L’inutile conversione al cattolicesimo di Irène Némirovsky che finì ad Auschwitz e poi fu accusata di antisemitismo
Luca Scarlini
Irène Némirovsky (19031942) è una presenza importante di quel variopinto mondo di emigrés russi, stabilitosi a Berlino e Parigi, prima di ulteriori esodi sulle rotte della storia, dopo la Rivoluzione d’ottobre, dai cui ranghi sono uscite voci come quella di Mark Aldanov, Nina Berberova e soprattutto, ovviamente, Vladimir Nabokov. Ucraina di Kiev, figlia di un facoltoso uomo d’affari, Irène Némirovsky giunse nella capitale francese dopo un soggiorno in Finlandia, scegliendo di scrivere immediatamente nella lingua del paese di adozione, parlata fin dall’infanzia nelle famiglie facoltose della Russia prerivoluzionaria. L’esordio con David Golder (1929) la definisce immediatamente per i suoi interessi principali: il racconto della relazione con un universo familiare claustrofobico, di difficile se non di impossibile comprensione, osservato con uno sguardo acuto in cui entrano in gioco anche considerazioni sui risvolti più amari dell’esistenza, con un’attenzione alla dimensione etica delle azioni che la apparenta talvolta a certi percorsi di François Mauriac e Georges Bernanos. Il rapporto tra il protagonista, un finanziere rovinato, e la figlia Joyce è infatti l’asse principale di questa cronaca di abiezione e di riscatto, che ha una dimensione esplicitamente autobiografica. Grande successo raccolse questo lavoro, come testimoniano ben due versioni cinematografiche dell’opera: una di Julien Duvivier (1930) e l’altra, forse più nota, di ambientazione statunitense, realizzata nel 1951 da Gregory Ratoff con il titolo di My daughter Joy, in cui il ruolo del protagonista era magnificamente interpretato da Edward G. Robinson.
Riconoscenze postume
Lo scorso anno in Francia, dove la sua notorietà con alcuni periodi di oblio non si è mai interrotta del tutto, questa autrice è stata di fatto ascritta al canone novecentesco dopo la clamorosa assegnazione del Prix Renaudot 2004, per la prima volta postumo, al notevole Suite Française, ritratto di un mondo sull’orlo dell’estinzione tracciato nel 1940, organizzando una materia incandescente all’interno di una sofisticata struttura musicale. La sua fama peraltro è stata ribadita anche dalla pubblicazione di un’appassionata biografia, Le mirador, firmata nel 1992 dalla figlia scrittrice Élisabeth Gille, che presenta al pubblico un itinerario esistenziale abbastanza paradossale, destinato a concludersi con il gesto tragico di rifiutare la possibilità di fuga e un secondo esilio, scegliendo di prendere il treno che la porterà alla meta finale di Auschwitz, dove venne deportata malgrado la conversione cattolica al cattolicesimo avvenuta nel 1939.
In Italia la sua opera aveva suscitato tempestivamente attenzione dagli anni trenta, sull’onda di un vasto consenso internazionale, e vari suoi titoli erano stati pubblicati (David Golder, 1932; L’affare Curilov, 1934; Il vino della solitudine 1947), mentre per avere nuove proposte era necessario attendere la fine degli anni ottanta, quando Feltrinelli aveva mandato in libreria Le mosche d’autunno (1989) e una nuova versione dell’opera di esordio (1992) seguita dalla Giuntina. Adelphi ora riprende il discorso inserendo l’autrice nel suo catalogo a partire da uno dei suoi capolavori, Il ballo, splendido racconto di un’adolescenza inquieta, portato al cinema nel 1931 da Wilhelm Thiele con una giovane e bellissima Danielle Darrieux che qui debuttava.
Al centro di questa ombrosa parabola sta infatti il ritratto di Antoinette, figlia della terribile madame Kampf, moglie di un ebreo arricchito e smanioso di affermazione sociale. La protagonista è sempre in lotta con lei che la vuole a tutti i costi confinata in un grottesco ruolo di bambina fuori tempo massimo, per evitare di dover ammettere gli anni di miseria trascorsi. Tutta l’attenzione della seconda si concentra quindi nell’organizzazione di un grande ballo che dovrebbe consacrare il suo nuovo status confermato anche da un nuovo indirizzo prestigioso; dalla festa decide a tutti i costi di tener lontana la rampolla, innescando una reazione catastrofica. Questa infatti, per vendetta e approfittando di un intrigo sentimentale della schwester, non spedisce gli inviti e nessuno si presenta alla ratifica della tanto agognata promozione sociale, che diventa così uno smacco orribile sotto gli occhi di una parente povera, inopinata testimone del disastro. Le relazioni sociali risultano qui una gabbia impossibile da scardinare e nessuna comunicazione avviene tra i personaggi, se non nella dimensione di una pura e semplice funzione cerimoniale del linguaggio, proprio come avviene anche in uno dei romanzi maggiori, Il vino della solitudine, in cui la giovane protagonista Hélène celebra violenti riti verbali per prendere le distanze dall’odio che nutre contro la madre fatua e il padre affarista.
Quel lato in ombra delle relazioni umane
Nella stessa direzione, sia pure con ambientazione assai diversa, va anche un’altra prosa breve di grande incisività, Un bambino prodigio, in cui l’ambientazione si spostava in quell’area ebraica che nell’epoca zarista, decisamente segnata da leggi antisemite, si chiamava Zona di residenza. Sulle rive del Mar Nero si svolge infatti la vita del giovane ebreo Ismael Baruch, che rifiuta drasticamente l’ubbidienza famigliare, scegliendo di vivere al porto, luogo di “popoli del Levante che sapevano di aglio, di mare e di spezie che il mare aveva raccattato da tutti gli angoli del mondo e gettato là come schiuma”. Un’osteria sarà quindi teatro della rivelazione del suo talento poetico, straziante e doloroso, che si manifesta sotto forma di canzoni d’amore disperato, amatissime da tutti gli avventori.
Sia che si parli dei salotti parigini che frequentava, della cosmopolita comunità ebraica di cui mette in luce gli aspetti più spiacevoli o dei bassifondi delle città russe, nelle opere di Némirovsky è evidente un’attenzione per il lato in ombra delle relazione umane, per quella zona di non espresso e di rimosso in cui si trovano, spesso, le più vere motivazioni dell’agire sociale. In questo dichiara senz’altro l’influenza di Cechov, di cui declina le spietate analisi introspettive che portano alla ribalta un clamoroso teatro del desiderio.