Conversazione Rai – 9 di Av 5769, 29‐30 luglio 2009
Rav David Gianfranco Di Segni, Comunità ebraica di Roma
Mercoledì 29 luglio 2009, al tramonto, inizia quest’anno il digiuno del 9 del mese di Av, che terminerà la sera dopo, giovedì 30 luglio , allo spuntar delle stelle. Il 9 di Av è il giorno più triste e infausto del calendario ebraico. Non si beve e non si mangia per 25 ore, non ci si lava per piacere (ma solo per necessità), non ci si unge o profuma, non si calzano scarpe di cuoio, non si hanno rapporti coniugali, non ci si saluta. Perché questa atmosfera così cupa? Il motivo è che in questo giorno furono distrutti il Primo e il Secondo Tempio di Gerusalemme. Il primo, quello costruito dal re Salomone, fu distrutto circa 2500 anni fa per mano di Nabuccodonosor, re dei Babilonesi; il secondo, ricostruito dagli ebrei tornati in patria dopo 70 anni di esilio in Babilonia, fu distrutto 500 anni dopo dal generale romano Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano. Da quel momento iniziò la lunga diaspora del popolo ebraico che solo nel secolo scorso ha potuto fare un parziale ritorno nella sua terra.
Entrambi i Templi furono distrutti e dati alle fiamme nello stesso momento dell’anno. Sembra quasi che il 9 di Av sia un giorno predestinato alle disgrazie (e in effetti in questo giorno gli ebrei furono cacciati dalla Spagna nel 1492 ed accaddero altri avvenimenti luttuosi). Ma prima della distruzione del Tempio, questo giorno era già considerato infausto? Sì, lo era. In questo giorno, gli ebrei – appena liberati dalla schiavitù in Egitto, dopo aver passato il Mar Rosso e aver attraversato il deserto del Sinai – si rifiutarono, per paura, di entrare nella Terra Promessa e, fatto ancor più grave, protestarono con Mosè dicendo: “Non sarebbe meglio tornare in Egitto? Scegliamoci un comandante e torniamo in Egitto”. Gli ebrei preferivano tornare schiavi del Faraone piuttosto che affrontare le incognite e gli eventuali pericoli dell’entrata nella Terra Promessa. Il Sign‐re Idd‐o punì questo grave peccato di mancanza di fiducia in Lui, decretando che nessuno di quella generazione sarebbe entrato nella Terra Promessa (salvo Giosuè e Calev, gli unici che erano favorevoli). Dovettero passare altri 40 anni di peregrinazioni nel deserto del Sinai prima che si formasse una nuova generazione, finalmente libera dalla schiavitù egiziana anche esistenzialmente, non solo fisicamente, una generazione che potesse essere capace di
fondare un nuovo stato nella Terra d’Israele. Secondo il Talmud (la monumentale opera che affianca, spiega e commenta la Bibbia), D‐o disse a quegli ebrei che si erano mostrati più attaccati al passato che al futuro: “Voi avete pianto invano stasera, allora piangerete per un motivo reale, in questa sera, nelle future generazioni!”.
Scrive Emanuel Levinas, in una mirabile lezione, fra le Quattro lezioni talmudiche: “Le lacrime delle anime belle sono pericolose quando sono senza motivo. Fanno venire le sciagure reali a somiglianza di quelle immaginarie.…”. Assistiamo al paradosso, dice Levinas, per cui la data dell’esilio degli ebrei dalla Terra d’Israele è fissata ancora prima
che gli ebrei siano entrati nella Terra! “Un paese che rigetta i suoi abitanti, quando ancora non sono giunti”.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Esilio in ebraico si dice “golà”. È interessante notare che nel Talmud il termine golà non è utilizzato, per lo più, per indicare la diaspora del popolo ebraico. (Peraltro, il Talmud – almeno quello babilonese – è stato scritto 1500 anni fa, per l’appunto, in Babilonia, quindi in esilio, dai discendenti degli ebrei portati là da Nabuccodonosor, 1000 anni prima). Nel Talmud l’espressione “andare in golà” (andare in esilio) vuol dire “andare nelle città‐rifugio”. Le città‐rifugio furono istituite da Mosè e da Giosuè, mettendo in pratica un comando divino che si trova nel quarto libro della Bibbia, Bemidbar (Numeri, al cap. 35, e in altri passi). Le città‐rifugio erano delle città in cui doveva andare, obbligatoriamente, un omicida involontario. Si chiamavano “rifugio” perché permettevano all’omicida di difendersi dalla vendetta dei parenti della vittima uccisa involontariamente. D’altra parte, la Torà parla chiaro: per l’omicida involontario andare nella città‐rifugio non è un diritto, bensì un obbligo. E deve rimanere là fino alla morte del Sommo Sacerdote. Solo dopo di ciò l’omicida involontario potrà tornare nella propria città. In questo senso la città‐rifugio è una sorta di esilio. Il motivo di questa norma è che ogni omicidio, pure quando è involontario, è comunque accompagnato da una certa negligenza da parte dell’omicida. E questa negligenza va punita. Come dice Levinas su questo argomento in un’altra illuminante lezione, in Al di là del versetto, si ha sì la protezione dell’innocente dalla vendetta dei parenti della vittima ma anche la punizione dell’oggettivamente colpevole. Si tratta di persone “semi‐colpevoli, o semi‐innocenti”.
Cosa ha a che fare questa norma con la diaspora del popolo ebraico? Dicono i Maestri del Chassidismo, il movimento mistico sorto fra gli ebrei d’Europa centro‐orientale nel 1700, fondato dal Ba’al Shem Tov, che la “golà”, l’esilio che il popolo d’Israele sopporta da duemila anni, è in un certo senso la sua “città‐rifugio”. Siamo tutti “semi‐colpevoli, o semi‐innocenti”. Stiamo sì fuori dalla nostra terra, ma siamo in un rifugio.
Ma come si può dire una cosa del genere, “quando i nostri occhi vedono” le angherie e i massacri che gli ebrei hanno subito nella diaspora? In particolare nei luoghi dove il Chassidismo è sorto, in cui la stragrande maggioranza degli ebrei che vi vivevano è stata sterminata – prima, durante e perfino dopo la Shoà.
Una risposta può forse venire da una norma stabilita dal Talmud a proposito delle città‐ rifugio. Dato che la Torà afferma che le città‐rifugio hanno la funzione di permettere all’omicida involontario di “vivere” , sfuggendo alla morte per mano dei parenti della vittima, il Talmud si chiede cosa significa “vivere”. E la risposta sorprendente, ma non poi così tanto per chi conosce il mondo ebraico, è che per “vivere” si intende non solo aver da mangiare e da bere, vestiti e quant’altro, ma anche e soprattutto la possibilità di studiare Torà. E quindi, insieme all’omicida involontario, si manda in esilio anche il suo Maestro, in modo che possa continuare a studiare. E insieme al Maestro, va in esilio anche tutta la sua scuola, altrimenti i suoi allievi, privi di una guida, smetterebbero di studiare proficuamente. A tal punto arriva la sete di sapere e di studio agli occhi dei Maestri del Talmud.
Scrive Levinas: “La relazione tra maestro e allievo è una struttura sociale stabile; il discepolo ha il diritto di esigere che il maestro lo raggiunga nella città‐rifugio, e il maestro che i discepoli lo seguano. La relazione spirituale tra maestro e allievo è forte quanto la relazione coniugale”.
Ecco, forse è lo studio della Torà, che ha accompagnato gli ebrei in esilio, ad averli protetti dai massacri e che, nonostante tutto, “li ha fatti vivere”.
Una volta un rabbino, chassid dei Lubavitch, mi disse, essendo io appena arrivato a decine di migliaia di chilometri di distanza dalla mia città natale, Roma, che mi trovavo “in una golà dentro la golà”, “in un esilio dentro l’esilio”. Era proprio vero. Ma appena entrai nella sinagoga locale e nella yeshiva, l’accademia in cui si studia la Torà e il Talmud, mi ritrovai subito a casa mia.
Con la speranza che il 9 di Av e gli altri giorni tristi possano trasformarsi presto da giorni di digiuno in giorni di festa e di gioia, come dice il profeta Zekharià.