che ho investito io – spiega Netanyahu. – Il problema sta nei loro rappresentanti in parlamento, che sono noti come sostenitori del terrorismo islamico e mettono in pericolo l’esistenza dello Stato di Israele». Per capire se l’accusa di Netanyahu è fondata, bisogna controllare chi sono effettivamente i membri di questo partito. Scopriamo dunque che Ayman Odeh aveva affermato a un raduno di Fatah: «Come diceva il grande leader Arafat, loro pensano che sia lontano, ma noi sappiamo quanto sia vicino. Vedrete che la prossima volta che ci incontreremo sarà a Gerusalemme Est, ovvero nella capitale dello Stato della Palestina».
Ahmad Tibi in un’intervista al giornale Haaretz ha dichiarato che se lui fosse stato nel governo, si sarebbe battuto per cambiare la bandiera e l’inno dello Stato di Israele. Hiba Yazbak nel 2015 aveva condiviso su Facebook le immagini del terrorista responsabile di un attentato a Nahariya nel quale fu assassinato un uomo e decapitata sua figlia. In allegato alla fotografia Yazbak aveva scritto un post che rievocava il tanto atteso ritorno in Palestina. Ofer Cassif invece si è dichiarato fiero di essere un estremista e ha definito l’ex Ministro della Giustizia, Ayelet Shaked, una neonazista. «È anche colpa di Shaked se Israele è diventato uno Stato fascista», afferma Cassif. La domanda che ne consegue sorge quasi spontanea: è forse questo il prezzo della democrazia? Dover legittimare delle esternazioni che in altri paesi verrebbero definite anticostituzionali? Dover avallare la candidatura di chi non crede nell’esistenza dello stesso Stato che vorrebbe governare? Ecco, questo è il conflitto. Un conflitto ideologico più che politico. Un vulnus che si traduce in discriminazione, ma che non necessariamente trova in essa le sue radici. Un conflitto che lacera principalmente il cittadino arabo, che di fronte all’urna elettorale scopre un bivio identitario. Votare l’unico partito arabo che può rappresentarlo degnamente in parlamento o non votarlo a causa delle sue posizioni filo terroristiche? Questo è il dilemma.