La favola che segue fa parte di una antologia di leggende popolari raccolte in yiddish da Efim Rajze (1904-1970), uno dei maggiori esperti di folklore yiddish, un esponente dell’ultima generazione di intellettuali di madrelingua yiddish in Unione Sovietica (inviato nei Gulag tre volte: 1929-31; 1934-36; 1948-55). L’autore, che aveva raccolto le storie intervistando narratori, poeti e scrittori ebrei sovietici, non riuscì naturalmente a pubblicare l’antologia in yiddish (anzi quel testo originale è andato perduto, probabilmente intenzionalmente distrutto dalla polizia sovietica), ma fece in tempo a tradurla in russo e in tale lingua fu pubblicata postuma (con il titolo Evrejkie Narodnye Skazki, Predania, Bylicki, Rasskazy, Anekdoty, Symposium, San Pietroburgo 2000) suscitando vivo interesse in patria. Da quella edizione Bompiani pubblicò una traduzione italiana: Racconti e Storielle degli ebrei, Testi inediti della tradizione yiddish, Raccolti da E.S. Rajze, Bompiani, Milano 2004), che pare a me sia passata abbastanza inosservata nelle nostre comunità. Sandro Servi
Favola del rabbino che finì all’Inferno
Morì il rabbino di Sklov. Lo seppellirono con tutti gli onori. Ben presto il figlio del rabbino fu colto da una forte nostalgia di suo padre. A Sklov nel vecchio mercato stazionava notte e giorno più di un balagole1 in grado di portare ogni passeggero ovunque fosse. Il figlio del rabbino si avvicinò a uno di quei balagole e gli chiese:
“Quanto mi verrà a costare un viaggio all’altro mondo?”
“Vi costerà”, rispose il balagole, “dieci rubli, com’è vero che una focaccina costa un solo copeco.”
Il figlio del rabbino ingaggiò il balagole e gli ordinò di condurlo in Paradiso. Era convinto che il suo santo padre si trovasse proprio dove devono trovarsi tutte le anime dei giusti.
Uscirono dalla città. Il figlio del rabbino si accorse che stavano percorrendo una strada quasi interamente ricoperta da erbacce e da una fitta boscaglia. E vide che erano veramente in pochi a percorrerla. Finalmente arrivarono.
Il figlio del rabbino uscì dal carro e si avvicinò a una casetta tutta ricoperta di muschio e di ragnatele. Aprì la porta e vide un defunto guardiano, tutto avvolto dalla testa ai piedi in un sudario. In silenzio, senza pronunciare una sola parola, il defunto lo fece entrare. Il figlio del rabbino entrò e vide una lunga tavola e vide attorno alla tavola dei vecchi intenti a studiare la Gemarah; accanto a ciascuno sotto il tavolo c’era una scatola di pane azzimo. A chi fosse venuta fame avrebbe potuto, chinandosi, prendere un pezzetto di matze2 e mangiarselo senza dover per questo interrompere lo studio. Allora il figlio del rabbino cominciò a interrogare quei vecchi.
“Non sapete voi, raboysay3, dove può trovarsi mio padre, il famoso rabbino di Sklov?”
Gli risposero quei dotti:
“Tuo padre non lo abbiamo mai visto, né di lui abbiamo mai sentito parlare.”
Il giovanotto ne fu sbigottito:
“Come sarebbe a dire, possibile che per mio padre, per quell’uomo santo, come testimoniato da tutti coloro che lo hanno conosciuto, non ci sia posto tra i dotti degni di entrare in Paradiso? Possibile che il famoso rabbino di Sklov abbia commesso tali peccati occulti a causa dei quali il Signore non lo ha lasciato entrare in questo posto?”
Che fare? Il figlio del rabbino doveva tornarsene indietro. Uscendo vide che sulla porta era sospesa una grande mensola, e che su quella mensola se ne stava seduto un vecchio ebreo con una lunga barba, tenendo tra le mani un pentolino con una specie di zuppa.
“Ho fame!” gridò, ma la zuppa non se la mangiava.
Il figlio del rabbino uscì dalla casetta, sedette sul carro e se ne ritornò a Sklov. Una volta tornato pensò: “Dieci rubli ho già spesi, ne spenderò altri dieci e andrò in Purgatorio. È possibile che mio padre si sia macchiato di un qualche peccatuccio insignificante e così lo hanno mandato temporaneamente in Purgatorio per poi ammetterlo stabilmente in Paradiso.”
Andò quindi a ingaggiare lo stesso balagole, ma questa volta imboccarono un’altra strada, che da Sklov portava fino in Purgatorio.
Il figlio del rabbino si rimise, dunque, in viaggio stupendosi della differenza tra la strada per il Paradiso e questa che invece conduceva al Purgatorio. La strada verso il Paradiso era deserta, invasa da sterpi e da erbacce, mentre questa era una vera strada, ben costruita, bella ed era percorsa con chiasso e con stridii da molti carri.
Arrivarono a una casa bella e alta. Si era sul far della sera, le finestre della casa erano illuminate tanto che la luce poteva essere vista a un miglio di distanza.
Il figlio del rabbino entrò nel Purgatorio e subito riconobbe dei volti noti: erano tutti musicanti di Sklov, il violinista Beynesh, il percussionista Berche, il flautista Shmul-Yosef, e anche molte belle ragazze che danzavano accompagnate dalla musica di un’orchestra klezmer, di quei vecchi musicanti klezmer che suonavano benissimo in questo mondo e che ancora meglio stavano suonando nell’altro. Anche le belle ragazze che sapevano ballare bene in questo mondo si poteva vedere quanto ballassero meglio in quell’altro. Allegria e danze a non finire.
“Reb Beynesh, reb Berche, reb Shmul-Yosef!” si rallegrò il figlio del rabbino. “Come va? Come ve la passate qui? Vedo che questa qui da voi non è vita, ma nettare: musica a non finire, danze a non finire, si confà particolarmente all’animo mio. Spiegatemi che cosa significa tutto ciò?”
Gli risposero i musicanti:
“Noi ti risponderemmo volentieri, amico nostro, ma purtroppo dietro di noi ci sono dei diavoli. Così, finché suoniamo, loro se ne restano tranquilli, ma se ci si distrae anche per un solo secondo, loro ci afferrano per la gola e cominciano a soffocarci. Ecco che sono già ventotto anni che suoniamo senza mai un intervallo, senza mai fermarci un solo istante. Ci siamo già ammalati suonando, già mille volte siamo svenuti per la stanchezza! Guarda che enormi gocce di sudore scorrono lungo i nostri volti, ogni goccia è grande quanto un fagiolo!”
Allora il figlio del rabbino chiese a quei musici:
“Mio padre è morto da poco. Sono andato a cercarlo in Paradiso ma non l’ho trovato. Probabilmente si trova qui in Purgatorio, non sapete dirmi come fare a trovarlo?”
Gli risposero i musici:
“Qui non c’è, questo lo sappiamo per certo.”
Udendo queste cose il figlio del rabbino ne rimase colpito: com’era possibile? Per il santo rabbino di Sklov non si era trovato posto né in Paradiso, né in Purgatorio!
Uscendo dal Purgatorio il figlio del rabbino vide di nuovo seduto su una mensola sovrastante la porta di ingresso, il vecchio ebreo dalla lunga barba che aveva già veduto. Come faceva in Paradiso, teneva tra le mani un pentolino di zuppa e, senza toccarla, gridava:
“Ho fame!”
Tornato a Sklov, al figlio del rabbino venne fatto di pensare: “Da qualche parte mio padre dovrà pur stare! Se non è finito in Paradiso e neppure in Purgatorio, allora probabilmente sarà all’Inferno. Un rabbino non può perdersi così! Le ricerche di mio padre mi sono già costate venti rubli, ne investirò altri dieci: vado a cercarlo all’Inferno!”.
Ingaggiò quello stesso balagole, gli pagò i dieci rubli e partì.
Imboccando la strada che conduceva all’Inferno, il figlio del rabbino ne ammirò la bellezza, l’ampiezza, la vivacità del traffico, il chiasso. Carri e carrozze di tutti i generi. Sembrava che fosse la strada stessa a correre, ad affrettarsi, a scorrere. Il carro si fermò davanti a un’enorme casa di cento piani. Tutte le finestre erano illuminate dalla luce elettrica, la luce era proprio accecante.
Il figlio del rabbino socchiuse la porta e vide che le funzioni del portiere erano svolte dall’antenato Abramo in persona. Entrò nell’ingresso e chiese il permesso di accomodarsi in casa.
“Se sei un circonciso, entra senza indugio”, rispose Abramo.
Una volta dentro, il figlio del rabbino di Sklov si fermò confuso non sapendo dove andare a cercare il padre.
“Chi stai cercando?” gli chiese l’antenato Abramo. Il figlio del rabbino gli raccontò delle sue ricerche, chiedendogli di suggerirgli come trovare suo padre. “Sì”, disse l’antenato, “effettivamente egli è qui. Lavora come fuochista. Lancia la legna nella caldaia. Puoi incontrarlo.” E dette al figlio del rabbino una tessera d’ingresso per il locale caldaia.
Quando il figlio del rabbino entrò nel locale caldaia lo colpì un’enorme ruota che girava. Su quella ruota migliaia di ganci, e a ciascun gancio era appeso un rabbino. La ruota girava e con essa i rabbini: uno in alto, uno in basso, senza mai una pausa, la ruota era mossa dal vapore, e lo stesso rabbino di Sklov non faceva che lanciare legna dentro la caldaia.
“Sei tu, papà! Che fatica trovarti: ti ho cercato in Paradiso, poi in Purgatorio e finalmente ti ho trovato qui. Racconta: come te la passi?”
Senza smettere di gettare la legna, il rabbino di Sklov rispose:
“Io la parte mia l’ho già fatta. Un intero mese sono stato appeso come quelli lì sulla ruota. Ora mi hanno tolto e la punizione primaria è terminata. Io sono diventato uno ‘libero’ e mi hanno assegnato a un lavoro ‘libero’, volontario. L’unica cosa che non va è che mi dispiace di vedere tutti questi rabbini appesi alla ruota …”.
Ma neanche una parola sul perché fosse finito all’Inferno. Né sul perché vi si trovassero tanti rabbini.
Il figlio passò col padre alcune ore. Parlarono a volontà. Arrivò il momento del commiato, giacché, secondo la legge, chi tra gli ospiti fosse rimasto nell’Inferno dopo la mezzanotte, vi sarebbe rimasto per l’eternità. Uscendo dall’Inferno il figlio del rabbino anche qui notò sopra la porta una mensola dove, come in Paradiso e in Purgatorio, stava seduto quello stesso ebreo dalla lunga barba con in mano lo stesso pentolino pieno di pastume. Ma questa volta se la divorava con tale appetito da grondare addirittura di sudore.
Il figlio del rabbino non riuscì a trattenersi e chiese all’affamato:
“Reb yid! Perché mai non volevate mangiare in Paradiso, dove tutto è calmo e tranquillo, ma vi siete precipitato all’Inferno, dove c’è tanto chiasso e tutto è scomodissimo, e dove fa male guardare le sofferenze dei rabbini?”
“Risponderò, figlio mio, alla tua domanda. Io avevo della purea nel pentolino. Una purea di carne, che però era stata rimestata con un cucchiaio da latte. Ne nacque un problema rituale ma né in Paradiso né in Purgatorio si sono trovati rabbini in grado di risolverlo. Lì non c’erano rabbini, perché erano tutti finiti all’Inferno. Io ero mortalmente affamato, ma non potevo mangiare finché un rabbino non me lo avesse permesso. Avevo del cibo tra le mani ma non me lo potevo mandare giù. Mi sono perfino messo a gridare. Dopodiché sono arrivato fin qui e cosa vedo? Questa ruota, piena zeppa di rabbini. Tutti loro sono qui per aver vietato a povera gente di mangiare del cibo di incerta natura. Naturalmente qui non se la sono sentita di definire la mia zuppa treyfe4 mi hanno permesso di mangiarmela.”
Allora il figlio del rabbino di Sklov capì finalmente perché un uomo santo come suo padre e gli altri rabbini fossero tutti finiti all’Inferno.
- Balagole (dall’ebraico baal agalà, padrone del carro) era chiamato il vetturino ebreo che portava viaggiatori da un villaggio all’altro.
- Matze (dall’ebraico matzà, azzima).
- Rabosay (dall’ebraico rabbotài, miei maestri), qui vale “signori”.
- Treyfe (dall’ebraico tarèf, non kashèr).